Al lavoro! Ma lontano dall'azienda

Da: Notiziario del Lavoro N. 75, Novembre 1995

di Patrizio Di Nicola,

Sociologo

L'applicazione su larga scala del telelavoro ha come effetto immediato la libertà dalla schiavitù dei trasporti e la riduzione dell'inquinamento.

Nell'attuale fase di transizione vanno considerati tutti gli aspetti che possono consentire un suo sviluppo rapido e valutati con attenzione le problematiche che esso pone. In particolare, per ciò che attiene agli aspetti di carattere organizzativo, la valutazione delle prestazioni individuali dei telelavoratori e, per gli aspetti di carattere sociale, i rischi di commistione tra tempo di vita e tempo di lavoro.


Erano stati necessari tanti sforzi, tante lotte e tanto tempo. Convertire alle regole dell'industria popolazioni dedite alle attività artigianali e all'agricoltura non era stata un'operazione indolore. Bisognava inculcargli il senso del tempo industriale e spostarli fisicamente dalle loro case verso luoghi giganteschi, attrezzati per produrre, in gran numero, un solo oggetto.

Dalla bottega all'home office

In America gli operai provetti, quelli che facevano il bello e il cattivo tempo nelle fabbriche pre-produzione di massa e sotto il cui cappello, per dirla con una fortunata espressione di Bill Haywood, un capo sindacale dell'epoca, "stava il cervello del Manager", (1) resistevano con tutti i mezzi agli alfieri dello Scientific Management. I quali predicavano la regolarità della prestazione lavorativa e si accanivano contro le cattive abitudini degli operai del secolo scorso. Non ultima la pittoresca usanza di rallentare la produzione il lunedi, quando c'era da smaltire la sbronza della domenica, per poi accelerare il ritmo durante il resto della settimana. (2) Nel raccontare la sua lotta contro il soldiering (3) Friederick W. Taylor ricorda che proprio i "capoccia operai" erano, a volte, quasi riusciti nell'intento di farlo cacciare dalle fabbriche ove tentava di introdurre i suoi principi di direzione accusandolo di "far girare troppo velocemente, fino a guastarle" le macchine del padrone. Speedy Taylor, era questo lo spregiativo nomignolo che gli avevano affibbiato alla Midvale Steel Company (4). Come che sia, grazie anche a Ford e alla sua catena di montaggio, la produzione di massa, esportata in tutto il mondo, riuscì ad avere la meglio sulle abitudini lavorative che avevano alimentato la vita operaia in fabbrica per tutto l'Ottocento (5). Ora ci si svegliava davvero tutti insieme, al suono della sirena, e si cominciava a lavorare all'unisono. La grande convenienza dei manufatti industriali aveva già messo in difficoltà le professioni artigiane (6); le buone paghe, che A. Gramsci individuò subito essere soltanto una "forma transitoria di retribuzione" (7), destinata a scomparire quando il processo di adattamento ai nuovi modi di lavorare si fosse compiuto, fecero il resto.

Questo modo di produrre ha resistito, tutto sommato e nonostante la crescente terziarizzazione dell'occupazione, sino ai giorni nostri. E' solo nei tempi più recenti, infatti, che si fanno strada nuovi paradigmi produttivi che assestano un serio colpo alla centralità della produzione di massa. La quale viene, di volta in volta, sostituita da quella customer oriented, magari condita di Total Quality e, naturalmente, lean. Le aziende si delocalizzano, sfruttano le reti (di comunicazioni, di ricerca, urbane) esistenti e caldeggiano la nascita di nuove infrastrutture, divengono esse stesse "a rete" (8). In questo contesto prendono piede nuove forme di prestazioni lavorative, un tempo definite atipiche e oggi, invece, sempre più "tipiche". Il telelavoro è una di queste, forse non la più importante, almeno se la valutiamo in base al numero di lavoratori coinvolti. Ma senza dubbio la più affascinante. Il telelavoro colpisce l'immaginario collettivo per vari aspetti: l'uso delle nuove tecnologie, la possibilità di lavorare senza spostarsi da un angolo del proprio appartamento, la potenziale libertà dalla schiavitù dei trasporti (9), gli effetti sistemici sulla vita collettiva, primi fra tutti la riduzione dell'inquinamento e il miglior utilizzo degli spazi urbani.

Le esperienze di telelavoro

Di telelavoro si parla sin da quando non erano ancora disponibili quei mezzi, come i fax, i computer "personali" e le reti di comunicazione digitali che lo rendono oggi tecnicamente possibile e utilizzabile su larga scala (10). Il telelavoro era materia più per futurologi che non per scienziati sociali o ingegneri. J. Martin e A. Norman, ad esempio, sin dalla fine degli anni Sessanta predicono che le nuove tecnologie favoriranno il ritorno all'industria casalinga, «con il filatoio sostituito dal terminale del computer» (11). Sulla stessa falsariga M. Webber che, in un articolo del 1968, affascina i lettori con la possibilità di rimanere, grazie alle reti di trasmissione dati, in contatto "intimo, realistico e in tempo reale" con i propri affari pur standosene tranquillamente in cima ad una montagna (12). Lavoro e tempo libero, lavoro e vacanza si intrecciano, come nella improbabile e affascinante utopia ecologista di E. Callenbach: «la distinzione tra lavoro e non-lavoro in Ecotopia sembra in via di sparizione, insieme con la nostra concezione del lavoro come alcunché di separato dalla "vita reale". Gli ecotopiani, per quanto incredibile, si divertono a lavorare» (13).

La lista degli entusiasti del telelavoro, sino ai giorni nostri, potrebbe allungarsi a dismisura. Come anche quella delle profezie sbagliate che, basate spesso soltanto sui trends tecnologici, preconizzavano, all'inizio degli anni settanta o ottanta, l'esistenza di milioni di telelavoratori di lì a una diecina di anni (14). Anche la lista dei detrattori del telelavoro è lunga. Questi, come riassume W.J. Mitchell, vedono nell'eliminazione della distinzione spaziale e legale tra casa e lavoro una strategia insidiosa per decentralizzare e far proliferare le Dark Satanic Mill, per togliere ai lavoratori ogni possibilità di trovare un rifugio lontano dal posto di lavoro, per incoraggiare l'allungamento dell'orario, per impedire l'organizzazione sindacale, e, infine, per relegare di nuovo le donne tra le mura domestiche (15). Rischio, quest'ultimo, tutt'altro che teorico, come dimostra l'emblematica testimonianza di una telelavoratrice danese intervistata per una ricerca: «Ho l'impressione di non sapere più cosa sta succedendo. Anche quando telefono ai vecchi colleghi, non è più la stessa cosa, non faccio più parte del gruppo» (16). Apologeti e detrattori hanno la loro parte di ragione e, anche, qualche responsabilità per la situazione attuale, che può essere definita di transizione. Da una parte esiste, come detto, la condizione tecnica indispensabile per la proliferazione su vasta scala dei telecommuting jobs: i PC sono di uso comune in molti impieghi e professioni; le aziende, anche quelle medio-piccole, dispongono di LAN digitali, facilmente raggiungibili dall'esterno; i network geografici, grazie alle tecniche TCP/IP di interconnessione di reti (sulla quale è basata, ad, esempio, Internet) sono accessibili facilmente e sempre a minor costo. Dall'altra, la massa di informazioni imprecise o contraddittorie, specialmente se relative all'impatto sull'organizzazione e sulle relazioni interne, stupisce le aziende e frena la sperimentazione. Così il numero di telelavoratori, anche qualora li si intenda in senso allargato (17), rimane basso: a secondo delle stime, tra il 3 e il 6% della forza lavoro negli Stati Uniti e in Gran Bretagna; appena 360.000, invece, in questi stessi due paesi, i dipendenti con un contratto di telelavoro. Una situazione a dir poco deprimente, specialmente se si considera che negli Stati Uniti lo sviluppo del telelavoro è discretamente assistito dalla legislazione federale o statale sul contenimento dell'inquinamento. La Clean Air Act del 1990 e la legge 3923 promulgata nel 1994, infatti, obbligano le grandi aziende a ridurre il numero di dipendenti che utilizzano l'auto privata per i loro spostamenti da e verso l'ufficio, assegnando anche cospiqui incentivi fiscali a chi converte posti fissi in lavori a distanza. In quel paese, inoltre, il telelavoro ha dato più volte prove tangibili della sua utilità sociale come, ad esempio, durante i terremoti che hanno colpito la California nel 1989 e nel 1994 (18). Nel caso inglese (e europeo in generale) la spinta verso il telelavoro proviene invece principalmente dalla Commissione Europea, che da anni mette a disposizione fondi per la sua sperimentazione. Anche se soltanto di recente, con il Rapporto Bangemann, ha fissato con chiarezza gli obiettivi di tali sperimentazioni (19).

Ma chi è il telelavoratore? E chi lo sarà in futuro? Nonostante gli sforzi compiuti da molti studiosi, rimane difficile anticiparne un identikit, forse anche perché gli esperti ritengono siano molte le attività "telelavorabili".(20) I casi sinora più noti si riferiscono quasi sempre ad attività che, come afferma il consulente americano G. Gordon, «esulano dalla necessità di essere misurate al minuto» (21). Se escludiamo quindi i casi, frequenti ma poco generalizzabili, di chi lavora da casa "per abitudine" (giornalisti, scrittori, ricercatori, traduttori, grafici, ecc.) e ci concentriamo sui casi di telelavoro organizzati e collettivi, vediamo che in letteratura si parla prevalentemente di mansioni medio-alte, legate ad attività di sviluppo del software o, comunque, alla produzione informatica (i sistemisti della Xerox di Palo Alto, della IBM tedesca, della Italtel italiana). O, ancora, a lavori che già si svolgevano all'esterno dell'unità produttiva, come nel caso dei venditori o di chi fornisce assistenza ai clienti. In tutti questi casi la maggioranza dei telelavoratori è di sesso maschile. Per trovare una massiccia presenza di donne nel telelavoro dobbiamo invece spostarci su attività semplici, anch'esse contraddistinte dall'uso estensivo di strumenti informatici - utilizzati però essenzialmente per il data entry - come nel caso delle impiegate della Folksam svedese o della New York Life americana, due compagnie assicurative. In questi casi, anziché dalla propria abitazione, la teleattività si svolge in centri satelliti delocalizzati, opportunamente attrezzati per restare in contatto continuo con le case madri. E anche per misurare la produttività delle telelavoratrici. Insomma, sinora sembrano aver ragione E. Gunnarsson e G. Vedel, che al termine di una estensiva ricerca notavano come, anche nel telelavoro, «la programmazione e le decisioni restano a livello centrale». Concludendo, con una certa amarezza, che agli imprenditori interessa collocare nel telelavoro «una forza lavoro con retribuzioni relativamente basse in settori ove l'attività sindacale, le richieste di aumenti salariali, le rivendicazioni per un miglioramento delle condizioni di lavoro sono meno sentite» (22).

Non mancano, nel panorama attuale, anche aziende che fanno un uso spregiudicato del telelavoro e che, così, contribuiscono ad alimentare le diffidenze di lavoratori e sindacati. Due casi per tutti: la Eastman Kodak di Rochester (una società "union free"), che ha ristrutturato il proprio sistema informatico per permettere ai propri dipendenti di lavorare da casa oltre il normale orario che si svolge in ufficio (23). E in maniera non dissimile si comporta anche la Microsoft del multi miliardario Bill Gates, i cui dipendenti possono (ma in pratica debbono) collegarsi al network aziendale 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Qui, per la verità, esiste un'attenuante: come in altre imprese americane, vari dipendenti sono interessati alle sorti della società in virtù di un complesso schema di profit sharing. E gli esclusi, logicamente, devono dimostrare di essere così affidabili da poter avere il privilegio di guadagnare qualche millesimo di cent per ogni copia di Windows 95 o di enciclopedia multimediale che verrà venduta.

Manager e operai nel telelavoro

Lavorare a distanza sarà senza dubbio una scelta agevole per chi svolge compiti già di per sè "belli" e gratificanti, in cui l'orario della prestazione non è, se non forse minimamente, legato al rendimento personale o alla valutazione individuale. Anzi, come sappiamo, alcuni lavori sono dotati di un alto status proprio in funzione del blando controllo che su di essi viene esercitato. Si pensi ai giornalisti, ai docenti universitari, ai manager. Nelle aziende, anche in quelle più tradizionaliste, lavorare "per obiettivi" e poter gestire i propri tempi è un riconoscimento importante, ma anche un po' una condanna, attribuito soltanto ai quadri migliori. Per questi il lavoro da casa, da un albergo sul lago, dall'automobile, con o senza un terminale connesso all'azienda, non comporta eccessivi problemi. E non è escluso che già senza telelavoro fossero impegnati anche durante il tempo libero. Basti ricordare i risultati cui giunge lo studio di J.B. Schor sull'America: «un occupato medio lavora oggi 163 ore in più (ndr: rispetto al 1969), l'equivalente di un mese di lavoro ogni anno» (24). La modifica dei tempi di lavoro è avvenuta quasi di soppiatto, come testimonia un manager intervistato dall'autrice: «Qualcuno potrebbe convocare una riunione straordinaria alle 8 di mattina. Dopo poco diventerà normale avere una riunione alle 8. Così le riunioni straordinarie si terranno alle 7 di mattina....» (25).

Telelavorare, per chi si trova in situazioni come quelle descritte, diviene principalmente un modo per semplificarsi la vita: riduce i tempi morti dovuti ai trasferimenti, permette di sfruttare gli "impeti creativi" nel momento in cui si verificano, forse aiuta anche a ritagliarsi un po' più tempo libero. La larga autonomia di cui godono i "quadri alti" (che normalmente possono decidere se e quando recarsi in ufficio) contiene, anche se non elimina, il rischio di isolamento dai colleghi e dalla struttura aziendale, che affligge tutti gli esperimenti di telelavoro (26). Ma cosa avviene quando il lavoro a distanza interessa persone che svolgono lavori di bassa professionalità? La questione è ancora tutta aperta, perché non esistono, almeno in Italia, vasti studi su esperienze significative. Anche la ricerca commissionata dalla SIP di Torino sul servizio 12 alcuni anni fa si riferiva all'atteggiamento nei confronti del telelavoro più che alla sua pratica (27) e, quindi, ci aiuta poco a rispondere alla domanda posta. E' però indubbio che il problema dell'estensione su larga scala del telelavoro a soggetti detentori di abilità professionali semplici debba essere affrontato, se non altro per sgomberare il campo dagli equivoci. Primo fra tutti quello che porta molti, nelle aziende, a pensare che il telelavoro possa essere utilmente adottato (per la sua convenienza immediata) per i soli lavoratori dell'inner circle. Ragionando in questo modo, infatti, si riduce la platea dei possibili interessati a schiere così ristrette che diviene quasi ridicolo lodare il lavoro a distanza per il grande impatto (migliorativo) che avrà, oltre che sull'efficienza e i costi aziendali, anche sulla vita sociale: decongestione dei centri urbani, riduzione dell'inquinamento, aumento del tempo libero (28). Ma è evidente che il telelavoro non potrà diffondersi disordinatamente, fuori di un assetto di regole, giuridiche e contrattuali, che ne evitino lo scadimento nell'area del lavoro nero: la disponibilità di Information Technology a basso costo, infatti, può rendere tutt'altro che teoriche anche forme di cyber-caporalato. Congeniale alla diffusione del telelavoro è anche la sua migliore conoscenza: non sono soltanto rose e fiori e le aziende debbono conoscere in anticipo i possibili problemi cui vanno incontro.

Progettare il telelavoro

Quali attenzioni sono necessarie per pianificare un esperimento di telelavoro per dipendenti di "fascia bassa"? Molte analisi sinora prodotte concordano: gli aspetti prioritari di cui tener conto sono, tutto sommato, riconducibili a due aree, quella organizzativa e quella sociale.

E' cruciale, per l'azienda, affrontare la questione della valutazione delle prestazioni individuali dei telelavoratori, alla luce del sistema di controllo gerarchico e del sistema premiante adottati per l'insieme dei lavoratori. E' noto, infatti, che anche in contesti caratterizzati da un'apparente rigidità e pre-codificazione della funzione premiante, esiste comunque una serie di eccezioni, spesso consistenti, intese ad attribuire un'alta discrezionalità di fatto a dirigenti, quadri intermedi e valutatori in genere. Si tratta, per lo più, di un'area grigia, non codificata, poco conosciuta, cresciuta ed affinatasi con le modifiche delle culture aziendali ma, quasi sempre, ritenuta fisiologica e funzionale al buon andamento dell'impresa. La valutazione del lavoro di altri non è mai oggettiva. Per questo ogni meccanismo informale, mentre migliora quello formale, lo trasforma anche in qualcosa di diverso. Diverso e potenzialmente ingiusto, in quanto può creare visibili diseguaglianze. Si pensi alla valutazione del lavoro femminile, che ottiene scoring generalmente bassi qualora si attribuisca molta importanza alla "disponibilità" temporale del lavoratore. Si tratta di problemi di non poco conto, che affliggono anche aziende ove il management si sforza di trattare "tutti allo stesso modo". (29) E' evidente che, qualora manchi l'interazione "fisica" tra capo e dipendente, diviene molto più difficile, al limite impossibile, la valutazione informale del lavoratore. Così, al senso di isolamento dalle strategie aziendali, spesso lamentato dai manager che lavorano a distanza, si viene ad affiancare, per i dipendenti di più basso livello, la doppia ingiustizia di essere inseriti in un sistema premiante che, di fatto, li esclude anche dalle valutazioni e di un lavoro che può estraniarli dai compagni.

Sono però gli aspetti di carattere sociale quelli che costituiranno l'area critica che si tenderà a sottovalutare. Il telelavoro (inteso nella sua accezione più classica: un lavoro che si svolge da casa) avrà l'effetto immediato di trasformare profondamente la "doppia presenza" femminile e, in misura minore, anche quella maschile (30). Con tale paradigma si intende quella particolare situazione che vede gli attori impegnati su due fronti: il lavoro produttivo (che si svolge fuori dalle mura domestiche) e quello di riproduzione sociale e cura (che si svolge invece all'interno). Con il telelavoro, pur rimanendo separate le due attività, si giunge all'unificazione del luogo in cui esse si esplicano. Quindi ad una condizione per alcuni versi anomala, specialmente se pensiamo non ad un libero professionista (31) ma ad un lavoratore dipendente. Quanto sarà facile e possibile per il lavoratore immaginare di essere fuori casa mentre si è dentro? E quanto e come la famiglia si ristrutturerà attorno al telelavoratore? (32). Illuminanti, per capire il dilemma che si genera, le interviste svolte da U. Huws nel 1981 su un campione di donne molto qualificate, professioniste del computer. Eccone alcuni brani: «Quando lavoravo in ufficio il mio lavoro godeva della stessa considerazione di quello di mio marito. Adesso è considerato una specie di hobby: va bene finché non interferisce con nient'altro». Oppure: «E' molto facile che ci si ritrovi ad essere la sgobbona di casa come sempre e a portare avanti il lavoro nel tempo libero. Con il risultato che non si ha più tempo libero». Ancora: «Chiunque sostenga che si può programmare con due piccoletti che ti gironzolano intorno, dice delle sciocchezze». Il contrasto tra la cura dei figli e il lavoro è un elemento ricorrente, tanto che una delle intervistate, alla domanda su quale fosse il maggior vantaggio del lavoro a domicilio rispondeva "stare tutto il giorno con i bambini» e, alla domanda sul principale inconveniente, dava la medesima risposta: «stare tutto il giorno con i bambini» (33).

Nel telelavoro, insomma, si genera una situazione tutt'altro che usuale, che va affrontata con strumenti analitici adeguati. Come, ad esempio, quelli basati sulla prospettiva drammaturgica, proposta dal sociologo canadese E. Goffman sul finire degli anni cinquanta (34). Alla base di tale approccio vi è la constatazione che, nella vita quotidiana, ciascuno tende a comportarsi come se fosse un attore: "interpreta una parte" e chiede a chi lo osserva «di prendere sul serio quanto vedranno accadere sotto i propri occhi», cioè la recita (35). Nello stesso modo si comportano anche gruppi strutturati di persone (le equipes), che trasmettono, con la loro rappresentazione, le caratteristiche del compito svolto anziché quelle del singolo attore. In questi casi «la definizione della situazione proiettata da un certo partecipante è parte integrale di una proiezione che è attivata e mantenuta dalla stretta cooperazione di più partecipanti» (36). Naturalmente ogni soggetto è, in momenti separati della sua giornata, attore su più palcoscenici: nel posto di lavoro, in famiglia, con gli estranei. Ognuno di questi poggia su regole peculiari che, di solito, non costringono l'attore a contraddirsi. Sul lavoro, ad esempio, a prescindere dai rapporti di familiarità esistenti tra un sottoposto e un superiore, in presenza di estranei, si dirà: "chiediamo al Direttore" anziché "parliamone con Marco". Lo stesso accadrà in famiglia, quando, durante una cena con conoscenti occasionali, moglie e marito giocheranno, a seconda dei casi, l'una il ruolo della sottomessa, l'altro quello della persone disponibile ai compiti casalinghi. Appartenere ad un'equipe, secondo Goffman, modifica sensibilmente i rapporti nel lavoro: «là dove i diversi status dello staff e della line tendono a dividere un'organizzazione, le equipes di attori possono tendere verso l'integrazione delle varie unità organizzative» (37). Ciò non implica che tra gli attori si instauri davvero un rapporto organico, nè che questo si sviluppi nel tempo. Esiste invece una intimità senza calore, cioè un rapporto formale offerto e accettato automaticamente al momento dell'ingresso nell'equipe. E' uno scambio che l'individuo può controllare agevolmente, in quanto dispone, a priori, degli elementi di base per calarsi nella recita: «quando un individuo assume una nuova posizione nella società e gli vien data una nuova parte da recitare, è probabile che non riceva chiare indicazioni sul come comportarsi, nè che i fatti della nuova situazione saranno fin dagli inizi così pressanti da determinare automaticamente la sua condotta» (38).

Il telelavoro rompe gli schemi della rappresentazione. L'individuo, da attore di un'equipe, diviene equipe a sua volta. Il palcoscenico cambia e si trasferisce, nel caso del telelavoro a domicilio, in un posto ove viene normalmente interpretato un ruolo diverso, basato sull'affettività. Ruolo che ancora esiste, come in passato, ma è modificato a sua volta dalla coesistenza con l'altro. Il pubblico che assiste alla recita si espande e si diversifica: dapprima soltanto i colleghi o i superiori, poi anche il nucleo familiare, il network amicale. Insomma, la sovrapposizione tra recite rende per l'attore estremamente più complessa la rappresentazione della vita quotidiana. E' evidente che, per alcuni, "perdere" il palcoscenico potrà essere accettabile soltanto se "il gioco vale la candela". Cioè se si mettono in atto una serie di azioni concrete atte a controbilanciare la perdita di aspetti importanti del lavoro vis a vis. Non tenerne conto potrebbe facilmente creare tensioni e contraddizioni all'interno della sfera familiare, sul lavoro e, infine, modificare profondamente la propensione dei soggetti a lavorare a distanza.

Cenni conclusivi

Fuggire dalla schiavitù dei trasporti spostando i bit anziché le persone è concettualmente assimilabile a una nuova invenzione della ruota. Chi non lo capisce è destinato all'estinzione e ad essere esposto in un museo della preistoria prossima ventura. Quindi è scontato che il telelavoro avrà un grande futuro. Forse. A certe condizioni. Come sempre un po' di realismo non guasta. Telelavorare sarà sicuramente una delle modalità preferite da coloro che svolgono attività libere, misurabili in base ai risultati, o svolte in aziende tecnologicamente avanzate. Purché, anche nel loro caso, si risolvano i problemi dell'isolamento, dai colleghi e all'interno della famiglia, e della visibilità da parte della gerarchia o del cliente. In una parola, che si affronti e si risolva la questione della valutazione informale del lavoro, che a sua volta è strettamente legata alle culture organizzative. Si tratta di un argomento che scotta in tutte le professioni: un giornalista che lavora principalmente fuori della redazione ha la stessa possibilità di far carriera di uno che passa dieci ore al giorno seduto alla sua scrivania, pronto ad accorrere ad ogni richiamo del direttore? E, in lavori più modesti, meno professionalizzati o, semplicemente, ai quali viene attribuito, anche dai familiari del lavoratore, uno status non particolarmente elevato, è saggio pensare che il rapporto di telelavoro si esaurisca tra dipendente e datore? Certamente si, se questo si svolge in centri satelliti appositamente adibiti. Ma il telelavoro a domicilio, che oggi grazie alla diffusione dell'informatica casalinga sembra essere la strada più immediatamente conveniente, dovrà tener conto di un fatto di non poca portata. La casa che diviene appendice dell'azienda è abitata da altre persone oltre che dal telelavoratore. I loro diritti affettivi come saranno rispettati? Mettere un computer e un fax in un angolo dell'appartamento non ha, evidentemente, lo stesso impatto del riservare una stanza per il nonno. E non parlo certo della questione abitativa, dell'arredo casalingo. Come sarà visto quell'apparato che isola, all'interno della famiglia, il telelavoratore per molte ore al giorno? Presente e assente, l'ufficio può divenire, per usare la metafora adottata da U. Huws, "elusivo" (39), ma anche invadente, inclusivo. Sta alla creatività delle aziende, dei sindacati, ma soprattutto degli scienziati sociali trovare soluzioni, se non perfette, almeno praticabili.

NOTE

(1) HAYWOOD, W.D., BOHN, F., Industrial Socialism, Chicago, s.d., pag.25, citato in MONTGOMERY, D., Rapporti di classe nell'America del primo '900, Rosenberg & Sellier, Torino, 1980, pag. 29.

(2) Gustosi affreschi di quell'epoca si trovano in GUTMAN, H.B., Lavoro, cultura e società in America, De Donato, Bari, 1979 e in NELSON, D., Managers And Workers, University of Wisconsin Press, Madison, 1975.

(3) Letteralmente "segnare il passo", come fanno i soldati. Una tecnica di autolimitazione della produzione messa in atto dagli operai più esperti.

(4) Si veda: TAYLOR, F.W., Deposizione davanti alla commissione speciale della Camera dei Rappresentanti [1914], in L'organizzazione scientifica del lavoro, Etas Kompass, Milano, 1967 e il recente WREGE, C.D., GREENWOOD, R.G., FREDERICK W. TAYLOR, The Father of Scientific Management. Myth & Reality, Business One Irwin, Homewood, Ill., 1991 (in particolare le pagg. 37-38).

(5) ACCORNERO A., Il mondo della produzione, Il Mulino, Bologna, 1994. (Si veda, in particolare, pag. 66 e seguenti).

(6) DOBB M., Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti, Roma, 1972 (in particolare vedi pag. 259 e segg.).

(7) GRAMSCI, A., Americanismo e fordismo, Einaudi, Torino, 1975, pag. 88.

(8) Il riferimento, ovviamente, è a BUTERA F., Il castello e la rete, F. Angeli, Milano, 1990.

(9) E' di questi giorni uno studio del Censis che stima, nelle grandi città, un costo orario per i trasporti dei lavoratori, oscillante tra le 50 e le 80 mila lire.

(10) E' senza dubbio vero, come afferma D. De Masi, che «il telefono è il minimo indispensabile per fare il telelavoro, per telefono posso sapere dal mio capo che debbo fare il un certo lavoro, lo posso fare, e poi con un pony posso inviarlo» (DE MASI, D., Intervento al seminario Assicredito sul telelavoro. Milano, 15 Marzo 1995, pubblicato in ASSICREDITO, Il telelavoro nelle banche e nelle assicurazioni, Roma, 1995, pag. 45), ma è altrettanto vero che non è con questo approccio naïf che si giungerà alla sua vasta diffusione. La massa di informazioni di cui ciascun lavoratore ha bisogno per svolgere il proprio task tende a divenire talmente elevata che difficilmente potrà essere trasmessa tramite una semplice telefonata. Si guardi il caso di chi scrive: una telefonata è stata sufficiente per concordare la fornitura di questo articolo e un'altra è bastata a trasmetterlo via fax. Ma la sola preparazione della bibliografia e qualche lettura aggiornata ha richiesto un computer sofisticato, un modem veloce e due ore di collegamento Internet con la rete bibliografica dell'Università di Bologna, con la Library of Congress americana e con qualche altro archivio specializzato in giro per il mondo.

(11) MARTIN, J., NORMAN, A.R., The Computerized Society: An Appraisal of the Impact of Computers on Society in the Next Fifteen Years, Englewood Cliffs, Prentice Hall, 1970.

(12) WEBBER, M.M., The Post-City Age, in Daedalus, n. 97, 1968, pag. 1091-1110.

(13) CALLENBACH, E., Ecotopia, Interno Giallo Editore, Milano, 1991, pag. 184.

(14) Per una rassegna di importanti previsioni errate si veda CEPOLLARO, G., Il turno in vestaglia. La prospettiva del telelavoro tra mito, problemi e realtà, in Sociologia del lavoro, n. 28, 1986, pag 150.

(15) MITCHELL, W.J., City of Bits: Space, Place, and the Infobahn, MIT Press, Cambridge, Mass., 1995 (in corso di stampa). E' esplicito il richiamo a: FORESTER, T. , The Myth of the Electronic Cottage, in Futures, n. 3, Giugno 1988, pag. 227-240.

(16) GUNNARSSON, E., VEDEL, G., Il lavoro a distanza, in MANACORDA, P., PIVA, P., Terminale donna, Edizioni Lavoro, Roma, 1985, pag. 117.

(17) Includendo, cioè, anche i lavoratori autonomi che usano le reti di comunicazioni per inviare, magari via fax, i loro prodotti (si pensi ai traduttori e ai giornalisti free-lance) e i telelavoratori "mobili", che sfruttano i telefonini cellulari e i notebook per collegarsi con i database aziendali. Ma, quest'ultima, non è una grande novità, almeno se si escludono i mezzi impiegati: anche i funzionari della Rural Electrification Administration degli Stati Uniti, sin dagli anni Trenta, usavano il telefono e il telegrafo per tenersi in contatto con il loro ufficio quando erano in viaggio all'interno della Nazione.

(18) In ambedue i casi erano stati distrutti, a San Francisco e a Los Angeles, le strade di comunicazione con i Business District cittadini. Così molti managers e impiegati scoprirono che, grazie ai computers e alle linee telefoniche, potevano continuare a lavorare anche da casa. Una lezione che ha portato sia il Governo della California che le compagnie telefoniche a considerare seriamente il telelavoro.

(19) E si tratta di scopi assai ambiziosi: 20.000 nuovi telelavoratori entro il 1995, conversione del 2% degli impieghi (da tradizionali a distanza) entro il 1996 e, infine, dieci milioni di nuovi posti di telelavoro entro il 2000. (Cfr. BANGEMANN, M. et al., L'Europa e la società dell'informazione globale, Bruxelles, 1994).

(20) Si veda, su questo aspetto, la ricerca Telelavoro oggi. Esperienze, opportunità e possibilità di applicazione, condotta da Teknova per conto dell'Associazione Interessi Metropolitani di Milano.

(21) Intervista pubblicata in Perspective, n. 4, 1993 e diffusa tramite Internet (http:\\www.wiltel.com\).

(22) GUNNARSSON, E., VEDEL, G., Il lavoro a distanza, cit., pag. 114.

(23) Intervista a GIL GORDON, cit.

(24) SCHOR, J.B., The Overworked American. The Unexpected Decline of Leisure, Basic Books, New York, 1993, pag.29.

(25) Ivi, pag. 18.

(26) Un solo esempio: un telelavoratore della Xerox, intervistato da Perspective, afferma che la mancanza di rapporto fisico con i colleghi (con i quali si scambia decine di e-mail al giorno) rimane un vero problema, tanto che, quando si reca in ufficio, spende gran parte della giornata a chiacchierare con colleghi e capi. (Perspective, n. 4, 1993 ).

(27) Per una descrizione dei risultati ottenuti si veda: BIANCO, M.L., Sentieri di innovazione organizzativa: come e' stato progettato un esperimento di telelavoro, in Rassegna Italiana di Sociologia, n. 1, 1990 e BELLONI M.C., BESSO C., BIANCO M.L., Ricerca sulla fattibilità di un esperimento di telelavoro. Rapporto di sintesi, s.d., mimeo.

(28) Si veda, ad esempio, CRAIPEAU, S., Telework: Impact on Living and Working Conditions, European Foundation, Dublin, 1984 e ROBINS, K., HETWORTH M., Electronic Spaces: New Technologies and the Future of Cities, in Futures, n. 2, Aprile 1988, pag. 155-176.

(29) Illuminante in materia è il bel libro di PIVA, P., Il lavoro sessuato, Anabasi, Milano, 1994.

(30) Privilegiamo il ragionamento sulla componente femminile in quanto gran parte degli studi concordano sulla maggiore disponibilità delle donne ad accettare lavori a distanza.

(31) Ma anche loro (si pensi ai medici o agli avvocati) qualora abbiano nello stesso appartamento studio e abitazione, tendono a distinguere rigidamente i due ambienti.

(32) L'aspetto del supporto ricevuto dalla famiglia, ad esempio, è risultato cruciale anche nella spiegazione del disagio sociale derivante dal lavoro a turni. Il disagio è tanto più basso quanto più la famiglia riesce a ricostruire i propri tempi su quelli del turnista. (FONTANA, R., Vivere controtempo, Il Mulino, Bologna, 1992).

(33) HUWS, U., Le moderne lavoratrici a domicilio, in MANACORDA, P., PIVA, P., Terminale donna, Edizioni Lavoro, Roma, 1985, pag. 120-121.

(34) GOFFMAN, E., La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969 [ed. or. 1959]

(35) Ivi, pag. 29.

(36) Ivi, pag. 95.

(37) Ivi, pag. 100.

(38) Ivi, pag. 84.

(39) HUWS, U., Telework: Toward the Elusive Office, J. Wiley & Son, New York, 1990.


Versione HTML © 1996 Patrizio Di Nicola, Roma, Italia