Il passaggio dalla Società Industriale a quella Post-Industriale sembra ormai definitivamente compiuto. Seguendo la famosa "legge dei tre stadi", l'umanità - o almeno quel decimo della popolazione mondiale che abita nelle nazioni "ricche" - è transitata dapprima dalla società contadina, basata sul possesso della terra da parte di pochi e sul lavoro di questa stessa da parte di moltitudini di braccianti e mezzadri, allo sviluppo industriale, caratterizzato dalla presenza di grandi fabbriche, sempre di proprietà di pochi, ove migliaia e migliaia di operai - dapprima qualificati, poi, grazie all'innovazione fordista della catena di montaggio, dequalificati e parcellizzati - passavano gran parte della propria vita. Nel terzo stadio, quello definito da Daniel Bell e Alain Touraine appunto come post - industriale, la maggioranza dei lavoratori si trova ad operare nella produzione, distribuzione e commercializzazione di beni immateriali - i servizi - che debbono diventare tanto "indispensabili" da venire consumati in massa.
Ogni era è stata caratterizzata da una o più tecnologie che hanno facilitato ed accellerato la transizione dalla vecchia società alla nuova. Il "simbolo" della trasformazione industriale fu sicuramente la "jenny", una più sofisticata macchina da filatura che permetteva ad una sola persona di usare sino ad ottanta fili. Ma il passaggio dai lavori agricoli a quelli industriali fu resa possibile, soprattutto, dalla scoperta di un combustibile più efficiente - il carbone - che avrebbe alimentato i macchinari e congegni produttivi di ogni genere che si andavano inventando. Vale ricordare che tra il 700 e l'800 la produzione intellettuale ebbe una vera esplosione: nella sola Inghilterra nel quinto decennio del XIX secolo furono registrati oltre 4.500 brevetti, contro i meno di 300 del periodo 1770-79.
Se per la transizione dalla società industriale a quella post industriale dovessimo individuare una tecnologia "simbolo", non avremmo dubbi: sono le tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ICT). Impersonate dapprima (anni sessanta) dal grande computer dipartimentale; poi (anni settanta) da quello "mini", seguito, negli anni '80 dal computer personale e, infine, nell'ultimo decennio, dall'email, nata e diffusasi grazie alla nascita di una rete di collegamento - Internet - di dimensioni planetarie. Come avvenne nel Settecento, le nuove tecnologie hanno rivoluzionato il modo di fare impresa e, ancor di più, quello di lavorare e di vivere. Non sembra quindi inutile approfondire il senso delle trasformazioni del lavoro, con l'avvertenza che è difficile e rischioso tentare di storicizzare un processo che in parte è ancora in divenire: in fin dei conti l'analisi più compiuta della rivoluzione industriale fu pubblicata da T.S. Ashton nel 1948, ben oltre 100 anni dopo quell'evento.
Dovendo iniziare da qualche parte, è bene ricordare come le TIC hanno cambiato il rapporto d'impiego. Se il lavoro dipendente standard - quello che si svolge a tempo pieno, con contratto a vita per un solo imprenditore - era la norma della società industriale, nella fase post industriale primeggia il lavoro atipico: autonomo, semi autonomo, su commessa, in affitto, in outsourcing. Nei tempi più recenti queste forme di lavoro poggiano sempre più sul lavoro in rete. Alcuni analisti, come ad esempio Malone and Laubacher hanno coniato il termine "e-lancers" per definire quei lavoratori che mantengono i contatti con colleghi e committenti tramite le tecnologie, ipotizzando che questa sarà la forma dominante del lavoro nel secolo che si è appena aperto.
La ragione principale di tale mutamento sta nel diverso apporto che si chiede al lavoratore: ai tempi della rivoluzione industriale il grande problema era di convertire una manodopera abituata a lavorare secondo i propri ritmi, piegandola alla regolarità produttiva della grande industria. Oggi lo sforzo delle imprese consiste, fondamentalmente, nell'ottenere dalle persone più creatività che forza, e per questo è giocoforza cambiare spesso i dipendenti, al limite evitando di assumerli tout court. E i lavoratori, enormemente più scolarizzati dei loro padri, a loro volta si muovono, spesso in maniera soltanto figurata, in quanto hanno il vero ufficio in casa, da azienda a azienda, alla ricerca di quella che possa garantirgli non tanto - o non solo - una migliore retribuzione, quanto un ambiente stimolante anche intellettualmente. Naturalmente questo ha dei risvolti negativi per le persone: da una parte un tale sistema è discretamente instabile e non incentiva negli individui strategie di lungo termine, indirizzandoli invece su consumi e pianificazioni sociali di breve scadenza; dall'altra lega il futuro delle persone alla capacità di innovare la propria professionalità. Cosa che, come noto, è tutt'altro che facile e penalizza chi ha meno risorse - finanziarie ma soprattutto intellettuali - da spendere per l'auto-formazione.
Un secondo aspetto riguarda l'orario di lavoro e, più in generale, i tempi di vita. A differenza che in passato, oggi le imprese offrono - spesso pretendono - schemi orari e lavorativi sempre più differenziati, in quanto le tecnologie permettono di sfruttare al meglio sia la flessibilità interna che quella esterna del mercato del lavoro. Finita l'era della produzione di massa di beni durevoli, che richiedeva una forza lavoro sincronizzata con l'orario della fabbrica, la flessibilità e la modularizzazione dell'orario di lavoro diventano un vantaggio competitivo dell'azienda in quanto solo con la flessibilità si colgono le nuove occasioni di sviluppo. Lavorando in team autogestiti, per progetto, su commessa, il tempo di lavoro - anche dei dipendenti - diventa sempre più simile a quello dei lavoratori autonomi. La lotta per la riduzione dell'orario lavorativo, cavallo di battaglia dei sindacati e dei movimenti socialisti dalla metà dell'800, perde molta della sua incisività: riguarda in fin dei conti la parte più tradizionale della classe lavoratrice, mentre ne restano fuori le coorti più giovani, quelle più scolarizzate e, naturalmente, il montante esercito dei lavoratori atipici. Tra il 1880 e il 1940 l'orario di lavoro è sceso da 60 a 40 ore. Ci sono voluti poi altri cinquanta anni per rosicchiare altre due ore, ma si è poi subito risaliti: oggi l'orario medio - se si considera l'intero mercato del lavoro - è ben oltre le 42 ore, e non mancano coloro che ne lavorano 60, come oltre un secolo fa.
I lavoratori post industriali in realtà debbono fronteggiare un "nemico" nuovo (e per questo le tradizionali politiche sugli orari li aiutano poco): l'intrusione del lavoro nella vita privata, che porta alla mancanza di una distinzione culturale tra lavoro e vita. L'email li raggiunge ovunque, il telefono cellulare li tiene legati alle faccende dell'ufficio anche sulla spiaggia, molti giorni festivi vengono colonizzati dal lavoro. Mentre per l'operaio metalmeccanico il lavoro aveva il colore della tuta, e diventava facile così distinguerlo dai tempi del non-lavoro, per chi opera nelle aziende post industriali lavoro e vita finiscono per somigliare a una pelle di leopardo: è impossibile tracciare linee di demarcazione nette. Così, nell'immaginario di molti lavoratori e datori di lavoro si finisce per pensare che non esista un'alternativa possibile a tale commistione. Questo è davvero "lavoro". L'altro, semmai, è solo "impiego".
Non è detto che questi modelli di flessibilità siano negativi "a priori": poter modulare la giornata, la settimana e l'anno lavorativo ha un fascino discreto e una comodità indubbia. Ma tutto dipende, come sempre, dal contesto in cui ciò avviene. In America, tra il 1967 e il 1987, il tempo dedicato al lavoro è aumentato l'equivalente di un mese l'anno, mentre la quota di ore di lavoro retribuite sono passate dal 94% del totale a meno del 91%. Quindi ogni occupato, in media, "regala" o è costretto a regalare all'azienda quasi un decimo delle ore lavorative che svolge. Stiamo vivendo, per dirla con le parole di Juliet B. Schore, la "sindrome del sovralavoro".
E' questa, in definitiva, l'ironia: le nuove tecnologie, oggi come ai tempi della prima rivoluzione industriale, sono arrivate tra noi mostrando una indubbia capacità di ridurre la richiesta di lavoro umano, tanto che studiosi serissimi hanno preconizzato l'avvento della società dell'ozio. Ma, alla fine, ci siamo trovati a lavorare di più, con minore sicurezza del futuro, e con maggior stress.