Titolo: Professioni che modificano l’azienda.

Autore: Patrizio Di Nicola

 

1.

Non passa giorno che qualcuno, specialmente se posto ai massimi livelli di una impresa, non dichiari, magari un po’ pomposamente, che “l’assett aziendale più importante è oggi costituito dalle risorse umane”. Alcuni preferiscono parlare di “persone”, altri di “donne e uomini”.  Ma il senso non cambia: nell’economia della conoscenza i prodotti valgono per l’innovazione che contengono, e questo valore innovativo viene aggiunto dai lavoratori, che rappresentano il capitale intellettuale di cui il capitale finanziario ha estrema necessità per funzionare (Choo, Bontis, 2002).  In questo contributo, quindi, ci concentreremo sul ruolo che le “persone” svolgono nell’organizzazione. Il quale non è, come sembrano pensare i guru del management, solo quello di aggiungere valore ai prodotti, ma anche quello di modificare l’organizzazione. Nei paragrafi seguenti tenteremo quindi di sostenere che:

-  la storia delle organizzazioni produttive dimostra che esiste un forte interscambio tra la cultura organizzativa e quella di cui sono portatrici le persone che compongono il capitale umano aziendale;

- l’ingresso delle figure professionali della comunicazione ha modificato la cultura organizzativa delle imprese, che oggi si trovano a ragionare, anziché in termini di “prodotti da vendere”, in termini di “prodotti da comunicare”.

 

Tutto ciò ha portato all’espansione del ruolo della comunicazione, che pervade ormai tutti i settori dell’impresa e tutte le professionalità.

 

2.

L’importanza delle persone in azienda costituisce una costante nella storia: prima dell’avvento della produzione di massa, ad esempio, a far andare avanti le officine e gli opifici troviamo soprattutto operai-artigiani. Valga come esempio quello degli Stati Uniti a metà dell’800: all’epoca mancavano non soltanto metodi uniformi per portare a termine un dato lavoro, ma non c’erano neppure sistemi di contabilità per poter stabilire il costo di ogni fase produttiva. Il management della produzione era di fatto lasciata nelle mani delle gerarchie intermedie, di estrazione operaio-artigiana, e il capitale si limitava a controllare le quote di produzione.  Vigeva un sistema che lo storico Daniel Nelson (Nelson, 1975) definisce “impero dei capireparto” (foreman empire), poiché erano essi a svolgere le tre funzioni  principali di guida e controllo delle officine:

-           sceglievano il personale in modo del tutto arbitrario, così come arbitrario era il loro licenziamento,

-           stabilivano il tempo e i metodi di esecuzione di un dato lavoro,

-           accertavano i costi e la necessaria qualità del lavoro.

 

Questo accentramento di potere non toglieva solamente alla direzione la possibilità di conoscere, quindi di poter analizzare, le fasi intermedie del processo di produzione, ma generava al contempo una assoluta arbitrarietà e una diffusa empiria sulle procedure di conduzione dell’officina. Il sistema con cui si produceva in fabbrica era detto drive system, traducibile come “sistema a spinta”. In pratica, bisognava convincere le persone a lavorare di più ed essere efficienti non premiandoli o cercando di interessarli al lavoro, ma ponendoli continuamente sotto pressione (Hoxie, 1915).

Alla figura del caporeparto, nelle fabbriche americane, spesso si aggiungeva quella dei contractors: operai specializzati che lavoravano all’interno delle fabbriche con il duplice ruolo di dipendenti e imprenditori. Stabilita una somma di denaro, venivano forniti a queste persone macchinari, energia e le materie prime necessarie a costruire una data quantità di prodotto in un tempo stabilito. I contrattisti sceglievano poi aiutanti e manovali che avrebbero portato a termine il lavoro diventando direttamente loro dipendenti e non della fabbrica, che non ne conosceva né i problemi né i costi di produzione di quanto chiesto, se non quelli che preliminarmente erano stati stabiliti. 

 

3.

Ma l’espansione industriale necessitava di un nuovo modello di produzione. Al volgere del secolo, era chiaro ai capitalisti che era arrivato il momento di togliere potere ai capi operai, ai contractors e ai vecchi artigiani accentrando tutte le conoscenze nella direzione, e sviluppando un metodo di produzione – lo Scientific Management (Taylor, 1952)– in grado di utilizzare masse di operai senza nessuna abilità industriale. Il sistema si consolidò molto in fretta grazie a un “capitalista innovatore”, Henry Ford (Accornero,  1969) . Convinto che era finita l'era di considerare l'auto un bene di lusso, prodotto in pochi e costosissimi esemplari, Ford decise di lanciare sul mercato, nel 1908, una vettura per la gran massa, robusta e sicura, con un prezzo "così basso che ogni lavoratore ben salariato sarà nella possibilità di averne una" (Ford, 1928, pag. 87). Il "Model T" fu un successo senza precedenti: in tre anni ne furono vendute oltre 36.000. Ciò portò con sè la necessità di riorganizzare la fabbrica. Così, nel 1913, Ford ed i suoi ingegneri  svilupparono un sistema di produzione “a catena”; il montaggio, diviso in 45 operazioni, veniva effettuato in altrettante "stazioni" ove l'autovettura si fermava per il tempo strettamente necessario. Agli operai non veniva richiesta alcuna competenza professionale: anzi, ovunque fosse possibile e conveniente, le macchine andavano a sostituire gli operai specializzati.

In questo modo si superavano i limiti del taylorismo: il capitalista, nell'opera di riorganizzazione della fabbrica, non dipendeva più dalla "sapienza" degli operai e le norme per il massimo rendimento venivano imposte collettivamente alle maestranze. (Accornero, 1969).  Nel 1925 allo stabilimento Ford bastano 10 secondi per produrre un’intera automobile, e il prezzo di vendita si ridusse da 850 a 295 dollari. Allo scrittore francese Luis Ferdinand Céline, capitato nelle sue peregrinazioni americane proprio alla Ford, quel sistema organizzativo sembrò subito mosso da una insanabile follia, ma il lavoro era ben retribuito e ciò ne aumentava la sopportabilità, almeno per brevi periodi (Céline, 2005)..

 

4.

L’idea di poter fare a meno del coinvolgimento delle persone, suddividendo il sistema organizzativo delle fabbriche tra chi “pensa senza eseguire” (le Direzioni)  e chi “esegue senza pensare” (gli operai alla catena di montaggio) era destinata ad avere vita breve.  Senza il coinvolgimento delle persone la produzione è destinata a peggiorare. Lo scopre, quasi causalmente, un team di ricercatori guidati da Elton Mayo, che a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del novecento svolge una serie di esperimenti di illuminotecnica presso lo stabilimento della Western Electric ad Hawthorne, vicino Chicago.  Nel tentativo di dimostrare che la produttività  del lavoro dipendeva da una idonea illuminazione, i ricercatori isolarono un gruppo di operaie addette all’assemblaggio di relè elettrici, spostandole da un capannone comune a una stanza appositamente attrezzata per aumentare e diminuire l’illuminazione. Con stupore, gli studiosi scoprirono che la produttività non era collegata all’illuminazione ottimale, ma dipendeva dalle particolari attenzioni che direzione aveva dedicato alle operaie. Nasceva in questo modo quella che sarà poi conosciuta come “Scuola delle Relazioni Umane”: una teoria che affermava che curare i rapporti sociali in azienda poteva innalzare la produzione meglio di costose  innovazioni  tecniche.

Da Hawthorne in poi, tutti gli studiosi confermano l’indispensabilità del coinvolgimento delle risorse umane nell’azienda. Il sociologo Daniel Bell (Bell 1973), tra i primi con Touraine (1971) a studiare la nascita della società post-industriale, scopre l’avvento di dimensioni nuove rispetto al tradizionale processo di sviluppo che si era attivato con la rivoluzione industriale. Nella società post-industriale si afferma la centralità della conoscenza teorica, che fa emergere nuove industrie, quali quelle dell’elettronica, del computer, delle plastiche e dell’ottica; tale conoscenza è basata su una nuova tecnologia intellettuale, quella dei computer, che assistendo i calcoli matematici ed economici permettono sofisticate tecniche di analisi e di simulazione. Ciò porta all’allargamento della classe dei detentori di conoscenza: tecnici, scienziati, manager. Come nota Bell, si deve a loro l’inizio di imprese nuove, operanti nei settori più innovativi.

In tali imprese, la staticità organizzativa, ottenuta piegando i singoli alle necessità della produzione, si sostituisce con la complessità mediata dalla cultura organizzativa. I maggiori teorici di tale approccio di ricerca (Schein, 1990;  Martin, 1992; Kunda, 1992, Weick, 1995) dimostrano, ognuno dalla propria prospettiva di ricerca, che le aziende moderne riescono a funzionare soltanto coinvolgendo i dipendenti. Ciò avviene attuando una ibridazione tra gli assunti fondamentali – che offrono alle persone un insieme di “puntelli” che permettono di affrontare   i problemi di adattamento interno ed esterno, e in tal modo contribuiscono a  ridurre l’ansia delle persone – e le culture di cui sono portatori gli individui. Come nota Kunda, le aziende, di per sé, tentano di generare una ideologia - cioè un sistema autoritario di significati che chi detiene il potere presenta agli altri come mappa di lettura della realtà -  che possa avere un effetto totalizzante sui comportamenti dei dipendenti. Ma questi tentativi delle imprese generano, nei dipendenti, da una parte una identificazione nell’azienda, e dall’altra una vera e propria presa di distanza, che come ci dice lo studioso israeliano, nel caso della società Tech da lui studiata, discende proprio dalla  necessità di valorizzare l’iniziativa individuale.

Grazie a questa reazione non si arriva mai all’appiattimento dei soggetti, che continuano a rivendicare, mantenere e conclamare la loro specificità, sino al punto di modificare le culture aziendali.  Le organizzazioni, come suggerisce Weick,  possono quindi essere lette come delle "tribù", con i propri assunti e convinzioni, con simboli e rituali, che in qualche modo vengono continuamente aggiornati tenendo conto dei contributi che arrivano dai nuovi assunti.

 

5.

Con l’arrivo nelle aziende delle nuove leve di lavoratori vengono quindi aggiornate le culture d’impresa; ciò avviene sia tramite la modifica degli artefatti, sia degli stessi assunti fondamentali. L’ingresso dei comunicatori – giovani leve di laureati in grado di utilizzare al meglio le tecnologie dell’informazione per attivare processi di comunicazione innovativi – ha portato, su tale terreno, un fatto nuovo. Le ICT, infatti, escono dalle stanze degli informatici e pervadono rapidamente l’intera impresa: servono a comunicare con i clienti, a creare sistemi di feed back su cui poggiare il customer care,  a comunicare con i dipendenti, a creare reti di conoscenza e quant’altro. I prodotti anziche’ venduti, debbono anzitutto essere comunicati: le vendite saranno una conseguenza di buoni processi di comunicazione.  Queste logiche, alla prova della cultura aziendale, si rivelano vincenti, e generano una ampia differenziazione sia dei prodotti (che di volta in volta, seguendo le sensibilità della clientela e a volte le mode, diventeranno “verdi”, “equi e solidali”, “responsabili”)  sia dei metodi di produzione, che si globalizzano proprio in virtù della diffusione e della riduzione dei costi della comunicazione. Ma quello che più conta al fine della ristrutturazione delle imprese italiane è la disponibilità di specialisti in comunicazione: professionisti che sono in grado di  “creare senso” dai processi che tramite le ICT si sviluppano.

 

 

 

 

Riferimenti Bibliografici

 

Accornero A. (1969), "Miscellanea su un precursore: Henry Ford", Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 23.

Bell, D. (1973), The coming of post-industrial society: A venture in social forecasting , Basic Book, New York .

Céline L.F. (2005), Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano.

Choo, C.W., Bontis N.  (2002).  The Strategic Management of Intellectual Capital and Organizational Knowledge, New York: Oxford University Press.

 

Ford H. (1928), La mia vita e la mia opera, Apollo, Bologna. (ora in Henry Ford, Autobiografia, Rizzoli, Milano, 1982).

 

Hoxie R., (1915) Scientific management and labor, Augustus M. Kelley, New York

Kunda, G. (1992), Engineering Culture: Control and Commitment in a High-Tech Corporation, Temple University Press, Philadelphia.

Martin J, (1992), Cultures in Organizations: Three perspectives, Oxford University Press, New York.

Nelson D. (1975), Managers and Workers: Origins of the New Factory System in the United States, 1880–1920, Madison, University of Wisconsin Press.

Schein E. H., (1990), Cultura d’azienda e leadership. Una prospettiva dinamica, Guerini, Milano.

Taylor, F. W. (1952), L’Organizzazione Scientifica del Lavoro, Milano, ETAS KOMPASS.

 

Touraine, A. (1971). The Post-Industrial Society. Tomorrow's Social History: Classes, Conflicts and Culture in the Programmed Society. New York: Random House.

 

Weick, K. (1995), Sensemaking in Organizations, Sage, Thousand Oaks, CA