L’evoluzione dei modelli produttivi nell’industria: la delocalizzazione dei processi di produzione

 

 

 

 

 

Studio curato da Patrizio Di Nicola, Università di Roma “La Sapienza”

 

Ha collaborato alla stesura Simona Rosati

 

 

Agosto 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

Si ringrazia la  Dedem Automatica Srl di Ariccia per il supporto finanziario alla presente ricerca.

Indice

 

Abstract................................................................................................................... 3

Introduzione............................................................................................................ 4

1. Lo scenario storico............................................................................................. 6

2. Le innovazioni nelle modalità produttive: dall’industria di massa all’industria flessibile       12

Premessa..................................................................................................................................................... 12

2.1 “Il castello e la rete”......................................................................................................................... 14

2.2 Il modello giapponese....................................................................................................................... 15

2.3 La Total Quality................................................................................................................................. 16

3. La risposta delle imprese alla globalizzazione................................................. 19

4. I case study....................................................................................................... 23

4.1 La “ST Microelectronics”................................................................................................................ 23

4.2 La “Advanced Micro Devices”........................................................................................................ 26

Conclusioni: i vantaggi della delocalizzazione produttiva................................... 29

Bibliografia............................................................................................................ 32

Allegati.................................................................................................................. 34

Allegato 1: La qualità. Uno sguardo alla normativa ISO9000

Allegato 2: Il caso della “ST Microelectronics”

Allegato 3: Il caso della “Advanced Micro Devices”

 


Abstract

 

Il presente studio nasce dall’interesse di approfondire sistematicamente la conoscenza dei cambiamenti intervenuti nei modelli produttivi dell’impresa dalla rivoluzione industriale fini ai nostri giorni. In particolare, attraverso un’analisi della letteratura esistente e lo studio di due casi aziendali, si è approfondito lo studio del processo di delocalizzazione di alcune fasi della lavorazione oltre i tradizionali confini fisici delle strutture aziendali centrali, sia nelle imprese finalizzate alla produzione di beni materiali sia in quelle destinate alla realizzazione di servizi.

La ricerca ha confermato che la delocalizzazione produttiva ha assunto una importanza cruciale nelle imprese contemporanee; ciò avviene in risposta a una crescente necessità competitiva delle aziende, obbligate a reagire tempestivamente e in modo flessibile a una domanda di mercato sempre più complessa, articolata ed eterogenea. Non va però sottaciuto come la delocalizzazione produttiva sia anche a volte una strada obbligata per raggiungere l’eccellenza nella produzione di beni o nella fornitura di servizi. La tendenza cui si assiste, pertanto, è verso il superamento di strutture organizzative di grandi dimensioni, statiche, rigidamente concentrate in un unico ambiente organizzativo e territoriale e, all’opposto, le aziende sperimentano modelli organizzativi di dimensioni inferiori, che si decentrano in un insieme diffuso di “nodi” operativi. Essi superando i confini fisici dell’unità centrale si articolano sul territorio, spesso anche a livello “globale”, ricercando l’integrazione in fattori quali una mission corporativa, una forte cultura e comunicazione aziendale, un elevato livello di omogeneità e ciclicità delle fasi organizzative, in cui l’obiettivo centrale diviene il miglioramento continuo dei livelli qualitativi dei cicli produttivi, delle risorse impiegate, delle condizioni di lavoro nonché della qualità del prodotto/servizio finale.

 


Introduzione

 

Scopo del presente studio è condurre un’analisi teorica, supportata dallo studio di alcuni casi,  sui cambiamenti intervenuti, a partire dalla rivoluzione industriale,  nei processi di produzione che sono adottati nel mondo dell’industria e dei servizi. In particolare si argomenteranno i passaggi logici che hanno contribuito a  trasformare il modo di produzione tradizionale, che veniva visto come indispensabilmente accentrato e monolitico, in un altro comunemente detto neo industriale, tipico di  quella che in vario modo gli studiosi definiscono società programmata, dell’informazione o, più semplicemente postindustriale. Tale excursus permetterà di comprendere i fattori che sono alla base dell’attuale diffusione di modalità produttive che prescindono dalla valenza territoriale dell’impresa e, al contrario, si articolano integrandosi in una “rete” di unità produttive, con processi unitari, interconnessi, ma al contempo distanti geograficamente e spesso anche culturalmente. Ne discende che le organizzazioni divengono oggi strutture sempre più eterogenee e flessibili il cui compito è governare sistemi di produzione complessi che cambiano e si sovrappongono continuamente e che quasi mai coincidono con i “confini giuridici o organizzativi segnati dalla proprietà e dal comando gerarchico di chi detiene il potere economico o burocratico”[1].

Questa innovazione, lungi dall’essere una mera modifica produttiva, incide profondamente sul modo di essere delle società moderne: operando attraverso l’impresa, infatti, il modo di produrre impronta di sé il mondo in cui viviamo, il quale vive dei prodotti ed è intriso dei bisogni che provengono dal mondo della produzione.

In tale prospettiva è dunque lecito chiedersi come il passaggio dalla produzione di massa alla produzione snella abbia contribuito a modificare il modo di vivere, lavorare e fare business delle organizzazioni[2].

A tal fine il presente elaborato sarà articolato in cinque parti:

·        La prima parte è dedicata all’analisi delle fasi storiche fondamentali che hanno caratterizzato lo sviluppo industriale, in una prospettiva di reciproca influenza tra le modalità di esplicazione e di organizzazione industriale e il contesto socioeconomico in cui esse sono inserite. In particolare ci soffermeremo sulle seguenti fasi storiche: fase preindustriale e industriale, fase taylorfordista, fase postfordista e fase postindustriale o dell’industria diffusa.

·        La seconda parte approfondirà gli effetti dell’evoluzione industriale sui processi produttivi. A questo scopo saranno presi in considerazione alcuni modelli teorici interpretativi fondamentali, quali la metafora de “il castello e la rete” di Federico Butera, la teoria di Michael J. Piore e Charles F. Sabel sulla transizione dalla produzione di massa alla produzione flessibile, il cosiddetto modello giapponese o lean production e, infine, i principi della Total Quality.

·        La terza parte analizzerà le modalità organizzative attuate dalle imprese per far fronte in modo efficace e efficiente alle richieste della globalizzazione. In tale prospettiva i principi di flessibilità, specializzazione, decentramento, integrazione, divengono i principali termini della riorganizzazione lavorativa e produttiva e danno luogo a nuovi paradigmi che ridisegnano i flussi produttivi e lo stesso shape delle aziende.

·        La quarta parte è finalizzata alla ricostruzione di due esperienze aziendali che hanno fondato l’intero processo di produzione sul principio della diffusione territoriale delle diverse unità produttive. In particolare si analizzerà il caso della ST Microelectronics (italo-francese) e della Advanced Micro Devices (americana), aziende specializzate nella produzione di quei circuiti microelettronici che troviamo nei PC che tutti utilizziamo.

·        La parte conclusiva dello studio è dedicata alle riflessioni sui vantaggi che un’impresa può ricevere dall’adozione di un modello di produzione decentrato e articolato in unità produttive dislocate sul territorio (nazionale e non) rispetto ad un tradizionale modello di concentrazione produttiva.


1. Lo scenario storico

 

La società industriale nasce e si sviluppa nei cinquant’anni tra il 1780 e il 1830, quando in Inghilterra e in Scozia si avviò un profondo processo di trasformazione nei mezzi e nei modi di lavorare e produrre chiamato appunto rivoluzione industriale. Si trattò di un evento decisivo sotto ogni profilo: organizzativo, economico, sociale, politico e culturale, che ha aperto l’epoca contemporanea.

Da allora il nuovo simbolo dell’industria - fabbriche e officine - ha soppiantato drasticamente il modello delle manifatture e degli opifici prima esistenti. L’industria divenne, infatti, il simbolo di una nuova società, quella industriale.

L’epoca preindustriale era ricca sì di botteghe artigiane, corporazioni di arti e mestieri e perfino manifatture dove si lavorava non soltanto con le mani ma anche con l’ausilio di macchinari e apparecchiature rudimentali, ma mancavano ancora le precondizioni per la nascita della società industriale[3]. L’insieme degli edifici, macchinari, materiali, persone, procedure e norme che compongono l’industria, si costituì come realtà specifica solamente a partire da un determinato momento storico e da determinate condizioni sociali[4]: progresso tecnico, crescita demografica, sviluppo energetico.

La novità essenziale dello sviluppo industriale risiede nel nuovo tipo di rapporto sociale che l’industria stessa genera. Essa rappresenta un trapasso definitivo nella storia del lavoro e dei lavoratori. La scoperta della formidabile capacità produttiva generata dall’industria attraverso la combinazione di capitale e lavoro è alla base della rivalutazione del lavoro nella società moderna. Soppiantando i rapporti sociali di lavoro preesistenti ha consolidato un rapporto di lavoro salariato: la forma dominante del nostro tempo. Inoltre, separando il produttore dal prodotto ha travolto completamente il secolare funzionamento della bottega artigiana, determinando una condizione in base alla quale diviene conveniente investire capitali in macchinari costosi perché non occorre più un mestiere ma basta la mera erogazione di sforzo muscolare a farli funzionare.

Quella unione tra capitale e lavoro che K. Marx chiama il “modo capitalistico di produrre” è, dunque, il cuore del capitalismo industriale così come il “sistema di fabbrica” diviene il cuore dell’industria moderna: la coppia capitale-lavoro dà della società una rappresentazione ancorata all’economia come non si era mai avuta[5].

Nelle sue Diciotto lezioni sulla società industriale R. Aron[6] assume come parametro per l’industrializzazione della società l’affermarsi di imprese industriali le quali: si separano dalla famiglia; concentrano gli operai sul luogo di lavoro; introducono un’originale divisione del lavoro; praticano un rigoroso e razionale calcolo economico al fine di consentire l’accumulazione di capitale.

Secondo la definizione di L. Gallino[7] la società industriale presenta requisiti più quantitativi: la maggiore parte delle forze lavoro sono occupate nel settore industriale; la maggior quota del reddito nazionale è prodotta dall’industria; i processi di accumulazione operano prevalentemente attraverso le aziende industriali.

P. Deane[8], infine, ritiene caratterizzanti questi mutamenti: l’applicazione diffusa e sistematica della scienza moderna e della conoscenza empirica al processo di produzione per il mercato; la specializzazione dell’attività economica rivolta alla produzione per il mercato, nazionale o internazionale, e non all’autoconsumo o al mercato locale; il trasferimento della popolazione dalle zone rurali alle zone urbane; l’aumento delle dimensioni e la spersonalizzazione dell’unità tipica di produzione, in modo che essa viene a essere fondata sempre meno sulla famiglia o su gruppi di famiglie e sempre più sulle società per azioni o sulle imprese pubbliche. E, inoltre, “lo spostamento del lavoro dalle attività connesse con la produzione di beni primari, alla produzione di beni manufatti e di servizi. Impiego intensivo e estensivo delle risorse di capitale in sostituzione ed a completamento dell’elemento umano. Nascita di nuove classi sociali ed occupazionali, create dalla proprietà oppure dal rapporto con i mezzi di produzione diversi dalla terra, in particolare con il capitale”[9]

Lo sviluppo industriale si fonda, pertanto, su un insieme di condizioni essenziali che sono state in grado di dimostrare non solo l’opportunità ma anche la superiorità dei nuovi modelli di produrre e, di conseguenza, di sostenere lo sviluppo stesso. Il nascente ceto degli industriali, infatti, aveva bisogno di constatare che la dinamica del processo innescato con le prime fabbriche era talmente sostenuta, da rendere conveniente cambiare i metodi di produzione precedenti, sia manuali sia artigiani, e che quelli nuovi mostravano una redditività talmente superiore da giustificare il costo del cambiamento. Un costo che rispetto al passato richiedeva investimenti più rischiosi, immobilizzi considerevoli di capitali. Diventare industriale era infatti “tutt’altra cosa che assumersi il rischio di far lavorare una partita di tessuti commissionata da mercanti imprenditori a piccoli produttori autonomi della cosiddetta cottage industry[10]. Significava impiegare capitali molto consistenti e accettare che, materializzandosi in edifici, macchinari, impianti, attrezzature, scorte, quei capitali non potessero tornare liquidi o quanto meno potessero venire smobilizzati al prezzo di perdite colossali[11]. Dall’altro canto, nella visione di J. A. Schumpeter[12], l’imprenditore è colui che riesce a reagire in modo creativo e innovativo e non adattivo ai mutamenti intervenuti nella situazione dell’economia o nell’assetto del settore e che con intraprendenza accetta di assumersi il rischio delle proprie azioni economiche.

Tuttavia nella sua forma attuale, ossia nella forma di organismo complesso composto sia da un’organizzazione tecnico-produttiva sia da un’istituzione economico-sociale che riesce a mobilitare risorse, capitali, lavoro, mezzi, materiali e informazioni per impiegarle nel modo più conveniente a realizzare il suo fine, l’impresa si è affermata solamente verso la fine dell’800 e nel ‘900 essa è diventata rapidamente dominante. Questo perché solo in quel determinato momento si sono presentate le premesse storiche per lo sviluppo di un nuovo modo di lavorare ma soprattutto di un nuovo modo di organizzare e gestire il lavoro.

Il progresso raggiunto dal macchinismo industriale, l’ingrandimento dei complessi industriali attraverso l’espansione produttiva e le fusioni tra imprese, che culminerà negli anni ’20 con il cosiddetto fenomeno del gigantismo industriale[13], la concentrazione di manodopera in grandi stabilimenti, la disponibilità di forza lavoro di estrazione contadina fino a quel momento tagliata fuori dalla produzione industriale, rappresentavano i punti di forza per un’evoluzione nell’industria che doveva superare pratiche di produzione rimaste agli standard tecnici e culturali di un’epoca precedente. Infatti, non solo non esistevano metodi rigorosi e uniformi per impostare il lavoro ma erano carenti anche i metodi amministrativi per calcolare i costi delle singole fasi produttive. Il sistema con cui, fino ad allora, si otteneva la produzione in fabbrica era conosciuto come drive system[14] (sistema della spinta o dello spintone). Esso consisteva in un sistema di controllo stretto, abuso, irriverenza e minacce, volto a ispirare nell’operaio reverenza e paura del management, al fine di prenderne il sopravvento.

È dunque a partire dai primi anni del ‘900 che si apre una nuova fase dell’evoluzione industriale, detta taylorfordista, in cui si superano definitivamente i tradizionali metodi di gestione e di organizzazione produttiva. Furono, infatti, F. W. Taylor, presidente dell’influente American Society of Mechanical Engineers, prima e H. Ford, industriale e imprenditore, poi a procedere con rigore e solido fondamento di esperienza alla costruzione di un metodo innovativo per affrontare i problemi organizzativi delle grandi imprese industriali. L’importanza della loro opera risiede, infatti, nell’aver costituito la prima proposta sistematica e generalizzabile sull’organizzazione del lavoro, in grado di investire tutti i lavoratori – dall’operaio al manager - in un unico disegno “organico, funzionale e sistematizzante”[15]. Lo scopo era il raggiungimento di una fase “matura” dell’industria, fondata sulla produzione di massa e in serie che consentisse l’attivazione di un mercato su larga scala, in cui consumatori e produttori divenissero in qualche modo l’uno la condizione per lo sviluppo e la crescita dell’altro[16].

Taylor individuava lucidamente il punto debole dell'industria americana del primo ‘900: non le macchine, tecnicamente idonee al lavoro in serie, ma il lavoro e la sua organizzazione. I capitalisti dell’epoca, infatti, conoscevano ben poco i limiti produttivi del proprio stabilimento. La produzione era, di fatto, affidata a pochi operai specializzati, i quali, contrattata la tariffa di cottimo, spesso assumevano direttamente i propri aiutanti e stavano ben attenti a che nessuno superasse la produzione stabilita all’interno del gruppo[17]. Cosa, questa, che avrebbe invariabilmente portato al “taglio del cottimo”. Secondo la sua visione, dunque, le cause del malfunzionamento delle officine di quel tempo erano[18]: il timore che un aumento nella produzione di ogni operaio e macchina determinasse una riduzione del numero di occupati; l’imperfezione dei sistemi di organizzazione impiegati che inducono l’operaio a tenere bassa la produttività; l’inefficienza dei metodi empirici adottati che rendono vano gran parte dello sforzo produttivo della manodopera.

Il sistema propugnato da Taylor affrontava invece la produzione da una angolazione diversa, manageriale. La sapienza della mansione lavorativa andava sottratta ai lavoratori, tutte le conoscenze circa il lavoro andavano accentrate nella direzione d'officina. Era qui che si doveva stabilire la velocità ottimale delle macchine e degli uomini, la procedura migliore per compiere un lavoro, il flusso informativo e tutti gli altri particolari della produzione, anche i più minuti. La direzione diveniva pertanto il fulcro della fabbrica, intorno cui ruotava tutto, il cuore scientifico che avrebbe garantito ai capitalisti la massima produzione. Ma tali conoscenze andavano sottratte a chi ne sapeva di più, ossia gli operai. Al fine di ottenere la loro collaborazione Taylor studiò un sistema di cottimo (definito “differenziale”) ben diverso da quelli in vigore all’epoca. Basato su compensi e penalizzazioni “a gradini”, legati al raggiungimento di determinati obiettivi, il cottimo differenziale avrebbe permesso ai migliori (gli uomini di prim’ordine, come li definiva Taylor) di migliorare i loro guadagni. Per contro, avrebbe portato all’espulsione di coloro che non si piegavano alla razionalizzazione.

L’organizzazione scientifica del lavoro (Scientific Management) si fondava così su quattro principi essenziali: lo studio scientifico dei migliori metodi di lavoro in rapporto alle caratteristiche dei lavoratori e delle macchine; la selezione e l’addestramento scientifico della manodopera; l’instaurazione di rapporti di stima e di cordiale collaborazione tra direzione e manodopera; la distribuzione uniforme del lavoro e delle responsabilità tra amministrazione e manodopera. Inoltre, alla base dello Scientific Management vi era un principio metodologico fondamentale, definito one best way, secondo il quale esiste sempre e comunque un metodo unico e migliore per risolvere problemi o compiere azioni di qualunque genere.

In questo modo, dunque, si poteva costruire un metodo completamente diverso rispetto al passato e più razionale per affrontare i problemi della produzione. Esso infatti fondandosi su un’analisi approfondita di tutte le operazioni produttive, portava a stabilire regole e norme che tendevano ad avere un valore autonomo e determinava una nuova rilevanza rispetto al passato dei concetti di specializzazione, suddivisione dei compiti, standardizzazione. Secondo questa visione, a dettare il ritmo della produzione non doveva più essere la macchina ma il metodo. Si dovevano disciplinare i tempi dell’esecuzione, standardizzandone le modalità. Tutto ciò era possibile soprattutto considerando che all’epoca il macchinismo industriale aveva raggiunto importanti traguardi[19]: perfezionamento dei metodi di misurazione; produzione sistematica di pezzi intercambiabili, progressiva specializzazione delle macchine utensili.

Tuttavia, sul piano pratico, nessun industriale del tempo fu disposto, applicando completamente la metodologia tayloristica a sconvolgere i rapporti di lavoro interni e a cambiare mentalità verso la produzione e verso i lavoratori. Essi si limitarono per lo più ad introdurre qualche sistema di cottimo con curve incentivanti più spinte per invogliare i lavoratori[20], di cui la teoria di Taylor era piena. Questo perché l’idea di potere addestrare e allettare migliaia di operai, uno per uno, ad imparare un modo di lavorare estraneo e meccanico, sul quale si sarebbe basato il compenso, era assai arduo. Non tanto perché richiedeva di far passare il taylorismo con un operaio alla volta, quanto perché presupponeva la perdita radicale dell’autonomia nel lavoro, per marginale che fosse. Pertanto se Taylor non riuscì a risolvere il problema di adattare all’industria moderna grandi masse non qualificate, Ford invece partendo dal limite del taylorismo riuscì a far compiere quel salto rivoluzionario alla produzione di serie e al controllo del lavoro.

Convinto che fosse finita l’era di considerare l’auto un bene di lusso, prodotto in pochi e costosissimi esemplari, Ford decise di lanciare sul mercato, nel 1908, una vettura robusta e sicura, con un prezzo “così basso che ogni lavoratore ben salariato si sarebbe trovato nella possibilità di averne una”[21]. Naturalmente il Model T fu un successo senza precedenti: in tre anni ne furono vendute oltre 36.000. Ciò portò con sé la necessità di riorganizzare la fabbrica. Il vecchio sistema, secondo cui la scocca della vettura era ferma e gli operai vi giravano intorno, montando i pezzi, creava nell’officina una confusione indescrivibile, con gruppi di operai che correvano di qua e di là alla ricerca del materiale giusto, dell’arnese adatto. Era, pertanto, giunto il momento di portare il lavoro agli operai e non viceversa.

Il punto di svolta lo diedero due principi basilari della concezione fordista: il primo, la possibilità di realizzare un apparato di convogliamento detto catena di montaggio; il secondo, il processo di standardizzazione del prodotto, ossia il principio di fabbricazione di un unico modello, solido, affidabile e a buon mercato. La differenza rispetto al taylorismo consisteva quindi nel superamento dell’illusione di poter insegnare all’operaio l’unico modo migliore di lavorare e nell’affermazione della possibilità di disporre le cose in modo tale che egli possa soltanto lavorare al meglio[22]. Il perno, invece, “era l’accelerazione tecnologica realizzata con la drastica semplificazione e standardizzazione del lavoro”[23]. Mediante semplici apparecchiature di convogliamento, “tantissimi micro-movimenti individuali diventavano un solo tempo generale, indipendente dal ritmo ottimo dei singoli, e prioritario rispetto a tutte le fasi”[24]. Questo era appunto il principio-base di quella che oggi è conosciuta come catena di montaggio: gli obiettivi di produzione spingevano tutte le lavorazioni verso quel traguardo.

Tuttavia nel disegnare l’organizzazione esclusivamente come processo razionale e tecnico, la concezione meccanicistica tendeva a sottovalutare gli aspetti umani dell’organizzazione e a trascurare il fatto che i compiti con cui si confrontano le organizzazioni spesso sono molto più complessi, incerti e difficili

dei compiti che possono essere espletati dalla macchine. Un approccio all’organizzazione industriale di tipo meccanico e razionale, può essere utile solamente quando si è in presenza di condizioni favorevoli come[25]: un compito molto chiaro; un ambiente stabile; una produzione di serie; “componenti umane” della macchina docili e rispettose dei compiti loro assegnati; la precisione come elemento fondamentale del processo. Ma quando manca una combinazione tale di condizioni un modello meccanicistico stenta a decollare. In particolare, organizzazioni strutturare in modo meccanicistico presentano notevoli difficoltà ad adattarsi ai mutamenti ambientali: “dal momento che sono progettate per realizzare obiettivi predeterminati, tali organizzazioni non sono orientate all’innovazione”[26]. Inoltre, questo approccio tende a limitare piuttosto che a favorire lo sviluppo della capacità umane, modellando gli individui in modo da renderli adatti ai requisiti propri dell’organizzazione meccanicistica piuttosto che a costruire l'organizzazione attorno alle potenzialità e capacità degli stessi.

Il grande limite del taylorfordismo fu, di conseguenza, l’“estraneazione” del lavoro e dal lavoro. Per l'operaio parcellizzato, a cui la fabbrica nega la possibilità di svolgere un lavoro, anche ripetitivo, secondo il suo individuale ciclo vitale, la sicurezza economica e la poca fatica divengono valori. Quando il lavoro diviene troppo penoso rispetto al compenso che se ne ricava, il lavoratore (se le condizioni del mercato del lavoro lo permettono) se ne va, alla ricerca di un altro impiego più vantaggioso. L’astrazione del lavoro diviene così l’ostacolo stesso, intrinseco, all’aumento indiscriminato della produzione. Inoltre, anche l’idea taylorfordista di potere spostare tutte le conoscenze dagli operai ai manager era soltanto una pia illusione: il ciclo produttivo può adeguarsi e migliorare (in qualità, ma anche in quantità) soltanto se escono dall’ombra “le conoscenze informali e i saperi concreti dei lavoratori”[27]. Conoscenze che la catena di montaggio può comprimere, ma non eliminare completamente, e che vengono sfruttate, sotterraneamente, dall’operaio quale “ultima spiaggia” per alleviare la fatica o per guadagnare pochi istanti di libertà dalla propria mansione.

Per questi motivi, a partire dagli anni ’40, si svilupparono nuovi studi e teorie sull’organizzazione produttiva, attente al superamento dei limiti e delle difficoltà insite nel modello meccanicistico taylorfordista, che culmineranno nei primi anni ’70 con l’inizio di una nuova fase dello sviluppo industriale, quella della flessibilità o altrimenti detta post-industriale o dell’industria diffusa.

La fase postfordista è caratterizzata dalla presenza di due approcci teorici fondamentali, dettati dall’esigenza di rivalutare il ruolo della componente umana all’interno della struttura produttiva con importanti ripercussioni anche sui contenuti del lavoro e sui modelli produttivi: quello della “Scuola della Relazioni Umane”, sviluppatosi tra gli anni ’40 e ’50, e quello della “Scuola Motivazionalista”, tra gli anni ’60 e ’70.

Il principale esponente della prima Scuola è certamente E. Mayo, il quale attraverso una serie di ricerche empiriche condotte presso lo stabilimento di Hawthorne della Western Electric di Chicago, ha messo in evidenza l’importanza del “fattore umano” sul luogo di lavoro, inteso come l’insieme dei fattori psicologici latenti che condizionano il comportamento manifesto dei soggetti[28]. Secondo lo studioso, l’azienda deve comprendere che prestando maggiore attenzione alle esigenze psicologiche dei soggetti e in particolare all’armonia e all’ambiente microsociale in cui si lavora, è possibile aumentare anche il rendimento lavorativo. Mayo, pertanto, non contesta l’assunto tayloristico sulla necessità di adottare un metodo scientifico e nemmeno che il comportamento razionale dell’uomo sia definito dalla sua adesione alle esigenze produttive dell’impresa. Semplicemente obietta allo Scientific Management di non riconoscere che quella adesione è connessa a un retroterra psicologico, regolato da pulsioni non conformi a criteri di razionalità. Mayo insiste quindi sulla necessità di soddisfare il fattore umano mediante la creazione di un ambiente lavorativo socialmente gradevole e armonico. In particolare, egli sostiene che i bisogni sociali sul posto di lavoro possono essere soddisfatti nei gruppi di lavoro, mettendo in pratica tutta una serie di attività non pianificate che appartengono alla sfera dell’informale.

La Scuola Motivazionalista (tra i principali rappresentanti: A. Maslow, C. Argyris, F. Herzberg, R. Likert), dall’altro canto, procede in modo del tutto contrario rispetto alla teoria organizzativa classica, secondo cui le esigenze delle organizzazioni vanno considerate come la variabile indipendente a cui occorre subordinare il comportamento umano. Essa diversamente si fonda sul principio che al primo posto vanno messi i bisogni dell’uomo, in particolare quello di autorealizzazione, e le organizzazioni devono essere giudicate in base al grado con cui riescono ad adattarsi a questa esigenza. Questo perché i fini dell’organizzazione possono essere tanto più proficuamente perseguiti quanto più sono soddisfatte le esigenze di crescita personale degli individui. Queste esigenze, infatti, non conducono a una fuga dal lavoro e dalle responsabilità ma, al contrario, si realizzano nel lavoro che dovrà essere il più possibile vario, stimolante, ricco di significati. Pertanto alcune condizioni dell’ambiente lavorativo - compiti “arricchiti”, stili di leadership, organizzazione del lavoro, relazioni sociali - divengono fattori determinati per la soddisfazione e la motivazione individuale e suscettibili, allo stesso tempo, di incoraggiare gli individui sia ad adeguarsi al disegno organizzativo sia a sviluppare la propria creatività.

Le esigenze di valorizzazione della risorsa umana all’interno del sistema industriale, alla base degli studi condotti nei trent’anni successivi all’opera di Taylor e Ford, combinati con l’insieme dei cambiamenti intervenuti a livello economico e sociale sul finire degli anni 60, hanno, dunque, segnato definitivamente il tracollo dei sistemi taylofordisti e l’inizio di una nuova tappa dell’industrializzazione, quella dell’industria flessibile. Essa, infatti, porta con sé nuove variabili organizzative e gestionali, strutture e modelli produttivi innovativi, attraverso i quali si ridisegna completamente l’intero scenario industriale. Scopo del capitolo successivo è pertanto di analizzare l’insieme di queste mutazioni intervenute nel processo di industrializzazione, con particolare attenzione ai cambiamenti prodotti nelle modalità e nella localizzazione dei processi produttivi.


2. Le innovazioni nelle modalità produttive: dall’industria di massa all’industria flessibile

 

Premessa

“Centralità e visibilità dell’industria stanno oggi diminuendo. La nuova architettura industriale progetta edifici che non sembrano più fabbriche, mentre gli stabilimenti di ieri stanno diventando pezzi di archeologia, o addirittura, musei, come a New Lanark in Scozia ed a Lowell nel Massachusetts, dove antiche sedi della grande industria tessile testimoniano un passato quasi remoto”[29]. Quali sono le cause di questo profondo cambiamento nello scenario industriale?

La produzione di massa, basata su prodotti costruiti in larga serie e standardizzati, così come era stata immaginata da A. Smith sul finire del ‘700 e realizzata concretamente da Ford nel primo ventennio del ‘900, offriva alle imprese enormi incrementi di produttività, che aumentavano di pari passo con la crescita delle industrie stesse. “Il progresso lungo questa traiettoria tecnologica portava profitti e stipendi più alti, prezzi inferiori per i consumatori e una vasta gamma di nuovi prodotti”[30]. La produzione in serie imponeva grandi investimenti per attrezzature specializzate e manodopera minimamente qualificata. Queste risorse, infatti, erano adeguate per una produzione standardizzata spesso di un solo modello.

La produzione in serie aveva però un limite: era vantaggiosa soltanto in quei mercati abbastanza grandi da riuscire ad assorbire un’enorme produzione di un singolo prodotto e così stabili da tenere continuamente impiegate le risorse dedicate alla produzione[31]. Di conseguenza, se per i primi vent’anni dopo la seconda guerra mondiale queste strutture economiche erano riuscite a produrre prosperità e stabilità economica, sostenute da un’economia caratterizzata da un’inflazione moderata, da un basso livello di disoccupazione, da un’ampia distribuzione dei risultati dell’espansione economica, a partire dalla fine degli anni ’60 il modello fordista entra in una crisi che i consolidati modelli di impresa non erano più in grado di gestire. Erano necessari, dunque, nuovi modelli di gestione e organizzazione produttiva.

Contrariamente a quanto si possa pensare, la tecnologia è solo uno dei fattori che ha contribuito alla destrutturazione dei tradizionali sistemi organizzativi e professionali. Entrano invece in gioco, nella ricerca di configurazioni aziendali e produttive più adeguate a gestire la crisi, altri fattori quali: l’economia della flessibilità, la terziarizzazione, il cambiamento della struttura sociale[32].

L’emergere di una domanda di mercato più ampia e articolata (nuovi prodotti e soprattutto prestazioni di servizio, quantità variabili, tempestività) ha, infatti, spostato l’attenzione delle imprese dalla “scala” alla “flessibilità”[33]. L’impresa ha tentato di superare la rigidità delle grandi dimensioni e delle economie di scala per trovare soluzioni organizzative più snelle internamente e al contempo aperte verso l’esterno. La gestione delle aziende non è più centrata sulla produzione bensì sul mercato, sulla variabilità della domanda e sulla conseguente varietà del prodotto[34]. Si è assistito pertanto “a un declino delle strutture gerarchiche e all’affermarsi di strutture reticolari e policentriche”[35] più adeguate a operare su mercati complessi e segmentati. Tutto ciò ha aumentato anche le funzioni di servizio rispetto alle funzioni di produzione: l’asse delle imprese si è spostata dalla realizzazione di beni materiali all’erogazione di servizi. Conseguentemente a questo processo è emersa l’esigenza di valorizzare funzioni produttive immateriali (ricerca e sviluppo, marketing, logistica, qualità, etc.) e di


sviluppare le funzioni finalizzate all’integrazione dell’intero sistema aziendale (pianificazione, innovazione, coordinamento e controllo, etc.).

Lo sviluppo tecnologico ha facilitato un simile processo di innovazione e ristrutturazione aziendale. Le moderne tecnologie, infatti, sono intervenute direttamente sulla struttura operativa e funzionale dell’azienda. Sul piano produttivo, esse hanno reso possibile l’automazione di numerosi processi lavorativi, sia industriali sia d’ufficio, favorendo la riduzione di una serie di ruoli esecutivi e ripetitivi a vantaggio di attività a elevato contenuto informativo. Sul piano strategico, l’innovazione tecnologica ha permesso di gestire in modo più flessibile il processo produttivo, intervenendo sulla possibilità di decentrare funzioni, attività e processi, e permettendo, allo stesso tempo, l’integrazione tra il sistema aziendale interno, le strutture delocalizzate, i suoi referenti e l’ambiente esterno.

Di qui nascono, pertanto, nuovi modi di produrre , nuove forme di organizzazione del lavoro che iniziano a ridisegnare dalle fondamenta la logica organizzativa e a “realizzare quel superamento del taylorismo fino a questo momento solo formale e in gran parte illusorio”[36]. A tutto ciò deve aggiungersi il complesso movimento della qualità, il quale pur venendo spesso associato ed identificato con il modello giapponese ha, in realtà, una valenza autonoma e significativamente incidente sui processi produttivi.

In linea con quanto detto, nel corso di questo capitolo analizzeremo le profonde trasformazioni che sin dagli anni ’70 stanno sconvolgendo il tradizionale assetto dei modi di produzione, soffermandoci in particolare su tre fenomeni di profonda rilevanza: la nascita e lo sviluppo dell’impresa-rete, l’emergere del modello industriale giapponese e il diffondersi dei principi della qualità totale.


2.1 “Il castello e la rete”

Nel 1984 F. Butera sostenne che in gran parte delle organizzazioni produttive dell’industria e dei servizi era in corso un passaggio da un “modello meccanico o del castello” di organizzazione a un nuovo modello organizzativo “organico o della rete”, che si fondava su nuovi principi e nuove variabili organizzative e produttive[37].

“Il modello meccanico è quello in cui funzioni, compiti, strutture organizzative, mansioni, procedure, processi sono massimamente specificati e razionalmente interconnessi attraverso un piano preordinato, allo scopo di assicurare la massima efficienza globale e la massima prevedibilità e governabilità delle singole parti”[38]. Il modello organico, invece, funzionando come un organismo ad alto livello di complessità, è quello in cui le singole parti che lo compongono “sono sistemi aperti che svolgono sì funzioni specializzate ma funzionano in base ad ambiti di autonomia e non per delega, sono collegate in una rete di scambi informativi ed economici e interagiscono fra loro sulla base di regole del gioco influenzate anche da loro stesse: esse si modificano sia per processi di adattamento all’ambiente esterno sia per input interni”[39].

In questo secondo modello di organizzazione rientra, pertanto, il cosiddetto modello dell’impresa-rete, il quale si riferisce a una molteplicità di soluzioni economiche e organizzative. Una prima classe di tipologie riguarda aziende in cui è intenso il processo di “decentramento di attività da un’impresa centrale verso imprese subfornitrici: il decentramento produttivo di attività manifatturiere e il decentramento delle attività dei servizi”[40]. In molti paesi e in particolare negli Stati Uniti questo processo di decentramento avviene fra imprese industriali e imprese subfornitrici collocate all’estero, alle quali viene demandata la produzione di parti del prodotto o anche di prodotti finiti. Una seconda classe di situazioni è composta da quelle realtà chiamate filiere o costellazioni di imprese[41], in cui si costituiscono sistemi di imprese collegate fra loro in un ciclo di produzione, dove non esistono collegamenti societari o organizzativi ma potenti sistemi di cooperazione operativa (in Italia è il caso dei mobili in Brianza o delle calzature a Napoli). Di impresa-rete si parla anche a proposito di grandi imprese che si fanno piccole, ossia imprese che hanno un’unica struttura proprietaria e organizzativa ma che si articolano al loro interno in strutture (divisioni, business units, profit centers, gruppi di progetto, ruoli paraprofessionali centrati su risultati, etc.) che divengono “quasi imprese”, nel senso che attraversano con estrema flessibilità i confini tra mercato e gerarchia[42].

Pur nella diversità della loro manifestazione in tutte queste realtà emergono alcuni elementi comuni: in tutti i casi si tratta di imprese ibride, in parte costituite da strutture organizzative in parte da mercati; in esse non vi è coincidenza fra confini giuridico-organizzativi del soggetto impresa e i confini dell’azione gestionale e tecnica dello stesso soggetto; il vero contenitore e regolatore dei processi economici ed organizzativi è costituito dalla relazione fra imprese e non dalla struttura delle singole imprese; il loro scopo centrale è il perseguimento della flessibilità, dell’innovazione e della tempestività di risposta a un mercato altamente dinamico e turbolento.

In ogni caso dunque quando si parla di impresa-rete si fa riferimento a un sistema di “nodi”, ossia a un insieme di parti costitutive di una rete organizzativa. Si tratta, infatti, di entità piccole o grandi orientate ai risultati, relativamente autoregolate e capaci di cooperare con gli altri nodi in un processo di retroazione indispensabile per interpretare gli eventi esterni. I nodi possono essere interni o esterni ai confini giuridico-amministrativi di un’impresa, nel senso che possono essere sia unità giuridicamente autonome sia unità interne all’impresa stessa. Ogni nodo è dunque una parte costitutiva e attiva dell’impresa. Per esemplificare, i nodi di una rete possono essere: una holding, un board of directors, un’impresa autonoma, un ente pubblico, un consorzio, un’associazione di categoria, una business units, una direzione funzionale, un ufficio, un reparto, un negozio, un gruppo di lavoro, un ruolo organizzativo, una persona, etc. Quel che è importante sottolineare è che tutti i nodi sono strutturalmente parte di uno stesso processo produttivo inscindibile.

Nell’ambito di questo fenomeno rientra, infine, il concetto di esternalizzazione, ossia il processo di “sostituzione crescente di relazioni di complementarità strategica e operativa esterne con altre imprese (nelle reti) ai circuiti interni della singola impresa”[43]. In questo contesto la capacità produttiva di un’impresa non identifica più il campo in cui può operare, dal momento che essa attraverso il collegamento a rete con altre imprese può operare con efficacia acquistando i loro servizi produttivi o collaborando con alcune di esse alla messa a punto di un’innovazione di interesse congiunto. In questo modo tutte le variabili strategiche e organizzative dell’impresa possono divenire più mobili e flessibili rispetto ai progetti innovativi da intraprendere e l’impresa stessa, allo stesso tempo, può decomporsi e ricomporsi con estrema flessibilità e rapidità incrementando profondamente le sue capacità di sviluppo e innovazione[44].

 

2.2 Il modello giapponese

Il dibattito teorico di sociologi ed economisti d’impresa ha ormai da anni riconosciuto che il modello giapponese rappresenta la più completa espressione del processo produttivo postfordista, inteso come produzione flessibile e di qualità, a cui si perviene non tanto grazie all’innovazione tecnologica quanto grazie all’innovazione organizzativa[45].

Prima di procedere all’analisi delle caratteristiche del modello giapponese e delle sue potenzialità innovative è opportuno dedicare qualche riga alle circostanze storiche in cui il modello stesso ebbe origine. Sul finire degli anni ’40 la Toyota, piccola e ancora sconosciuta casa automobilistica giapponese, fu colpita da gravi problemi di sopravvivenza: una quota di mercato minima, scarsità di capitali, macchinari superati, spazi fisici ristretti. “Secondo i criteri fordisti della produzione di massa fabbricare macchine in quelle condizioni non poteva che essere fallimentare”[46]. Il direttore dello stabilimento, T. Ohno, decise, pertanto, di abbassare il punto di profitto dall’economia di scala a un’economia della flessibilità fondata su produzioni di breve serie. Ciò era possibile solamente cambiando frequentemente gli allestimenti dei macchinari in modo da riuscire a produrre lotti brevi inseguendo anche le più piccole opportunità di mercato. Il frequente cambio di produzione eliminava il bisogno di accumulare grandi riserve di materiale ma, allo stesso tempo, richiedeva un sistema di trasporti talmente perfetto da garantire consegne limitate di materiale giusto in tempo per essere lavorato. Questo sistema presupponeva due vantaggi decisivi rispetto al sistema di produzione di massa: da un lato la produzione limitata e diversificata permetteva di rispondere tempestivamente alle variazioni di mercato e alle richieste personalizzate dei clienti; dall’altro permetteva un controllo della qualità del prodotto di gran lunga superiore a quello della produzione di serie.

In questo modo tra gli anni ’50 e ’70 la Toyota ottenne successi così evidenti da riuscire a diventare una delle case automobilistiche più importanti e innovative del modo. E negli anni ’80 un gruppo di ricerca del MIT concettualizzò il modello di produzione giapponese come “produzione snella”[47].

Alla base del sistema di produzione snella vi è il principio centrale del just in time, ossia “un sistema produttivo che garantisce la continua e perfetta simmetria tra l’offerta dei beni prodotti e la domanda che proviene dal mercato”[48]. Ma per funzionare in modo ottimale il JIT richiede quattro requisiti fondamentali: l’eliminazione delle risorse ridondanti (spreco); il coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni relative alla produzione; la partecipazione dei fornitori; la ricerca della Total Quality.

Nel fordismo le imprese si preoccupano di avere scorte in abbondanza in modo da far continuare il ciclo produttivo anche in momenti di perturbazione o di anomalia. Ciò presuppone che quanto più alta è la probabilità di crisi tanto più elevati devono essere i livelli delle risorse di riserva. In questo contesto i costi delle ridondanze sono giustificati con la garanzia di una produzione regolare e costante, in conformità con le cadenze temporali prestabilite. Il modello giapponese invece opta per un “officina minima” come dice Ohno[49]. L’eliminazione delle risorse ridondanti non solo contribuisce all’economicità del processo produttivo ma sostiene un principio fondamentale della “filosofia dell’essenzialità” secondo cui qualsiasi elemento superfluo rappresenta uno spreco (scarti, prodotti scadenti, tempi morti di attesa, trasporti e manutenzioni inutili, persone addette a compiti burocratici o di controllo). La necessità di eliminare drasticamente gli sprechi impone un continuo processo di riduzione delle attività lavorative che non creano valore aggiunto, dei tempi morti e delle scorte, al fine di attivare un processo di miglioramento continuo. Un altro passo verso la ricerca dell’essenzialità è rappresentato dalla tecnologia frugale, ossia impianti il più possibile semplici e conoscibili dal personale che li utilizza, che di conseguenza meglio di nessun altro è in grado di proporre miglioramenti e suggerimenti per l’ottimizzazione del processo produttivo.

Inoltre, mentre nel fordismo vige una rigida divisione del lavoro, con confini precisi tra le diverse mansioni, secondo cui viene scoraggiata ogni forma di apprendimento di competenze e responsabilità formalmente non previste, nel modello giapponese, invece, i compiti hanno confini poco definiti e il personale è incoraggiato a partecipare alle decisioni che riguardano la produzione. In questo modo ogni operaio ha il diritto/dovere di interrompere il flusso produttivo se nota delle anomalie o dei difetti (processo di autonomazione)[50]. Il coinvolgimento delle maestranze si manifesta anche nella polivalenza delle capacità professionali che consente l’interscambio di posizioni all’interno dei gruppi di lavoro; nella flessibilità delle squadre che adattano la loro consistenza numerica e la strutturazione interna alle variazioni dei compiti e del flusso produttivo; nell’impegno al miglioramento continuo, con suggerimenti, discussioni di gruppo, sperimentazioni di nuove soluzioni. E inoltre, con una drastica riduzione delle “distanze fra chi pensa e chi esegue” e con il principio del life-time employement (impiego a vita), che garantisce la continuità della sapienza del ciclo e dell’apprendimento delle innovazioni[51].

Le imprese fordiste si fondano su produzioni altamente verticalizzate, ossia costruiscono e assemblano la maggior parte del prodotto all’interno dei propri stabilimenti. Per il resto dei componenti si rivolgono a fornitori esterni scelti in base a una concorrenza sui costi. Le imprese nel modello giapponese, al contrario, scelgono i fornitori selezionandoli accuratamente in base alle capacità di collaborare in programmi di lungo termine (progettazione, miglioramento, innovazione). La fiducia e la reciproca trasparenza sono fattori fondamentali di questi rapporti di lavoro. Il processo produttivo, in tal modo, può allargarsi a diverse unità produttive, anche esterne alla fabbrica o all’ufficio

Infine, nel modello giapponese il principio di qualità del prodotto assume una rilevanza centrale tanto che tutto il “processo produttivo è organizzato in modo da progredire costantemente verso l’obiettivo ideale dello zero-difetti”[52]. La ricerca della qualità totale deve essere presente lungo tutto il ciclo lavorativo: ideazione del prodotto, scelta del materiale, costruzione, consegna[53]. Ma qualità totale non significa esclusivamente realizzare un prodotto privo di difetti  per il consumatore finale, significa anche attenzione per il processo produttivo, ossia cercare di lavorare al meglio, senza sprechi e costi economici aggiuntivi. Secondo l’esperienza di Ohno[54] l’obiettivo zero difetti è tanto più facile da perseguire quanto più corto è il lotto messo in produzione. In questo modo la qualità si connette direttamente alla flessibilità produttiva.

        

2.3 La Total Quality

Il concetto di qualità totale ha un valore pluridimensionale: per questo motivo si è ritenuto opportuno non assimilarlo completamente all’analisi sul modello giapponese, come sovente succede, né identificarlo esclusivamente con la semplice certificazione in molti campi ora imposta da regolamentazioni internazionali (si rimanda all’allegato 1 per un breve excursus nella normativa ISO 9000).

Fino a metà degli anni ’80, nelle riviste di cultura manageriale non era stato pubblicato mai uno scritto su questa tematica, mentre dal 1987 ad oggi oltre il 50% di queste riviste si fa uso dei concetti di qualità e qualità totale, anche se risalgono al 1962 i primi circoli di qualità tipici del modello giapponese.

Tutto ciò ci permette, dunque, di comprendere il carattere innovativo e attuale che registra il tema della Qualità Totale, ma allo stesso tempo, come esso riveli un’esigenza di profonda ridefinizione di strategie, organizzazione, struttura, logiche di azione e immagine della realtà d’impresa.

Michele La Rosa sostiene che il concetto di qualità totale deve essere considerato nella sua globalità, ossia come principio trasversale rispetto ad altri fattori organizzativi e aziendali in grado di orientare l’impresa verso l’obiettivo unico dell’“eccellenza”[55]. In esso pertanto devono essere ricompresi il principio della qualità delle prestazioni dell’azienda (costi, consegne, servizi, sicurezza, profitti), della qualità del prodotto/servizio, della qualità di posizione rispetto all’ambiente, della qualità dell’organizzazione, della qualità dell’immagine sul mercato e nel modo esterno, e, infine, della qualità del lavoro[56]. Ne discende di conseguenza un rilevante fattore di discontinuità rispetto al passato.

Nel principio della qualità totale infatti ogni variabile del sistema organizzativo deve essere considerata nella sua specificità e indipendenza rispetto alle altre variabili. Questo perché altrimenti si avrebbe nient’altro che un’estensione della concezione fordista dell’azienda, secondo la quale ogni elemento costitutivo è subordinato e dipendente  ad alcune variabili centrali: profitto, tecnologia, etc. Il cambio di prospettiva risiede invece nella capacità di assumere inizialmente ogni obiettivo nella sua specificità per poi pervenire a una loro ri-combinazione in un obiettivo complessivo in grado di contestualizzare contemporaneamente tutti gli obiettivi individuati[57].

Per conseguire l’insieme di questi obiettivi, è indispensabile che il principio della qualità trovi applicazione in tutte le fasi dell'attività produttiva aziendale. L'attività di ogni azienda è infatti caratterizzata da una pluralità di processi e di funzioni che interagiscono tra loro:

·        studio e ricerca;

·        progettazione e sviluppo del prodotto;

·        pianificazione e sviluppo dei processi;

·        acquisti;

·        produzione o fornitura dei servizi;

·        verifica;

·        imballaggio ed immagazzinamento;

·        vendita e distribuzione;

·        installazione e messa in esercizio;

·        assistenza tecnica e manutenzione;

·        attività post-vendita;

·        messa fuori uso o riciclaggio alla fine della vita utile.

Di conseguenza un processo di qualità, per essere efficace, per poter cioè garantire la qualità del prodotto sotto ogni aspetto, deve trovare applicazione in ciascuno di questi momenti, per evidenziarne le caratteristiche, il rendimento e le possibilità di sviluppo. Si può affermare pertanto che l’intero Sistema di Qualità di un’impresa si distingue in due ampi sottosistemi[58]: il sistema qualità all'interno dell'impresa e il sistema qualità fra impresa e clienti.

Nel primo sistema il concetto della qualità si riferisce agli aspetti organizzativi, produttivi e commerciali. In questa area rientrano pertanto i seguenti obiettivi di qualità: 1) la qualità connessa alla definizione delle esigenze relative al prodotto (si tratta della qualità del prodotto finito, che deve rispondere alle esigenze del mercato e alle aspettative dei clienti); 2) la qualità connessa alla progettazione del prodotto: consiste nella capacità di tenere sotto controllo i processi per la progettazione di un prodotto conforme alle normative specifiche, all'uso cui è destinato e alle esigenze concrete dei clienti, nella identificazione e acquisizione di procedimenti, apparecchiature, risorse e capacità necessarie per conseguire la qualità richiesta; 3) la qualità connessa alla conformità del prodotto al progetto, ossia la rispondenza del prodotto finale ai requisiti di progetto e il mantenimento costante di quei requisiti, al fine di garantire al cliente sia il raggiungimento del risultato qualitativo che ci si era prefissati sia il suo mantenimento nel corso della realizzazione concreta del progetto; 4) la qualità connessa al supporto al prodotto (si tratta della qualità legata alla fornitura di supporto del prodotto dopo che questo è stato venduto, cioè la qualità dell'assistenza, che deve essere garantita ai clienti o direttamente o fornendo loro le opportune conoscenze tecniche).

 Nel secondo sottosistema rientrano gli aspetti più specificatamente connessi  ai rapporti contrattuali con i clienti, come la capacità del fornitore di produrre con continuità, di far fronte alle richieste con tempestività e di riuscire a mantenere un determinato livello qualitativo. E’ chiaro, ad esempio, che a quelle imprese fornitrici il cui fatturato è rappresentato in grande maggioranza da un cliente particolare, conviene assicurare a quel cliente l'osservanza delle norme di qualità e il funzionamento di un efficace sistema qualità. Esso pertanto rappresenta anche il perno centrale dei rapporti fra imprese e clienti, ponendosi come requisito fondamentale per soddisfare contemporaneamente: l’interesse delle imprese a mantenere competitività sul mercato senza sprechi o costi eccessivi; le aspettative dei clienti ad un prodotto di qualità, sempre più rispondente alle loro esigenze.

Da un lato infatti i clienti chiedono:

·        qualità del prodotto;

·        costi di mercato;

·        idoneità all'uso;

·        riduzione dei costi di manutenzione e di riparazione;

·        sicurezza ed igiene del lavoro;

·        protezione dell'ambiente.

Dall'altro lato, le imprese, per soddisfare queste richieste devono garantire:

·        il raggiungimento ed il mantenimento di un livello di qualità ottimale;

·        la rispondenza del prodotto ad esigenze, scopi o impieghi ben definiti;

·        la soddisfazione delle aspettative del cliente;

·        la conformità alle norme specificamente applicabili;

·        il rispetto dell'ambiente;

·        bassi costi di vendita e di manutenzione dei prodotti.

Risulta chiaro, pertanto, che la capacità per le imprese di soddisfare la domanda dei clienti non può che volgere a loro vantaggio sotto tutti gli aspetti: maggiore competitività, incremento di redditività e di quota di mercato, minore rischio di prodotti carenti o insoddisfacenti che possano compromettere la loro immagine sul mercato, minore rischio di sprechi dovuti a ripetizioni di processi, perdite di produzione, reclami o responsabilità legali. Il soddisfacimento di questi interessi contrapposti può essere dunque assicurato dalla costituzione di un Sistema Qualità all'interno delle imprese, cioè di un complesso di organizzazione, responsabilità, procedure, personale, risorse e mezzi per il perseguimento degli obiettivi di qualità.


3. La risposta delle imprese alla globalizzazione

 

Il passaggio dalla società industriale alla società postindustriale porta con sé anche una nuova immagine del mercato, la quale è a sua volta sia causa che conseguenza di questi stessi mutamenti.

Sebbene il termine globalizzazione abbracci un fenomeno di ampia portata che coinvolge l’intera società in tutte le sue dimensioni (storica, sociale, culturale, politica, economica), in questa sede faremo riferimento esclusivamente al concetto connesso al sistema economico o delle imprese. Quando in tale ambito si parla di globalizzazione il riferimento immediato è evidentemente il mercato delle merci e dei servizi, o meglio: alla pluralità delle forme istituzionali che definiscono tali mercati nel mondo.

Vittorio Olgiati[59] sostiene che uno dei principali criteri analitici per definire i mercati in un contesto di globalizzazione è rappresentato dal codice binario “aperto/chiuso”, riferito ai mercati stessi in relazione alle attuali potenzialità dell’innovazione tecnologica. In questi termini la novità e l'importanza del principio consiste nella possibilità tecnica dei mercati di superare contemporaneamente una pluralità di “chiusure” o “confini” sinora pressoché invalicabili. Dall’altro canto, altri studiosi sostengono che siano cinque megatrends a determinare il superamento di una logica locale dei mercati e la diffusione di una prospettiva “globale”[60]. Essi riguardano:

·        La globalizzazione della concorrenza. “Nel mondo ci sono circa 800 milioni di persone che consumano pressoché nello stesso modo: sono gli abitanti di Europa, Giappone e America più i benestanti di altri paesi. Conoscono gli stessi marchi, vivono gli stessi eventi in TV o attraverso la stampa e vogliono essere serviti con la stessa qualità e tempestività. Ogni azienda ha iniziato la propria esistenza servendo un mercato domestico e deve fare un salto dimensionale di 4-15 volte per continuare a esistere”[61]. La globalizzazione della concorrenza è iniziata nei settori produttivi che richiedevano altissime specializzazioni, elevati capitali per R&S o per investimenti produttivi, in cui produttori finali globalizzati richiedevano fornitori o componentisti ugualmente globalizzati, ma oggi si estende anche ai settori delle commodities, ai settori in cui il know how gestionale rappresenta un particolare vantaggio competitivo e a quasi tutti i prodotti di marca. “Le notevoli necessità di capitali per la R&S, l’opportunità di penetrare quei mercati in cui si può sperare in tassi di crescita superiori a quelli dei paesi sviluppati e le occasioni di acquisizione a seguito di privatizzazioni o ristrutturazioni sono altri elementi che spingono sulla strada della globalizzazione”[62].

·        Lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. L’unità di spazio, tempo e azione, sembra essere possibile oggi con lo sviluppo imponente delle telecomunicazioni e dell’informatica. In tempo reale e a migliaia di chilometri di distanza, è possibile progettare, effettuare transazioni complesse, dare gli ordini di rifornimento dei magazzini, effettuare attività di costumer service, tenere la contabilità, ecc. Il tutto a bassi costi e con eccellente qualità. L'impresa può quindi essere riprogettata da capo - come ad esempio nel Business Process Reeinginering (BPR) - decidendo dove fare certe attività, da chi farle fare e con quale mix di costi variabili/fissi. “Nel momento in cui i dipendenti si abituano a dialogare con altri via computer, senza il bisogno di un contatto faccia a faccia, non c'è più bisogno che, dall'altra parte, ci sia davvero una persona fisica che parla la stessa lingua: basta un sistema efficiente che genera le proprie decisioni e reazioni”[63].

·        La diminuzione dei tassi di crescita per quasi tutte le industrie nei paesi sviluppati. Da molti anni i ¾ dell'industria e dei servizi sono strutturalmente stagnanti, almeno se definiamo come stagnazione una crescita nel mercato di origine inferiore al tasso di aumento della produttività (che comunque ha tassi di miglioramento “strutturale” del 4-5 % all'anno)[64]. La non crescita è pertanto la norma, mentre la crescita è l'eccezione. D'altra parte ciò è logico: nei paesi sviluppati, nei quali la popolazione non cresce, non è più possibile mangiare di più, prendere più medicine, comprare più automobili nuove, ecc. Ci sono, naturalmente, alcune aree di crescita - particolari prodotti, aree geografiche sottosviluppate, servizi innovativi - ma la maggior parte dei business in cui operano le aziende è inevitabilmente stagnante. La consapevolezza di ciò richiede dunque un approccio totalmente nuovo da parte di manager, azionisti e dipendenti.

·        La delocalizzazione produttiva. Le possibilità offerte dalla teleinformatica di governare in tempo reale situazioni distanti migliaia di chilometri e il costante aumento della qualità dei prodotti fabbricati nei paesi che un tempo si distinguevano solo per il basso costo della manodopera, permettono oggi di decidere liberamente dove collocare ogni singola lavorazione del processo produttivo[65].

·        La deregolamentazione. Quando le tecnologie ridefiniscono i vecchi confini (come nel caso delle telecomunicazioni) le aziende diventano sempre più multinazionali, i consumatori diventano sempre più omogenei, ogni singolo stato non può più resistere alla pressione di uniformare la propria legislazione a quella degli altri e non può più negare a un settore la deregolamentazione che ha concesso a un altro. “Deregolatori e antitrust, che oggi tutte le aziende considerano dei nemici, sono invece dei preziosi alleati che permettono di percepire in anticipo un trend generalizzato”[66].

Il teatro dell’azione economica diviene dunque il “mercato mondiale” e il risultato dell’azione diventa la progettazione, la costruzione e la vendita di prodotti/servizi in una logica globale. Non si tratta più di vendere singoli prodotti  ma interi sistemi: “oltre ai prodotti, reti di vendita, agevolazioni finanziarie e assicurative, tecnologia, organizzazione”[67]. L’ottica è pertanto profondamente mutata: da una concezione del prodotto fortemente legata al luogo di origine, alla sua realizzazione nello stesso luogo in cui veniva progettato, alla successiva esportazione nei mercati esteri, si passa a una visione globale che implica un approccio diverso alle politiche del prodotto, di produzione, di distribuzione. I nuovi obiettivi richiedono una cultura di impresa che riesca a permeare ogni ambito dell'organizzazione per sviluppare una nuova abitudine a pensare in termini di internazionalizzazione: lo schema di pensiero deve diventare globale.

Il prodotto, affermano C. Paracone e F. Uberto[68], è forse ciò che più di ogni altro fattore rispecchia la cultura d’origine: ci sono attributi quali lo stile, le forme, la presentazione che si ricollegano direttamente al gusto estetico, alle abitudini di chi lo progetta e più in generale alla cultura del mercato di origine. Oggi tuttavia le aziende più dinamiche e flessibili si trovano nella necessità di sviluppare prodotti di classe mondiale e servizi che abbiano uno standard di livello mondiale nel rapporto costo/qualità. Le implicazioni sulla cultura d’impresa sono pertanto notevoli.

La definizione di standard di classe mondiale per il design, i servizi e la prestazione implica nuove strategie di impiego delle sorgenti di conoscenza e nuove forme di lavoro di gruppo. In particolare per “l’impiego strategico delle fonti di conoscenza si stanno sviluppando modelli a sorgente tripla[69]: sviluppo del progetto secondo i canoni prevalenti nell’originaria cultura d’impresa; collaborazioni con partners di altri paesi, acquisizione del contributo di fonti indipendenti internazionali che rispecchino le culture di aree strategiche del mercato mondiale.

Stanno emergendo infatti nel mondo dell’impresa molte e differenziate alleanze. Esse divengono necessarie per entrare su mercati difficili, per migliorare la competitività e acquisire tecnologie, per sviluppare nuove conoscenze e sapere manageriale. Il successo di queste alleanze risiede nella compatibilità culturale dei partners, nell’esistenza di condizioni per la reciproca cooperazione, nell’efficacia del coordinamento e dei meccanismi di integrazione. Infatti quanto più i confini aziendali si espandono, abbracciando tessuti sociali diversi, tanto più aumentano le difficoltà di integrare le organizzazioni. La comunicazione diventa pertanto elevata e tutto il sistema organizzativo nel suo insieme non può non esserne coinvolto.

“L'azienda che deve confrontarsi con un mercato di 800 milioni di consumatori potenziali non ha che una possibilità: focalizzarsi e fare al proprio interno solo l'essenziale”[70]. Il primo passo è dunque l'abolizione del concetto di “domestico”: un consumatore potenziale è tale sia che risieda in Giappone sia che viva negli Stati Uniti e, quindi, bisogna comprendere bene cosa tale consumatore medio si attende dal prodotto e dall'azienda che lo produce. In parallelo deve essere abolito il concetto di distanza, sia nello spazio che nel tempo: “non si può più introdurre un nuovo prodotto prima vicino a casa e poi, via via, negli altri mercati, perché il consumatore pretende di essere servito istantaneamente ovunque con il nuovo prodotto che vede in TV o viaggiando e i concorrenti non aspettano altro che una differenza di tempestività per intrufolarsi nel gioco competitivo”[71].

Il secondo passo è il ripensare le relazioni con i fornitori e i clienti. Per competere su base globale il know-how presente in azienda non è spesso sufficiente e deve quindi essere integrato con know-how che altri hanno: know-how tecnologico, conoscenze di ciascun specifico mercato, accesso a risorse tecnologiche e finanziarie particolari, ecc. Anche in questo caso l’azienda dovrà sviluppare un atteggiamento positivo verso le partnership, accettando la parziale perdita di sovranità e di autonomia che esse comportano.

Il terzo passo è rivedere anche la logica in base alla quale sono svolti, all'interno dell'azienda, i vari servizi: dalla contabilità alla logistica, dall'informatica all'assistenza tecnica. A differenza del passato, esistono oggi validi fornitori internazionali di servizi che danno all'imprenditore la possibilità di acquistare (sempre in ottica di partnership) quasi tutti i servizi complementari alla propria progettazione e distribuzione del prodotto. Al limite l'impresa può occuparsi solo del marchio, dell'ideazione del prodotto e della finanza, essendo oggi possibile far costruire, distribuire e assistere il prodotto da altri specialisti. I capitali e le risorse intellettuali dell'azienda possono così essere concentrati solo nelle aree in cui non c'è un'alternativa efficace e meno costosa all'esterno. L'outsourcing non è quindi soltanto un metodo per ridurre i costi, ma è anche una necessità strategica per l’azienda che si deve concentrare nel core del core per competere in un mercato globale[72].

Il quarto passo è l'identificazione di un assetto competitivo vincente. Non basta infatti fare meglio che in passato, soprattutto in termini di costi: bisogna riprogettare interamente come si produce e si vende e come si continuerà a innovare. La potenza dell'informatica collegata alle telecomunicazioni consente di ridurre praticamente a zero il costo variabile di ogni transazione. La possibilità di delocalizzare la produzione nei paesi più convenienti, mantenendo al contempo qualità e tempi di reazione adeguati, consente di decentrare le singole fasi del processo produttivo, dall'ideazione del prodotto all'assistenza al cliente, costruendo un sistema competitivo vincente. Infine, il collegamento con centri di eccellenza diversi ed esterni all'azienda, ovunque siano situati nel mondo, consente la tempestiva identificazione di nuove possibilità di produrre o servire clienti sempre più sofisticati ed esigenti. A questo punto il vantaggio competitivo dell’azienda diviene la sua capacità di sviluppare competenze proprietary, cioè non copiabili[73]. Essa, infatti, liberata dai problemi che possono essere delegati ad altri, può concentrarsi su quelle tecnologie essenziali che, combinate in modi innovativi, permettono stabilmente di far meglio dei concorrenti.

In ultimo occorre citare la sempre maggiore attenzione che bisogna prestare al mercato dei capitali: “quando tutti i competitors si sono concentrati sul core business, hanno terziarizzato e reingegnerizzato le proprie operations, hanno adottato tecniche di quick response, total quality, employee empowermente e lean production, la capacità di alcuni di acquisire capitali con l'attesa di tassi di remunerazione diretta (dividendi) inferiore a quello degli altri concorrenti (in quanto compensato da un'attesa di un maggior capital gain) diventa l'elemento distintivo sul quale basare una strategia di sviluppo”[74].

In questa prospettiva, dunque, la presenza di leaders dotati di una visione globale diventa la chiave di volta per il successo nel gioco della competizione. I due fondamentali ingredienti della competitività in una dimensione globale sono, pertanto, la produttività e la qualità, dove il concetto di produttività assume un significato allargato rispetto al passato[75]. Essa, infatti, non indica più esclusivamente il dato numerico della produzione effettuata per unità di tempo e valore, bensì si espanse alla considerazione dell’impiego ottimale e simultaneo del mix di tutti i fattori della produzione: capitali, lavoro, materiali, conoscenza, tecnologia, risorse umane.

 


4. I case study

 

In questo capitolo procederemo all’analisi di due realtà aziendali, la ST Microelectronics e la Advanced Micro Devices, appartenenti al settore della microelettronica, per le quali la scelta di adottare un modello organizzativo e produttivo altamente avanzato e flessibile ha determinato il successo a livello internazionale. Esse, infatti, hanno dato vita a due soluzioni organizzative e produttive estremamente innovative e avanzate, fondando la loro strategia su tre principi cardine:

·        la costituzione di un network operativo mondiale, composto da unità organizzative dislocate in diverse parti del pianeta;

·        il miglioramento continuo dei livelli qualitativi del prodotto finale e dei cicli produttivi al fine di garantire costantemente un prodotto leader sul mercato;

·        una rilevante e significativa attenzione alle problematiche ambientali, attraverso continue attività di tutela e monitoraggio degli ecosistemi dei contesti territoriali in cui sono insediate.

 


4.1 La “ST Microelectronics”

La ST Microelectronics è un’azienda che svolge un’intensa attività manifatturiera e commerciale nel campo dei componenti e delle applicazioni per l’elettronica e la microelettronica, nonché in settori connessi e affini. Essa infatti progetta, sviluppa, realizza e commercializza un’ampia gamma di circuiti semiconduttori integrati ("ICs") e congegni discreti impiegati in una grande varietà di settori (telecomunicazione, telefonia, informatica, multimediale, automazione e controllo dei sistemi industriali, apparecchiature e macchinari ospedalieri, attrezzature spaziali, etc.).

Sulla base dei più recenti dati disponibili, la ST risulta la prima azienda al mondo fornitrice di circuiti integrati analogici. I prodotti aziendali sono realizzati e progettati utilizzando un’ampia gamma di processi di fabbricazione e avanzati metodi di progettazione. Infatti, per la complessità e la varietà dei processi e delle tecniche di ideazione, la Compagnia possiede un ampio range di risorse intellettuali che le hanno permesso di sviluppare convenzioni “incrociate” con molti dei principali fabbricatori mondiali di semiconduttori. In questo modo la ST ha sviluppato una rete mondiale di alleanze strategiche, che includono relazioni con clienti chiave per lo sviluppo del prodotto, con clienti e altri fabbricanti di semiconduttori per lo sviluppo tecnologico e relazioni con le principali case di progettazione software.

Allo stato attuale la ST offre oltre 3000 tipi di prodotti a più di 1500 clienti, tra cui si evidenziano Alcatel, Bosch, Creative Technology, Ford, Hewlett-Packard, IBM, Motorola, Nokia, Northern Telecom, Philips, Seagate Technology, Siemens, Sony, Thomson Multimedia e Western Digital. Circa il 51% del fatturato della Società deriva da prodotti differenti, ossia da una combinazione di sofisticati semiconduttori e di prodotti su commissione, realizzati per soddisfare specifici clienti o specifiche applicazioni.

La ST Microelectronics è nata nel giugno del 1987 dalla fusione tra la Thomson Semiconducteurs francese a la SGS Microelettronica italiana. Da allora la Società ha sviluppato significativamente la sua gamma di prodotti e le sue tecnologie e, inoltre, ha fortificato la capacità di produzione e distribuzione in Europa, Nord America e nelle regioni dell’Asia orientale. Questa espansione è stata facilitata dalla diffusione delle attuali convenzioni internazionali e dal progetto di avviare la costruzione di altre 2 unità produttive: una in Italia e una fuori dall’Europa, che si vanno ad aggiungere alle 4 già esistenti a Crolles (Francia), Phoenix (Arizona), Catania (Italia) e Rousset (Francia).

Il gruppo comprende 25 mila addetti, 9 unità di ricerca avanzata e sviluppo, 31 centri di progettazione e applicazione, 17 fabbriche principali e 57 uffici commerciali in 23 paesi[76]. Si tratta pertanto di una rete ampia e complessa di unità organizzative dislocate sul territorio mondiale, ma significativamente connesse tra loro attraverso importanti azioni di integrazione verticale e orizzontale - mission aziendale corporativa e unicità di metodologie/azioni che caratterizzano i processi produttivi - le quali riescono a garantire la continuità dei cicli di produzione e il raggiungimento dell’obiettivo unico: realizzare un prodotto qualitativamente elevato e all’avanguardia sul mercato nel pieno rispetto delle condizioni ambientali dei paesi nel quale si insedia la Società.

La Direzione Centrale della Compagnia si trova a Saint Genis (Francia), vicino a Ginevra (Svizzera) dove si trovano anche le altre Direzioni europee e i Centri di Servizio. Le Direzioni americane si trovano invece a Carrollton (Dallas, Texas) e quelle asiatiche a Singapore e a Tokyo.

Per garantire il continuo sviluppo tecnologico e offrire ai clienti un prodotto all’avanguardia, la ST investe ogni anno significative quote di fatturato in R&D. Per esempio, nel 1995 ha investito un miliardo di dollari in spese di capitale, pari al 28.3% del fatturato, e ha speso 440.3 milioni di dollari, pari al 12.4% del fatturato, per la ricerca e lo sviluppo[77].

La ST, come detto, produce diversi tipi di semiconduttori - dai singoli transistors ai microprocessori con milioni di componenti su uno stesso silicon chip - che possono essere implementati in una varietà di strumenti o ambienti, dagli avanzatissimi supercomputers fino a strumenti quotidiani come il telefono, le automobili, il tostapane o perfino le lampadine. A tal fine la Società ha elaborato un piano aziendale di produzione organizzato in 5 gruppi produttivi fondamentali[78] (per approfondimento si veda l’allegato 2), i quali si articolano in un insieme unitario di centri produttivi, distaccati fisicamente ma strettamente connessi fra loro per il semplice fatto di essere un “anello” costitutivo all’interno di un ciclo produttivo unitario:

·        Dedicated Products Group: realizza semiconduttori per  applicazioni specifiche utilizzando avanzate e potenti tecnologie bipolari. I prodotti di questo gruppo sono usati in tutte le più grandi applicazioni finali, compresi i networks per la comunicazione mobile, i sistemi asincroni di comunicazione e i sistemi di compressione video-digitali;

·        Discrete and standard ICs Group: realizza power devices, transistors, prodotti per frequenze radio ("RF"). Il gruppo ha una base eterogenea di clienti e un ampio portfolio di prodotti;

·        Memory Products Group: produce un’ampia gamma di prodotti di memoria, come  gli EPROMs, le memorie flash, le SRAMs e i circuiti per le smartcards;

·        Programmable Products Group: realizza microcomponenti, cirduiti digitali e analogico/digitali. Esso produce anche componenti grafici per PC e Ics per applicazioni multimediali;

·        New Ventures Group: individua e sviluppa nuove opportunità di business, cercando di sfruttare pienamente il proprio know-how tecnico e costituendo abili e globali gruppi di lavoro orientati al marketing. Il gruppo si è costituito nel maggio del 1994 e le sue attività iniziali si sono focalizzate sulla realizzazione e vendita del microprocessore x86, progettato dalla Cyrix Corporation.

 

La ricerca, in particolare quella orientata alla qualità, ossia al miglioramento continuo delle performance aziendali, costituisce un fattore determinante dell’intera politica aziendale. Nello specifico la ricerca della qualità si fonda sui seguenti principi: miglioramento continuo del prodotto e dei cicli produttivi, orientamento alle esigenze del cliente, sperimentazione diffusa, attenzione e sviluppo delle risorse umane impiegate, profondo impegno manageriale.

Anche in questo caso, l’attività di R&S della ST è articolata in una rete di unità strategiche dislocate sul territorio, che si occupano di una fase specifica ma allo stesso tempo complementare alle altre del processo operativo. La rete comprende Funzioni centrali, Unità operative per gruppi omogenei di prodotto e Unità geografiche.

L’attività aziendale si fonda, infine, su una rilevante e significativa politica ambientale a livello di corporate. Scopo è l’applicazione dei principali criteri per migliorare le performance ambientali e permettere alla ST di diventare una delle migliori industrie nel rispetto dell’ambiente. Questa politica coinvolge in modo trasversale tutte le attività della ST, in particolare: la Progettazione, la Fabbricazione, gli Acquisti, la Logistica, la Vendita e il Marketing e le più generiche attività amministrative (Legale, Human Resources, Contabilità, etc). Inoltre, bisogna sottolineare che anche tutti i fornitori coinvolti nel networks aziendale sono sollecitati ad adottare un approccio di rispetto per l’ambiente.

In questo modo l’attenzione all’ambiente diviene un elemento allo stesso tempo costitutivo e unificante della “condotta” aziendale. Esso si concretizza nei seguenti principi (per un approfondimento degli stessi si veda l’allegato 2):

·        Mission ambientale: eliminare o minimizzare l’impatto delle azioni aziendali sull’ambiente, massimizzando l’utilizzo di materiali riciclabili e adottando il più possibile fonti di energia rinnovabili;

·        Visione ambientale: seguire l’Environmental Decalogue (si veda l’allegato 2) al fine di essere riconosciuto da tutti gli stakeholders come il leader nella tutela dell’ambiente, applicando i criteri della regolamentazione ad ogni grado e ovunque. Ciò al fine di acquisire la certificazione del Eco Management and Audit Scheme (EMAS) in tutte le comunità in cui si opera;

·        Politica ambientale: 1) conseguire un miglioramento continuo delle performance ambientali cercando di ridurre l’impatto aziendale sull’ambiente utilizzando le migliori tecnologie disponibili (EMAS art. 3a); 2) avere un approccio “proattivo” nelle attività ambientali, fondato sui principi del TQM (Total Quality Management), derivanti dai 16  principi della Business Charter for Sustainable Development elaborata dall’ICC (International Chamber of Commerce); 3) essere un leader mondiale sulla base di:

-          doveri morali verso l’ambiente;

-          rilevanza economica (investire nella protezione ambientale  dando significativi vantaggi strategici alla compagnie con cui si collabora. Questo perché gli sforzi finanziari, in larga parte, saranno ripagati se si è in grado di progettare e implementare processi incontaminati e funzionano con materiali ed energia poco costosa). Gli investimenti ambientali, pertanto, devono rappresentare una priorità;

-          risorse umane: assumere i migliori individui giovani e motivare gli impiegati con la garanzia di un’elevata qualità della vita.

La consapevolezza del rispetto ambientale risulta pertanto essere il principio ispiratore per il raggiungimento di tutti questi punti. Inoltre, i 16 principi della Business Charter for Sustainable Development forniscono le linee guida per uno sviluppo continuo di questa politica. La Council Regulation (EEC -1836/93) del 29 giugno 1993, che implica la partecipazione volontaria delle imprese del settore industriale appartenenti alla Community Eco-Management e all’Audit Scheme – EMAS, dà importanti indicazioni su cosa la ST ha introdotto al suo interno per amministrare i diritti ambientali (attività/metodologie di verifica ambientale). Le norme ISO 14000, riguardanti la fase di emissione, forniscono a livello mondiale le linee guida come per la EMAS. Il TQEM (Total Quality Environment Management), infine, individua l’insieme di azioni pratiche per lavorare e organizzare tutti gli aspetti di un business al fine di ottenere i migliori risultati.

Tutta l’organizzazione produttiva appena vista, è bene sottolinearlo di nuovo, è svolta nella logica dell’integrazione dei processi produttivi tra stabilimenti diversi, in cui si sovrappongono e contribuiscono al risultato finale leggi, culture e stili di management differenti.

 


4.2 La “Advanced Micro Devices”

            La produzione di circuiti integrati è un’attività complessa. Allo stato attuale un microcircuito - per esempio, un processore AMD-K6® - è composto da circa 8 milioni di transistors su un “chip” di silicio più piccolo di un‘unghia. La costruzione di questi circuiti richiede pertanto processi tecnologici altamente avanzati.

Nell’ambito di questo settore la Advanced Micro Devices (AMD) detiene una posizione leader, grazie agli elevati investimenti che la Società destina per la ricerca e lo sviluppo dei propri processi industriali tecnologici. Basti pensare che negli ultimi anni, la AMD ha investito circa 1.4 miliardi di dollari – più del 15 % del fatturato – in R&D[79]. Gli investimenti effettuati hanno, comunque, prodotto straordinari ritorni. Infatti, i progressi raggiunti nei processi tecnologici, in particolare in quelli fotolitografici, hanno permesso di migliorare le performance produttive e allo stesso tempo di ridurre i relativi costi.

La AMD è nata nel 1969 ed è un’azienda che progetta e realizza microprocessori, memorie flash, circuiti per telecomunicazioni e per applicazioni networks. La Società è articolata in una rete di unità organizzative e produttive dislocate sull’intero territorio mondiale. La scelta di adottare una tale soluzione organizzativa è dipesa dalla possibilità di realizzare un processo produttivo estremamente flessibile ma al contempo altamente specializzato e unitario. Infatti, ogni unità operativa è dislocata in una determinata area geografica scelta in base alle caratteristiche e competenze specialistiche (tecnologiche, scientifiche, intellettuali, ambientali, territoriali, etc.) che contraddistinguono sia le risorse umane impiegate sia il contesto territoriale stesso.

La AMD ha dunque centri operativi a Sunnyvale (California), Austin (Texas), Bangkok (Tailandia), Penang (Malesia), (Singapore), Aizu-Wakamatsu (Giappone), Dresden (Germania), Suzhou (Cina), per un totale di circa 13 mila addetti in tutto il mondo[80].

La Direzione Centrale e il Centro di Sviluppo Submicron (SDC), che si occupa della ricerca di una parte limitata della produzione, si trovano a Sunnyvale, la città in cui venne fondata la AMD nel ’69 e il centro operativo di Silicon Valley, mentre il Gruppo di Servizio per la Produzione sta vicino a Santa Clara.

Ad Austin in Texas si trova il più grande centro produttivo (FAB 25) della AMD, che nato nel ’79 si compone di 4 stabilimenti. Qui viene fabbricato il prodotto più sofisticato della AMD, ossia il wafer, la base di tutti i microprocessori, nonché la serie K6™ di microprocessori. A Dresden in Germania si trova la Fab 30 specializzata invece nel processo di silicon wafers. Alla base di questo processo operativo vi è un piano estremamente efficiente di generazione elettrica. A Bangkok (Tailandia) e a Penang (Malesia) sono ubicati i centri specializzati nell’assemblaggio delle componenti microcircuitali e nella conduzione di test avanzati. Qui pertanto vengono svolte le più antiche e complesse operazioni di analisi e assemblaggio[81]. In entrambi i centri, infatti, sono stati implementati importanti programmi chimici. A Singapore e a Suzhou (China), infine, vengono condotti ulteriori test sul prodotto finale.

La cultura della AMD, importante elemento di integrazione aziendale, si fonda sul rispetto per gli individui. I valori su cui si basa obbligano l’Azienda, sia che si tratti di un privato cittadino sia di un impiegato, a migliorare la qualità della vita e a proteggere l’ambiente delle comunità nelle quali essa opera.

Il programma Environmental, Health and Safety della AMD (per approfondire l’argomento si veda l’allegato 3) rappresenta, dunque, la volontà di formalizzare operativamente i propri valori fondanti. Il programma consiste in un insieme di principi generali in grado di guidare tutte le azioni/attività aziendali a livello mondiale. Esso è finalizzato alla sicurezza dei luoghi di lavoro, alla protezione ambientale, alla prevenzione di danni per la proprietà, allo sviluppo della motivazione degli impiegati e alla conformità alle norme e regolamentazioni mondiali. In questa prospettiva management e singoli lavoratori sono responsabili del raggiungimento degli obiettivi del programma. Pertanto, in esso è prevista un’ampia gamma di operazioni corporative che vanno dalla riduzione di materiali pericolosi fino alla salute, sicurezza e benessere dei lavoratori.

Alcuni punti essenziali del programma riguardano:

·        Water conservation. Si tratta di un programma di purificazione dell’acqua utilizzata in ogni fase del processo produttivo. Sebbene la AMD abbia ideato un processo di purificazione dell’acqua, continua a ricercare metodi ancora migliori per preservare le risorse idriche;

·        Global Climate Change. La AMD destina ampia parte dei suoi programmi di ricerca e sviluppo per la riduzione delle emissioni di potenti gas termici e per misure di preservazione energetica. Entrambe le misure riguardano tutte le attività e prodotti.

·        Sematech - The Semiconductor Research Consortium. Si tratta di un centro produttivo di semiconduttori, sito a Austin in Texas, in cui la AMD concentra la realizzazione di gran parte dei numerosi progetti concernenti appunto il programma EHS. A tal fine nel 1997 la Sematech ha iniziato una collaborazione con l’Electric Power Research Institute (EPRI) di Palo Alto (CA). Da questa collaborazione è sorto il Center for Electronics Manufacturing (CEM), un’organizzazione internazionale nata specificatamente per ricercare e analizzare nuovi sbocchi energetici nella produzione di semiconduttori. Sempre nel 1997 è stato creata anche una nuova organizzazione internazionale, la International Sematech, che oltre a includere le società già membri della Sematech originaria, raggruppa anche nuove società dell’Asia e dell’Europa.

 

Infine, la AMD, oltre a questo valido e ampio programma ha messo in atto, al fine di sostenere l’integrazione del sistema organizzativo, un articolato e complesso sistema di trasferimento e diffusione delle informazioni e delle conoscenze aziendali. Esso consiste in un sistema informatico definito Computer Based Training (CBT), in un sistema database integrato, nella diffusione di rapporti elettronici sulla legislazione dei diversi paesi, nelle pubblicazioni on-line di informazioni sia interne sia esterne all’azienda.

Anche per l’AMD, quindi, la vera risorsa organizzativa consiste nell’ampio processo di delocalizzazione produttiva, che permette a stabilimenti in nazioni diverse e lontanissime di interscambiare i prodotti giunti ad un determinato stadio della produzione, operando senza soluzione di continuità in tutti i processi critici, da quelli produttivi sino all’assicurazione di qualità.


Conclusioni: i vantaggi della delocalizzazione produttiva

 

Per concludere questo breve excursus dentro il sistema industriale, attraverso il quale abbiamo condotto rapidi ma mirati flash tra i cambiamenti più rilevanti intervenuti nel mondo della produzione, è bene tirare le somme degli argomenti e delle esperienze aziendali prese in considerazione, focalizzando in particolare l’attenzione sui benefici e sulla motivazioni aziendali alla base del processo di delocalizzazione produttiva, sia a livello nazionale che internazionale. Ciò in quanto si tratta di una tendenza che sta assumendo proporzioni di ampia portata, superando la specificità dei settori produttivi o dei contesti territoriali.

La delocalizzazione produttiva si inserisce nell’ambito di un processo innovativo generalmente condiviso dai maggiori Paesi industriali, i quali, negli ultimi anni, hanno visto crescere gli investimenti diretti esteri da parte delle imprese. Questo trend è supportato dalla liberalizzazione e dalla globalizzazione dei mercati ed è facilitato dal miglioramento delle infrastrutture mondiali di trasporto e comunicazione nonché all’avvento di nuove tecnologie in grado di ridurre i vincoli spazio-temporali e i costi di coordinamento delle transazioni intra-impresa[82]. A conferma di ciò basti pensare al peso strategico che rivestono le alleanze e le relazioni con partners stranieri o la grande parte di fatturato che le due aziende analizzate nel capitolo precedente destinano ogni anno allo sviluppo di unità aziendali dislocate in diverse aree del mondo. Se da un lato, dunque, si tratta di un fenomeno quasi di “massa” nel senso che tende a coinvolgere tutti i settori di attività economica - dalla manifattura più tradizionale sino alla produzione di servizi e ai segmenti dell’alta tecnologia - dall’altro è pur vero che ogni processo di delocalizzazione avviato all’interno di un’azienda
rappresenta un fenomeno a sé stante, che non può prescindere dall’analisi dei caratteri specifici della sua organizzazione, dei suoi orientamenti strategici, delle peculiarità settoriali, territoriali, di destinazione degli investimenti dell’azienda interessata. Tuttavia, pur tenendo conto di questo, in questa sede conclusiva è utile svolgere alcune considerazioni di carattere più generale.

Come abbiamo visto sinora, la delocalizzazione produttiva, sia entro i confini nazionali sia “extranazionali”, è strettamente connessa a un processo di dimensionamento della struttura aziendale e organizzativa, la quale a sua volta è conseguenza della crisi delle grandi concentrazioni industriali[83] e in particolare dell’industria della produzione di massa e standardizzata taylor-fordista. Basti pensare, ad esempio, che in Italia le piccole e le medie imprese rappresentano quasi i tre quarti delle multinazionali italiane con attività produttiva all'estero, anche se il loro contributo scende - come è naturale - al 37% in termini di imprese estere partecipate e al 13,5% in termini di addetti totali all'estero. In particolare, le Medie Imprese Italiane sono, seppur di poco, l'insieme numericamente più numeroso, con 244 case-madri e 396 imprese partecipate all'estero che occupano oltre 50.000 addetti[84].

A tale proposito Renato Brunetta[85] sostiene che mentre sul piano teorico questa tendenza rappresenta un ritorno alle ipotesi smithiane[86] sul riconoscimento della maggiore capacità operativa realizzabile mantenendo l’unità produttiva entro dimensioni non eccessivamente ampie, sul piano pratico, invece, segnala la possibilità di risolvere positivamente le diseconomie proprie delle grandi dimensioni, utilizzando la flessibilità di unità produttive più direttamente sensibili alle modificazioni della domanda di mercato. Di conseguenza il processo di delocalizzazione assume un valore diverso, nel senso che il suo verificarsi non è più legato soltanto alla necessità di mantenere quote di mercato, ma anche alla garanzia di un adeguato margine di manovra nell’ambito delle alternative tecnologiche esistenti.

Esso, infatti, se da un lato appare come un tentativo di risposta alla rigidità del sistema produttivo, consentendo di perseguire l’obiettivo di superamento delle diseconomie (derivanti dalla concentrazione spaziale dei diversi fattori produttivi entro strutture di ampie dimensioni) mediante una delocalizzazione delle fasi della lavorazione in aree diverse da quella dove originariamente veniva a situarsi l’unità produttiva, dall’altro si può definire come l’attivazione di una molteplicità di unità produttive (stabilimenti, unità locali, etc) “la cui scala venga determinata in base all’obiettivo di pieno sfruttamento delle economie di scala endogene”[87]. In questo modo il sistema integrato derivante dall’esternalizzazione, oltre ad implicare collegamenti di natura tecnologica ed efficientistica, può consentire di mantenere scale operative adeguate a ciascuno stadio del processo produttivo ed eliminare elementi di costo temporale nella utilizzazione dei fattori produttivi.

Altri importanti fattori che influenzano la scelta di produrre con una pluralità di unità produttive sono[88]: i costi di trasporto per la distribuzione dei prodotti o l’approvvigionamento delle materie prime; l’integrazione verticale; la diversificazione orizzontale; il congestionamento delle aree industrializzate d’origine; le agevolazioni finanziarie; l’eterogenea distribuzione territoriale del fattore lavoro; la specializzazione degli impianti e il controllo e l’assicurazione della qualità dell’intero processo produttivo (prodotto finale, cicli di lavorazione, qualità della vita, ambiente, etc).

In questo processo la tendenza principale che si osserva è verso il decentramento degli impianti produttivi, ossia la segmentazione tra più siti dei cicli tecnici di lavorazione, come è risultato chiaramente anche dalla ricostruzione delle due realtà aziendali prese in considerazione in questo studio, mentre in misura molto inferiore si assiste al decentramento di funzioni amministrative, che, al contrario tendono a rimanere centralizzate.

La scelta della localizzazione delle unità produttive dipende, quindi, dalla valutazione di diversi fattori ma in particolare conta soprattutto il calcolo di convenienza dal punto di vista economico rapportato alla situazione del mercato e alla fase del ciclo attraversata dall’intero sistema[89]. Di conseguenza, prevarranno di volta in volta motivazioni connesse all’utilizzazione del fattore lavoro (sia in termini di costo della manodopera sia in termini di specializzazione della stessa), delle materie prime impiegate, alla vicinanza a complessi industriali, in modo da beneficiare di rilevanti esternalità connesse alla facilità di collegamenti e alle economie di agglomerazione (in previsione anche di possibili future esigenze di ampliamento della capacità produttiva)[90].

Tuttavia la scelta della delocalizzazione produttiva, dominata da un orientamento resource seeking, cioè determinata dal mutare dei vantaggi comparati riguardo al costo dei fattori, spiega solo in parte le valutazioni alla base della decisione aziendale di distribuire fuori della sede principale dell’impresa le fasi del processo di produzione. Ad orientare le scelte vi sono infatti anche orientamenti market seeking, cioè finalizzati alla conquista duratura di nuove quote di mercato e atti rivolti all’acquisizione di know-how complementare e di integrazione delle proprie attività di produzione e di R&S con quelle svolte, ad esempio, da imprese acquisite all'estero[91]. In questa tendenza rientrano ad esempio i casi aziendali trattati nel quarto capitolo. Alla base della loro scelta di esternalizzare parte dei processi produttivi, di dare vita ad un circuito articolato, ma al tempo stesso altamente integrato e unitario, di unità organizzative vi è la valutazione della maggiore efficienza produttiva e del maggiore livello qualitativo raggiungibile cercando di organizzare il processo di produzione in base alle specifiche potenzialità tecniche, ambientali, intellettuali, etc. che ciascun contesto territoriale e culturale può offrire. Una soluzione quasi obbligata se si considera quanto sia importante la qualità del prodotto e al contempo la flessibilità e la tempestività di risposta al mercato per chi opera nel settore elettronico.

Non va sottaciuto, infine, che, specialmente nei servizi, la delocalizzazione produttiva è spesso una necessità imposta dalla particolarità settoriale, soprattutto dalla necessità di fornire prodotti in maniera capillare, personalizzati per utenti di culture e stili di consumo diversi, mantenendo costante nel tempo e tra le diverse aree geografiche la qualità che costituisce una delle componenti fondamentali dell’immagine di marca del produttore.

La strada del decentramento delle fasi produttive quindi rappresenta una strategia efficiente quando[92]: a) vi è un significativo trade-off tra riduzione dei costi ed altri fattori critici, quali la sicurezza degli approvvigionamenti, la qualità del prodotto, i tempi di consegna e il servizio al cliente, b) si combinano motivazioni market seeking nei confronti del paese target dell'iniziativa o dell'area regionale in cui si colloca.

In definitiva, dunque, il fenomeno della delocalizzazione produttiva porta alla costituzione di un network di nodi organizzativi e produttivi, che può superare o meno i confini nazionali dell’impresa interessata, ed è in grado di valorizzare le sue risorse distintive endogene - intellettuali, tecnologiche, produttive e commerciali - arricchendole con nuovi vantaggi competitivi, migliorando il processo di produzione e il prodotto stesso, incrementando la qualità ottenuta dal cliente finale e la tempestività di risposta alla sue richieste.


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www.analysisbo.it/iso9000

(materiale e documentazione sulla normativa ISO9000)

 

www.impresa-stato.mi.camcom.it/im_34/olgiati

(Articolo di Olgiati U., “Globalizzazione”, in Impresa & Stato n.34)

 

www.impresa-stato.mi.camcom.it/im_41/mariotti

(Articolo di Mariotti S., “L’internazionalizzazione produttiva”, in Impresa & Stato n. 41)

www.liuc.it/dida/econ/program/intra/progetti/g14/STRATEGIA

(AA.VV., “Strategia: globalizzazione”)

 

www.st.com

(materiale e documentazione relativa alla ST Microelectronics)


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Allegati


 

 

 

 

 

 

 

Allegato 1:

La qualità. Uno sguardo alla normativa ISO9000


 

 

 

 

 

 

 

Allegato 2:

Il caso della “ST Microelectronics”


 

 

 

 

 

 

 

Allegato 3:

Il caso della “Advanced Micro Devices”



[1] Butera F., Il Castello e la Rete, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 12.

[2] Accornero A., Il Mondo della Produzione., Bologna, Il Mulino, p. 7.

[3] Accornero A., Il Mondo della Produzione, Bologna, Il Mulino, 1994, cap. I.

[4] Accornero, op. cit., cap. I, pp. 23 ss.

[5] Accornero, op. cit., cap. I.

[6] Aron R., La Società Industriale, Milano, Comunità, 1965.

[7] Gallino L., “Capitalismo, Industria, Società industriale, Formazione economico-sociale e Struttura sociale”, in Gallino L., Dizionario di Sociologia, Torino, UTET, 1993.

[8] Deane P., La Prima Rivoluzione Industriale, Bologna, Il Mulino, 1971.

[9] Deane, op. cit., pp. 323 ss.

[10] Accornero, op. cit., cap. I, p. 24.

[11] Ibidem.

[12] Schumpeter J. A., “La Reazione Creativa nella Storia Economica”, in Pagani A. (a cura di), Il Nuovo Imprenditore, Milano, Franco Angeli, 1967.

[13] Bonazzi G., Storia del Pensiero Organizzativo, Milano, Franco Angeli, 1995, p. 31.

[14] Bonazzi, op. cit., p. 33.

[15] La Rosa M., Il Lavoro nella Sociologia, Roma, NIS, 1993, cap. III, p. 65.

[16] Ibidem.

[17] Montgomery D., Rapporti di classe nell’America del primo ‘900, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980.

[18] Taylor F. W., L’Organizzazione Scientifica del Lavoro, Milano, ETAS/KOMPASS, 1967.

[19] Bonazzi, op. cit., p.30.

[20] Accornero, op. cit., cap. III.

[21] Ford H., Autobiografia, Milano, Rizzoli, 1982, p. 87.

[22] Accornero, op. cit., cap. III.

[23] Accornero, op. cit., cap. III, p. 112.

[24] Ibidem.

[25] Morgan G., Images. Le metafore dell’organizzazione, Milano, Franco Angeli, 1995, cap. II, pp. 41 ss.

[26] Morgan, op. cit., cap. II, p. 43.

[27] Ambrosini M., “La Ricerca del Consenso dei Lavoratori”, in Il Progetto, n. 60, Nov.-Dic., 1990, p. 77.

[28] Bonazzi, op. cit., cap. II .

[29] Accornero A., Il Mondo della Produzione, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 18.

[30] Piore M. J., Sabel C. F., Le due via dello Sviluppo Industriale. Produzione di massa e produzione flessibile, Torino, ISEDI, 1987, p. 89.

[31] Piore, Sabel, op. cit.

[32] Butera F., Il Castello e la Rete, Milano, Franco Angeli, 1992.

[33] Butera, op. cit., pp. 17 ss.

[34] Butera, op. cit.

[35] Failla A., Lavorare in un Mondo che cambia, Milano, ETAS Libri, 1994, p. 213.

[36] La Rosa M., Il Lavoro nella Sociologia, Roma, NIS, 1993, p. 195.

[37] Butera, op. cit., p. 96 ss.

[38] Butera, op. cit., p. 97.

[39] Butera, op. cit., p. 98.

[40] Butera, op. cit., p. 51.

[41] Ibidem.

[42] Ibidem.

[43] Regini M. (a cura di), La Sfida della Flessibilità, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 97.

[44] Regini, op. cit., parte I, cap. IV.

[45] Bonazzi, op. cit., cap. VII.

[46] Bonazzi, op. cit., p. 166.

[47] Bonazzi, op. cit., p. 168.

[48] Monden Y., Produzione Just in Time. Come si progetta e si realizza, Torino, Petrini, 1986.

[49] Ohno T., Lo Spirito Toyota, Torino, Einaudi, 1993, pp. 32 ss.

[50] Bonazzi, op. cit., cap. VII.

[51] Accornero, op. cit., p. 308.

[52] Bonazzi, op. cit., p. 175.

[53] Bonazzi, op. cit., cap. VII.

[54] Ohno, op. cit.

[55] La Rosa M., Il Lavoro nella Sociologia, Roma, NIS, 1993, p. 213.

[56] La Rosa, op. cit., cap. X.

[57] La Rosa, op. cit., cap. X.

[58] “Che cos’è un Sistema Qualità”, in Sito Internet: www.analysisbo.it/iso9000

[59] Olgiati V., “Globalizzazione”, in Impresa & Stato, n. 34. Sito Internet: http://impresa-stato.mi.camcom.it/im_34/olgiati.htm

[60] AA.VV., “Strategia: globalizzazione”, in sito Internet: www.liuc.it/dida/econ/program/intra/progetti/g14/STRATEGIA.html

[61] Ibidem.

[62] Ibidem.

[63] Ibidem.

[64] Ibidem.

[65] Ibidem.

[66] Ibidem.

[67] Paracone C., Uberto F., Le Nuove Frontiere della Produttività: la Flessibilità Totale, Roma, SIPI, 1988, cap. VII, p. 156.

[68] Paracone C., Uberto F., op. cit., cap. VII, pp. 156 ss.

[69] Paracone C., Uberto F., op. cit., ca. VII, p. 157.

[70]AA.VV., “Strategia: globalizzazione”, in sito Internet: www.liuc.it/dida/econ/program/intra/progetti/g14/STRATEGIA.html.

[71] Ibidem.

[72] Ibidem.

[73] Ibidem.

[74] Ibidem.

[75] Paracone C., Uberto F., op. cit., ca. VII, p. 161.

[76] www.st.com

[77] Ibidem.

[78] Ibidem.

[79] www.amd.com

[80] Ibidem.

[81] Ibidem.

[82] Mariotti S., “L’Internazionalizzazione Produttiva”, in Impresa & Stato, n. 41, Sito Internet: www.impresa-stato.mi.camcom.it/im_41/mariotti

 

[83] Brunetta R., La Multilocalizzazione Produttiva come Strategia d’Impresa, Milano, Franco Angeli, 1983, cap. II, pp. 55 ss.

[84] Mariotti, op. cit.

[85] Brunetta, op. cit., cap. II, p.54.

[86] Smith V. A., La Ricchezza delle Nazioni, Torino, UTET, 1950.

[87] Brunetta, op. cit., cap. III, pp. 113 ss.

[88] Brunetta, op. cit., cap. IV, pp. 205 ss.

[89] Brunetta, op. cit., cap. IV, p. 213.

[90] Ibidem.

[91] Mariotti, op. cit.

[92] Ibidem.