L’evoluzione
dei modelli produttivi nell’industria: la delocalizzazione dei processi di
produzione
Studio curato da Patrizio Di Nicola, Università di Roma “La
Sapienza”
Ha collaborato alla stesura Simona Rosati
Agosto 1999
Si ringrazia la
Dedem Automatica Srl di Ariccia per il supporto finanziario alla
presente ricerca.
Indice
Abstract................................................................................................................... 3
Introduzione............................................................................................................ 4
1. Lo scenario storico............................................................................................. 6
2. Le innovazioni
nelle modalità produttive: dall’industria di massa all’industria flessibile 12
Premessa..................................................................................................................................................... 12
2.1 “Il castello e la
rete”......................................................................................................................... 14
2.2 Il modello
giapponese....................................................................................................................... 15
2.3 La Total Quality................................................................................................................................. 16
3. La risposta delle
imprese alla globalizzazione................................................. 19
4. I case study....................................................................................................... 23
4.1 La “ST
Microelectronics”................................................................................................................ 23
4.2 La “Advanced Micro
Devices”........................................................................................................ 26
Conclusioni: i
vantaggi della delocalizzazione produttiva................................... 29
Bibliografia............................................................................................................ 32
Allegati.................................................................................................................. 34
Allegato 1: La
qualità. Uno sguardo alla normativa ISO9000
Allegato 2: Il caso
della “ST Microelectronics”
Allegato 3: Il caso
della “Advanced Micro Devices”
Il presente
studio nasce dall’interesse di approfondire sistematicamente la conoscenza dei
cambiamenti intervenuti nei modelli produttivi dell’impresa dalla rivoluzione
industriale fini ai nostri giorni. In particolare, attraverso un’analisi della
letteratura esistente e lo studio di due casi aziendali, si è approfondito lo
studio del processo di delocalizzazione di alcune fasi della lavorazione oltre
i tradizionali confini fisici delle strutture aziendali centrali, sia nelle
imprese finalizzate alla produzione di beni materiali sia in quelle destinate
alla realizzazione di servizi.
La ricerca ha
confermato che la delocalizzazione produttiva ha assunto una importanza
cruciale nelle imprese contemporanee; ciò avviene in risposta a una crescente
necessità competitiva delle aziende, obbligate a reagire tempestivamente e in
modo flessibile a una domanda di mercato sempre più complessa, articolata ed
eterogenea. Non va però sottaciuto come la delocalizzazione produttiva sia
anche a volte una strada obbligata per raggiungere l’eccellenza nella
produzione di beni o nella fornitura di servizi. La tendenza cui si assiste,
pertanto, è verso il superamento di strutture organizzative di grandi
dimensioni, statiche, rigidamente concentrate in un unico ambiente
organizzativo e territoriale e, all’opposto, le aziende sperimentano modelli
organizzativi di dimensioni inferiori, che si decentrano in un insieme diffuso
di “nodi” operativi. Essi superando i confini fisici dell’unità centrale si
articolano sul territorio, spesso anche a livello “globale”, ricercando
l’integrazione in fattori quali una mission
corporativa, una forte cultura e comunicazione aziendale, un elevato livello di
omogeneità e ciclicità delle fasi organizzative, in cui l’obiettivo centrale
diviene il miglioramento continuo dei livelli qualitativi dei cicli produttivi,
delle risorse impiegate, delle condizioni di lavoro nonché della qualità del
prodotto/servizio finale.
Scopo del presente studio è condurre un’analisi teorica, supportata
dallo studio di alcuni casi, sui
cambiamenti intervenuti, a partire dalla rivoluzione industriale, nei processi di produzione che sono adottati
nel mondo dell’industria e dei servizi. In particolare si argomenteranno i
passaggi logici che hanno contribuito a
trasformare il modo di produzione tradizionale, che veniva visto come
indispensabilmente accentrato e monolitico, in un altro comunemente detto neo
industriale, tipico di quella che in
vario modo gli studiosi definiscono società
programmata, dell’informazione o,
più semplicemente postindustriale.
Tale excursus permetterà di comprendere
i fattori che sono alla base dell’attuale diffusione di modalità produttive che
prescindono dalla valenza territoriale dell’impresa e, al contrario, si
articolano integrandosi in una “rete” di unità produttive, con processi
unitari, interconnessi, ma al contempo distanti geograficamente e spesso anche
culturalmente. Ne discende che le organizzazioni divengono oggi strutture
sempre più eterogenee e flessibili il cui compito è governare sistemi di
produzione complessi che cambiano e si sovrappongono continuamente e che quasi
mai coincidono con i “confini giuridici o organizzativi segnati dalla proprietà
e dal comando gerarchico di chi detiene il potere economico o burocratico”[1].
Questa innovazione, lungi dall’essere una mera modifica produttiva,
incide profondamente sul modo di essere delle società moderne: operando
attraverso l’impresa, infatti, il modo di produrre impronta di sé il mondo in
cui viviamo, il quale vive dei prodotti ed è intriso dei bisogni che provengono
dal mondo della produzione.
In tale prospettiva è dunque lecito chiedersi come il passaggio dalla
produzione di massa alla produzione snella abbia contribuito a modificare il
modo di vivere, lavorare e fare business
delle organizzazioni[2].
A
tal fine il presente elaborato sarà articolato in cinque parti:
·
La prima parte è dedicata all’analisi delle fasi storiche
fondamentali che hanno caratterizzato lo sviluppo industriale, in una
prospettiva di reciproca influenza tra le modalità di esplicazione e di
organizzazione industriale e il contesto socioeconomico in cui esse sono
inserite. In particolare ci soffermeremo sulle seguenti fasi storiche: fase
preindustriale e industriale, fase taylorfordista,
fase postfordista e fase
postindustriale o dell’industria diffusa.
·
La seconda parte approfondirà gli effetti dell’evoluzione
industriale sui processi produttivi. A questo scopo saranno presi in
considerazione alcuni modelli teorici interpretativi fondamentali, quali la
metafora de “il castello e la rete” di Federico Butera, la teoria di Michael J.
Piore e Charles F. Sabel sulla transizione dalla produzione di massa alla
produzione flessibile, il cosiddetto modello giapponese o lean production e, infine, i principi della Total Quality.
·
La terza parte analizzerà le modalità organizzative attuate
dalle imprese per far fronte in modo efficace e efficiente alle richieste della
globalizzazione. In tale prospettiva i principi di flessibilità,
specializzazione, decentramento, integrazione, divengono i principali termini
della riorganizzazione lavorativa e produttiva e danno luogo a nuovi paradigmi
che ridisegnano i flussi produttivi e lo stesso shape delle aziende.
·
La quarta parte è finalizzata alla ricostruzione di due
esperienze aziendali che hanno fondato l’intero processo di produzione sul
principio della diffusione territoriale delle diverse unità produttive. In
particolare si analizzerà il caso della ST
Microelectronics (italo-francese) e della Advanced Micro Devices (americana), aziende specializzate nella
produzione di quei circuiti microelettronici che troviamo nei PC che tutti
utilizziamo.
·
La parte conclusiva dello studio è dedicata alle
riflessioni sui vantaggi che un’impresa può ricevere dall’adozione di un
modello di produzione decentrato e articolato in unità produttive dislocate sul
territorio (nazionale e non) rispetto ad un tradizionale modello di
concentrazione produttiva.
La
società industriale nasce e si sviluppa nei cinquant’anni tra il 1780 e il
1830, quando in Inghilterra e in Scozia si avviò un profondo processo di
trasformazione nei mezzi e nei modi di lavorare e produrre chiamato appunto rivoluzione industriale. Si trattò di un
evento decisivo sotto ogni profilo: organizzativo, economico, sociale, politico
e culturale, che ha aperto l’epoca contemporanea.
Da
allora il nuovo simbolo dell’industria - fabbriche e officine - ha soppiantato
drasticamente il modello delle manifatture e degli opifici prima esistenti.
L’industria divenne, infatti, il simbolo di una nuova società, quella
industriale.
L’epoca
preindustriale era ricca sì di botteghe artigiane, corporazioni di arti e
mestieri e perfino manifatture dove si lavorava non soltanto con le mani ma
anche con l’ausilio di macchinari e apparecchiature rudimentali, ma mancavano
ancora le precondizioni per la nascita della società industriale[3].
L’insieme degli edifici, macchinari, materiali, persone, procedure e norme che
compongono l’industria, si costituì come realtà specifica solamente a partire
da un determinato momento storico e da determinate condizioni sociali[4]:
progresso tecnico, crescita demografica, sviluppo energetico.
La
novità essenziale dello sviluppo industriale risiede nel nuovo tipo di rapporto
sociale che l’industria stessa genera. Essa rappresenta un trapasso definitivo
nella storia del lavoro e dei lavoratori. La scoperta della formidabile
capacità produttiva generata dall’industria attraverso la combinazione di
capitale e lavoro è alla base della rivalutazione del lavoro nella società
moderna. Soppiantando i rapporti sociali di lavoro preesistenti ha consolidato
un rapporto di lavoro salariato: la forma dominante del nostro tempo. Inoltre,
separando il produttore dal prodotto ha travolto completamente il secolare
funzionamento della bottega artigiana, determinando una condizione in base alla
quale diviene conveniente investire capitali in macchinari costosi perché non
occorre più un mestiere ma basta la mera erogazione di sforzo muscolare a farli
funzionare.
Quella
unione tra capitale e lavoro che K. Marx chiama il “modo capitalistico di
produrre” è, dunque, il cuore del capitalismo industriale così come il “sistema
di fabbrica” diviene il cuore dell’industria moderna: la coppia capitale-lavoro
dà della società una rappresentazione ancorata all’economia come non si era mai
avuta[5].
Nelle
sue Diciotto lezioni sulla società
industriale R. Aron[6]
assume come parametro per l’industrializzazione della società l’affermarsi di
imprese industriali le quali: si separano dalla famiglia; concentrano gli
operai sul luogo di lavoro; introducono un’originale divisione del lavoro;
praticano un rigoroso e razionale calcolo economico al fine di consentire
l’accumulazione di capitale.
Secondo
la definizione di L. Gallino[7]
la società industriale presenta requisiti più quantitativi: la maggiore parte
delle forze lavoro sono occupate nel settore industriale; la maggior quota del
reddito nazionale è prodotta dall’industria; i processi di accumulazione
operano prevalentemente attraverso le aziende industriali.
P.
Deane[8],
infine, ritiene caratterizzanti questi mutamenti: l’applicazione diffusa e
sistematica della scienza moderna e della conoscenza empirica al processo di
produzione per il mercato; la specializzazione dell’attività economica rivolta
alla produzione per il mercato, nazionale o internazionale, e non
all’autoconsumo o al mercato locale; il trasferimento della popolazione dalle
zone rurali alle zone urbane; l’aumento delle dimensioni e la
spersonalizzazione dell’unità tipica di produzione, in modo che essa viene a
essere fondata sempre meno sulla famiglia o su gruppi di famiglie e sempre più
sulle società per azioni o sulle imprese pubbliche. E, inoltre, “lo spostamento
del lavoro dalle attività connesse con la produzione di beni primari, alla
produzione di beni manufatti e di servizi. Impiego intensivo e estensivo delle
risorse di capitale in sostituzione ed a completamento dell’elemento umano.
Nascita di nuove classi sociali ed occupazionali, create dalla proprietà oppure
dal rapporto con i mezzi di produzione diversi dalla terra, in particolare con
il capitale”[9]
Lo
sviluppo industriale si fonda, pertanto, su un insieme di condizioni essenziali
che sono state in grado di dimostrare non solo l’opportunità ma anche la
superiorità dei nuovi modelli di produrre e, di conseguenza, di sostenere lo
sviluppo stesso. Il nascente ceto degli industriali, infatti, aveva bisogno di
constatare che la dinamica del processo innescato con le prime fabbriche era
talmente sostenuta, da rendere conveniente cambiare i metodi di produzione
precedenti, sia manuali sia artigiani, e che quelli nuovi mostravano una
redditività talmente superiore da giustificare il costo del cambiamento. Un
costo che rispetto al passato richiedeva investimenti più rischiosi,
immobilizzi considerevoli di capitali. Diventare industriale era infatti
“tutt’altra cosa che assumersi il rischio di far lavorare una partita di
tessuti commissionata da mercanti imprenditori a piccoli produttori autonomi
della cosiddetta cottage industry”[10].
Significava impiegare capitali molto consistenti e accettare che,
materializzandosi in edifici, macchinari, impianti, attrezzature, scorte, quei
capitali non potessero tornare liquidi o quanto meno potessero venire
smobilizzati al prezzo di perdite colossali[11]. Dall’altro canto, nella visione di J.
A. Schumpeter[12],
l’imprenditore è colui che riesce a reagire in modo creativo e innovativo e non
adattivo ai mutamenti intervenuti nella situazione dell’economia o nell’assetto
del settore e che con intraprendenza accetta di assumersi il rischio delle
proprie azioni economiche.
Tuttavia
nella sua forma attuale, ossia nella forma di organismo complesso composto sia
da un’organizzazione tecnico-produttiva sia da un’istituzione economico-sociale
che riesce a mobilitare risorse, capitali, lavoro, mezzi, materiali e
informazioni per impiegarle nel modo più conveniente a realizzare il suo fine,
l’impresa si è affermata solamente verso la fine dell’800 e nel ‘900 essa è
diventata rapidamente dominante. Questo perché solo in quel determinato momento
si sono presentate le premesse storiche per lo sviluppo di un nuovo modo di
lavorare ma soprattutto di un nuovo modo di organizzare e gestire il lavoro.
Il
progresso raggiunto dal macchinismo industriale, l’ingrandimento dei complessi
industriali attraverso l’espansione produttiva e le fusioni tra imprese, che
culminerà negli anni ’20 con il cosiddetto fenomeno del gigantismo industriale[13],
la concentrazione di manodopera in grandi stabilimenti, la disponibilità di
forza lavoro di estrazione contadina fino a quel momento tagliata fuori dalla
produzione industriale, rappresentavano i punti di forza per un’evoluzione
nell’industria che doveva superare pratiche di produzione rimaste agli standard
tecnici e culturali di un’epoca precedente. Infatti, non solo non esistevano
metodi rigorosi e uniformi per impostare il lavoro ma erano carenti anche i
metodi amministrativi per calcolare i costi delle singole fasi produttive. Il
sistema con cui, fino ad allora, si otteneva la produzione in fabbrica era
conosciuto come drive system[14]
(sistema della spinta o dello spintone). Esso consisteva in un sistema di
controllo stretto, abuso, irriverenza e minacce, volto a ispirare nell’operaio
reverenza e paura del management, al fine di prenderne il sopravvento.
È
dunque a partire dai primi anni del ‘900 che si apre una nuova fase dell’evoluzione
industriale, detta taylorfordista, in
cui si superano definitivamente i tradizionali metodi di gestione e di
organizzazione produttiva. Furono, infatti, F. W. Taylor, presidente
dell’influente American Society of
Mechanical Engineers, prima e H. Ford, industriale e imprenditore, poi a
procedere con rigore e solido fondamento di esperienza alla costruzione di un
metodo innovativo per affrontare i problemi organizzativi delle grandi imprese
industriali. L’importanza della loro opera risiede, infatti, nell’aver
costituito la prima proposta sistematica e generalizzabile sull’organizzazione
del lavoro, in grado di investire tutti i lavoratori – dall’operaio al manager
- in un unico disegno “organico, funzionale e sistematizzante”[15].
Lo scopo era il raggiungimento di una fase “matura” dell’industria, fondata
sulla produzione di massa e in serie che consentisse l’attivazione di un
mercato su larga scala, in cui consumatori e produttori divenissero in qualche
modo l’uno la condizione per lo sviluppo e la crescita dell’altro[16].
Taylor
individuava lucidamente il punto debole dell'industria americana del primo
‘900: non le macchine, tecnicamente idonee al lavoro in serie, ma il lavoro e
la sua organizzazione. I capitalisti dell’epoca, infatti, conoscevano ben poco
i limiti produttivi del proprio stabilimento. La produzione era, di fatto,
affidata a pochi operai specializzati, i quali, contrattata la tariffa di
cottimo, spesso assumevano direttamente i propri aiutanti e stavano ben attenti
a che nessuno superasse la produzione stabilita all’interno del gruppo[17].
Cosa, questa, che avrebbe invariabilmente portato al “taglio del cottimo”.
Secondo la sua visione, dunque, le cause del malfunzionamento delle officine di
quel tempo erano[18]: il timore
che un aumento nella produzione di ogni operaio e macchina determinasse una
riduzione del numero di occupati; l’imperfezione dei sistemi di organizzazione
impiegati che inducono l’operaio a tenere bassa la produttività; l’inefficienza
dei metodi empirici adottati che rendono vano gran parte dello sforzo
produttivo della manodopera.
Il sistema propugnato da Taylor affrontava invece la produzione da una angolazione diversa, manageriale. La sapienza della mansione lavorativa andava sottratta ai lavoratori, tutte le conoscenze circa il lavoro andavano accentrate nella direzione d'officina. Era qui che si doveva stabilire la velocità ottimale delle macchine e degli uomini, la procedura migliore per compiere un lavoro, il flusso informativo e tutti gli altri particolari della produzione, anche i più minuti. La direzione diveniva pertanto il fulcro della fabbrica, intorno cui ruotava tutto, il cuore scientifico che avrebbe garantito ai capitalisti la massima produzione. Ma tali conoscenze andavano sottratte a chi ne sapeva di più, ossia gli operai. Al fine di ottenere la loro collaborazione Taylor studiò un sistema di cottimo (definito “differenziale”) ben diverso da quelli in vigore all’epoca. Basato su compensi e penalizzazioni “a gradini”, legati al raggiungimento di determinati obiettivi, il cottimo differenziale avrebbe permesso ai migliori (gli uomini di prim’ordine, come li definiva Taylor) di migliorare i loro guadagni. Per contro, avrebbe portato all’espulsione di coloro che non si piegavano alla razionalizzazione.
L’organizzazione
scientifica del lavoro (Scientific
Management) si fondava così su quattro principi essenziali: lo studio
scientifico dei migliori metodi di lavoro in rapporto alle caratteristiche dei
lavoratori e delle macchine; la selezione e l’addestramento scientifico della
manodopera; l’instaurazione di rapporti di stima e di cordiale collaborazione
tra direzione e manodopera; la distribuzione uniforme del lavoro e delle
responsabilità tra amministrazione e manodopera. Inoltre, alla base dello Scientific Management vi era un
principio metodologico fondamentale, definito one best way, secondo il quale esiste sempre e comunque un metodo
unico e migliore per risolvere problemi o compiere azioni di qualunque genere.
In
questo modo, dunque, si poteva costruire un metodo completamente diverso
rispetto al passato e più razionale per affrontare i problemi della produzione.
Esso infatti fondandosi su un’analisi approfondita di tutte le operazioni
produttive, portava a stabilire regole e norme che tendevano ad avere un valore
autonomo e determinava una nuova rilevanza rispetto al passato dei concetti di
specializzazione, suddivisione dei compiti, standardizzazione. Secondo questa
visione, a dettare il ritmo della produzione non doveva più essere la macchina
ma il metodo. Si dovevano disciplinare i tempi dell’esecuzione,
standardizzandone le modalità. Tutto ciò era possibile soprattutto considerando
che all’epoca il macchinismo industriale aveva raggiunto importanti traguardi[19]:
perfezionamento dei metodi di misurazione; produzione sistematica di pezzi
intercambiabili, progressiva specializzazione delle macchine utensili.
Tuttavia,
sul piano pratico, nessun industriale del tempo fu disposto, applicando
completamente la metodologia tayloristica
a sconvolgere i rapporti di lavoro interni e a cambiare mentalità verso la
produzione e verso i lavoratori. Essi si limitarono per lo più ad introdurre
qualche sistema di cottimo con curve incentivanti più spinte per invogliare i
lavoratori[20], di cui la
teoria di Taylor era piena. Questo perché l’idea di potere addestrare e
allettare migliaia di operai, uno per uno, ad imparare un modo di lavorare
estraneo e meccanico, sul quale si sarebbe basato il compenso, era assai arduo.
Non tanto perché richiedeva di far passare il taylorismo con un operaio alla volta, quanto perché presupponeva la
perdita radicale dell’autonomia nel lavoro, per marginale che fosse. Pertanto
se Taylor non riuscì a risolvere il problema di adattare all’industria moderna
grandi masse non qualificate, Ford invece partendo dal limite del taylorismo riuscì a far compiere quel
salto rivoluzionario alla produzione di serie e al controllo del lavoro.
Convinto che fosse finita l’era di considerare l’auto un bene di lusso, prodotto in pochi e costosissimi esemplari, Ford decise di lanciare sul mercato, nel 1908, una vettura robusta e sicura, con un prezzo “così basso che ogni lavoratore ben salariato si sarebbe trovato nella possibilità di averne una”[21]. Naturalmente il Model T fu un successo senza precedenti: in tre anni ne furono vendute oltre 36.000. Ciò portò con sé la necessità di riorganizzare la fabbrica. Il vecchio sistema, secondo cui la scocca della vettura era ferma e gli operai vi giravano intorno, montando i pezzi, creava nell’officina una confusione indescrivibile, con gruppi di operai che correvano di qua e di là alla ricerca del materiale giusto, dell’arnese adatto. Era, pertanto, giunto il momento di portare il lavoro agli operai e non viceversa.
Il
punto di svolta lo diedero due principi basilari della concezione fordista: il primo, la possibilità di
realizzare un apparato di convogliamento detto catena di montaggio; il secondo,
il processo di standardizzazione del prodotto, ossia il principio di
fabbricazione di un unico modello, solido, affidabile e a buon mercato. La differenza
rispetto al taylorismo consisteva
quindi nel superamento dell’illusione di poter insegnare all’operaio l’unico
modo migliore di lavorare e nell’affermazione della possibilità di disporre le
cose in modo tale che egli possa soltanto lavorare al meglio[22].
Il perno, invece, “era l’accelerazione tecnologica realizzata con la drastica
semplificazione e standardizzazione del lavoro”[23].
Mediante semplici apparecchiature di convogliamento, “tantissimi
micro-movimenti individuali diventavano un solo tempo generale, indipendente
dal ritmo ottimo dei singoli, e prioritario rispetto a tutte le fasi”[24].
Questo era appunto il principio-base di quella che oggi è conosciuta come
catena di montaggio: gli obiettivi di produzione spingevano tutte le
lavorazioni verso quel traguardo.
Tuttavia
nel disegnare l’organizzazione esclusivamente come processo razionale e
tecnico, la concezione meccanicistica tendeva a sottovalutare gli aspetti umani
dell’organizzazione e a trascurare il fatto che i compiti con cui si
confrontano le organizzazioni spesso sono molto più complessi, incerti e
difficili
dei
compiti che possono essere espletati dalla macchine. Un approccio
all’organizzazione industriale di tipo meccanico e razionale, può essere utile
solamente quando si è in presenza di condizioni favorevoli come[25]:
un compito molto chiaro; un ambiente stabile; una produzione di serie;
“componenti umane” della macchina docili e rispettose dei compiti loro
assegnati; la precisione come elemento fondamentale del processo. Ma quando
manca una combinazione tale di condizioni un modello meccanicistico stenta a
decollare. In particolare, organizzazioni strutturare in modo meccanicistico
presentano notevoli difficoltà ad adattarsi ai mutamenti ambientali: “dal
momento che sono progettate per realizzare obiettivi predeterminati, tali
organizzazioni non sono orientate all’innovazione”[26].
Inoltre, questo approccio tende a limitare piuttosto che a favorire lo sviluppo
della capacità umane, modellando gli individui in modo da renderli adatti ai
requisiti propri dell’organizzazione meccanicistica piuttosto che a costruire
l'organizzazione attorno alle potenzialità e capacità degli stessi.
Il
grande limite del taylorfordismo fu,
di conseguenza, l’“estraneazione” del lavoro e dal lavoro. Per l'operaio
parcellizzato, a cui la fabbrica nega la possibilità di svolgere un lavoro,
anche ripetitivo, secondo il suo individuale ciclo vitale, la sicurezza
economica e la poca fatica divengono valori. Quando il lavoro diviene troppo
penoso rispetto al compenso che se ne ricava, il lavoratore (se le condizioni
del mercato del lavoro lo permettono) se ne va, alla ricerca di un altro
impiego più vantaggioso. L’astrazione del lavoro diviene così l’ostacolo
stesso, intrinseco, all’aumento indiscriminato della produzione. Inoltre, anche
l’idea taylorfordista di potere
spostare tutte le conoscenze dagli operai ai manager era soltanto una pia
illusione: il ciclo produttivo può adeguarsi e migliorare (in qualità, ma anche
in quantità) soltanto se escono dall’ombra “le conoscenze informali e i saperi
concreti dei lavoratori”[27].
Conoscenze che la catena di montaggio può comprimere, ma non eliminare
completamente, e che vengono sfruttate, sotterraneamente, dall’operaio quale
“ultima spiaggia” per alleviare la fatica o per guadagnare pochi istanti di
libertà dalla propria mansione.
Per
questi motivi, a partire dagli anni ’40, si svilupparono nuovi studi e teorie
sull’organizzazione produttiva, attente al superamento dei limiti e delle
difficoltà insite nel modello meccanicistico taylorfordista, che culmineranno nei primi anni ’70 con l’inizio di
una nuova fase dello sviluppo industriale, quella della flessibilità o
altrimenti detta post-industriale o dell’industria diffusa.
La
fase postfordista è caratterizzata
dalla presenza di due approcci teorici fondamentali, dettati dall’esigenza di
rivalutare il ruolo della componente umana all’interno della struttura
produttiva con importanti ripercussioni anche sui contenuti del lavoro e sui
modelli produttivi: quello della “Scuola della Relazioni Umane”, sviluppatosi
tra gli anni ’40 e ’50, e quello della “Scuola Motivazionalista”, tra gli anni
’60 e ’70.
Il
principale esponente della prima Scuola è certamente E. Mayo, il quale
attraverso una serie di ricerche empiriche condotte presso lo stabilimento di
Hawthorne della Western Electric di Chicago, ha messo in evidenza l’importanza
del “fattore umano” sul luogo di lavoro, inteso come l’insieme dei fattori
psicologici latenti che condizionano il comportamento manifesto dei soggetti[28].
Secondo lo studioso, l’azienda deve comprendere che prestando maggiore
attenzione alle esigenze psicologiche dei soggetti e in particolare all’armonia
e all’ambiente microsociale in cui si lavora, è possibile aumentare anche il
rendimento lavorativo. Mayo, pertanto, non contesta l’assunto tayloristico sulla necessità di adottare
un metodo scientifico e nemmeno che il comportamento razionale dell’uomo sia
definito dalla sua adesione alle esigenze produttive dell’impresa.
Semplicemente obietta allo Scientific
Management di non riconoscere che quella adesione è connessa a un
retroterra psicologico, regolato da pulsioni non conformi a criteri di
razionalità. Mayo insiste quindi sulla necessità di soddisfare il fattore umano
mediante la creazione di un ambiente lavorativo socialmente gradevole e
armonico. In particolare, egli sostiene che i bisogni sociali sul posto di
lavoro possono essere soddisfatti nei gruppi di lavoro, mettendo in pratica
tutta una serie di attività non pianificate che appartengono alla sfera
dell’informale.
La
Scuola Motivazionalista (tra i principali rappresentanti: A. Maslow, C.
Argyris, F. Herzberg, R. Likert), dall’altro canto, procede in modo del tutto
contrario rispetto alla teoria organizzativa classica, secondo cui le esigenze
delle organizzazioni vanno considerate come la variabile indipendente a cui
occorre subordinare il comportamento umano. Essa diversamente si fonda sul
principio che al primo posto vanno messi i bisogni dell’uomo, in particolare
quello di autorealizzazione, e le organizzazioni devono essere giudicate in
base al grado con cui riescono ad adattarsi a questa esigenza. Questo perché i
fini dell’organizzazione possono essere tanto più proficuamente perseguiti
quanto più sono soddisfatte le esigenze di crescita personale degli individui.
Queste esigenze, infatti, non conducono a una fuga dal lavoro e dalle
responsabilità ma, al contrario, si realizzano nel lavoro che dovrà essere il
più possibile vario, stimolante, ricco di significati. Pertanto alcune
condizioni dell’ambiente lavorativo - compiti “arricchiti”, stili di leadership, organizzazione del lavoro,
relazioni sociali - divengono fattori determinati per la soddisfazione e la
motivazione individuale e suscettibili, allo stesso tempo, di incoraggiare gli
individui sia ad adeguarsi al disegno organizzativo sia a sviluppare la propria
creatività.
Le
esigenze di valorizzazione della risorsa umana all’interno del sistema
industriale, alla base degli studi condotti nei trent’anni successivi all’opera
di Taylor e Ford, combinati con l’insieme dei cambiamenti intervenuti a livello
economico e sociale sul finire degli anni 60, hanno, dunque, segnato
definitivamente il tracollo dei sistemi taylofordisti
e l’inizio di una nuova tappa dell’industrializzazione, quella dell’industria
flessibile. Essa, infatti, porta con sé nuove variabili organizzative e
gestionali, strutture e modelli produttivi innovativi, attraverso i quali si
ridisegna completamente l’intero scenario industriale. Scopo del capitolo
successivo è pertanto di analizzare l’insieme di queste mutazioni intervenute
nel processo di industrializzazione, con particolare attenzione ai cambiamenti
prodotti nelle modalità e nella localizzazione dei processi produttivi.
“Centralità
e visibilità dell’industria stanno oggi diminuendo. La nuova architettura
industriale progetta edifici che non sembrano più fabbriche, mentre gli
stabilimenti di ieri stanno diventando pezzi di archeologia, o addirittura,
musei, come a New Lanark in Scozia ed a Lowell nel Massachusetts, dove antiche
sedi della grande industria tessile testimoniano un passato quasi remoto”[29].
Quali sono le cause di questo profondo cambiamento nello scenario industriale?
La
produzione di massa, basata su prodotti costruiti in larga serie e
standardizzati, così come era stata immaginata da A. Smith sul finire del ‘700
e realizzata concretamente da Ford nel primo ventennio del ‘900, offriva alle
imprese enormi incrementi di produttività, che aumentavano di pari passo con la
crescita delle industrie stesse. “Il progresso lungo questa traiettoria
tecnologica portava profitti e stipendi più alti, prezzi inferiori per i
consumatori e una vasta gamma di nuovi prodotti”[30].
La produzione in serie imponeva grandi investimenti per attrezzature
specializzate e manodopera minimamente qualificata. Queste risorse, infatti,
erano adeguate per una produzione standardizzata spesso di un solo modello.
La
produzione in serie aveva però un limite: era vantaggiosa soltanto in quei
mercati abbastanza grandi da riuscire ad assorbire un’enorme produzione di un
singolo prodotto e così stabili da tenere continuamente impiegate le risorse
dedicate alla produzione[31].
Di conseguenza, se per i primi vent’anni dopo la seconda guerra mondiale queste
strutture economiche erano riuscite a produrre prosperità e stabilità
economica, sostenute da un’economia caratterizzata da un’inflazione moderata,
da un basso livello di disoccupazione, da un’ampia distribuzione dei risultati
dell’espansione economica, a partire dalla fine degli anni ’60 il modello fordista entra in una crisi che i
consolidati modelli di impresa non erano più in grado di gestire. Erano
necessari, dunque, nuovi modelli di gestione e organizzazione produttiva.
Contrariamente
a quanto si possa pensare, la tecnologia è solo uno dei fattori che ha
contribuito alla destrutturazione dei tradizionali sistemi organizzativi e
professionali. Entrano invece in gioco, nella ricerca di configurazioni
aziendali e produttive più adeguate a gestire la crisi, altri fattori quali:
l’economia della flessibilità, la terziarizzazione, il cambiamento della
struttura sociale[32].
L’emergere
di una domanda di mercato più ampia e articolata (nuovi prodotti e soprattutto
prestazioni di servizio, quantità variabili, tempestività) ha, infatti,
spostato l’attenzione delle imprese dalla “scala” alla “flessibilità”[33].
L’impresa ha tentato di superare la rigidità delle grandi dimensioni e delle
economie di scala per trovare soluzioni organizzative più snelle internamente e
al contempo aperte verso l’esterno. La gestione delle aziende non è più
centrata sulla produzione bensì sul mercato, sulla variabilità della domanda e
sulla conseguente varietà del prodotto[34].
Si è assistito pertanto “a un declino delle strutture gerarchiche e
all’affermarsi di strutture reticolari e policentriche”[35]
più adeguate a operare su mercati complessi e segmentati. Tutto ciò ha
aumentato anche le funzioni di servizio rispetto alle funzioni di produzione:
l’asse delle imprese si è spostata dalla realizzazione di beni materiali
all’erogazione di servizi. Conseguentemente a questo processo è emersa
l’esigenza di valorizzare funzioni produttive immateriali (ricerca e sviluppo,
marketing, logistica, qualità, etc.) e di
sviluppare
le funzioni finalizzate all’integrazione dell’intero sistema aziendale
(pianificazione, innovazione, coordinamento e controllo, etc.).
Lo
sviluppo tecnologico ha facilitato un simile processo di innovazione e
ristrutturazione aziendale. Le moderne tecnologie, infatti, sono intervenute
direttamente sulla struttura operativa e funzionale dell’azienda. Sul piano
produttivo, esse hanno reso possibile l’automazione di numerosi processi
lavorativi, sia industriali sia d’ufficio, favorendo la riduzione di una serie
di ruoli esecutivi e ripetitivi a vantaggio di attività a elevato contenuto
informativo. Sul piano strategico, l’innovazione tecnologica ha permesso di
gestire in modo più flessibile il processo produttivo, intervenendo sulla
possibilità di decentrare funzioni, attività e processi, e permettendo, allo
stesso tempo, l’integrazione tra il sistema aziendale interno, le strutture
delocalizzate, i suoi referenti e l’ambiente esterno.
Di
qui nascono, pertanto, nuovi modi di produrre , nuove forme di organizzazione
del lavoro che iniziano a ridisegnare dalle fondamenta la logica organizzativa
e a “realizzare quel superamento del taylorismo
fino a questo momento solo formale e in gran parte illusorio”[36].
A tutto ciò deve aggiungersi il complesso movimento della qualità, il quale pur
venendo spesso associato ed identificato con il modello giapponese ha, in
realtà, una valenza autonoma e significativamente incidente sui processi
produttivi.
In
linea con quanto detto, nel corso di questo capitolo analizzeremo le profonde
trasformazioni che sin dagli anni ’70 stanno sconvolgendo il tradizionale
assetto dei modi di produzione, soffermandoci in particolare su tre fenomeni di
profonda rilevanza: la nascita e lo sviluppo dell’impresa-rete, l’emergere del
modello industriale giapponese e il diffondersi dei principi della qualità
totale.
Nel
1984 F. Butera sostenne che in gran parte delle organizzazioni produttive
dell’industria e dei servizi era in corso un passaggio da un “modello meccanico
o del castello” di organizzazione a un nuovo modello organizzativo “organico o
della rete”, che si fondava su nuovi principi e nuove variabili organizzative e
produttive[37].
“Il
modello meccanico è quello in cui funzioni, compiti, strutture organizzative,
mansioni, procedure, processi sono massimamente specificati e razionalmente
interconnessi attraverso un piano preordinato, allo scopo di assicurare la
massima efficienza globale e la massima prevedibilità e governabilità delle
singole parti”[38]. Il modello
organico, invece, funzionando come un organismo ad alto livello di complessità,
è quello in cui le singole parti che lo compongono “sono sistemi aperti che
svolgono sì funzioni specializzate ma funzionano in base ad ambiti di autonomia
e non per delega, sono collegate in una rete di scambi informativi ed economici
e interagiscono fra loro sulla base di regole del gioco influenzate anche da
loro stesse: esse si modificano sia per processi di adattamento all’ambiente
esterno sia per input interni”[39].
In
questo secondo modello di organizzazione rientra, pertanto, il cosiddetto
modello dell’impresa-rete, il quale si riferisce a una molteplicità di
soluzioni economiche e organizzative. Una prima classe di tipologie riguarda
aziende in cui è intenso il processo di “decentramento di attività da
un’impresa centrale verso imprese subfornitrici: il decentramento produttivo di
attività manifatturiere e il decentramento delle attività dei servizi”[40].
In molti paesi e in particolare negli Stati Uniti questo processo di
decentramento avviene fra imprese industriali e imprese subfornitrici collocate
all’estero, alle quali viene demandata la produzione di parti del prodotto o
anche di prodotti finiti. Una seconda classe di situazioni è composta da quelle
realtà chiamate filiere o costellazioni
di imprese[41], in cui
si costituiscono sistemi di imprese collegate fra loro in un ciclo di
produzione, dove non esistono collegamenti societari o organizzativi ma potenti
sistemi di cooperazione operativa (in Italia è il caso dei mobili in Brianza o delle
calzature a Napoli). Di impresa-rete si parla anche a proposito di grandi
imprese che si fanno piccole, ossia imprese che hanno un’unica struttura
proprietaria e organizzativa ma che si articolano al loro interno in strutture
(divisioni, business units, profit centers, gruppi di progetto,
ruoli paraprofessionali centrati su risultati, etc.) che divengono “quasi
imprese”, nel senso che attraversano con estrema flessibilità i confini tra
mercato e gerarchia[42].
Pur
nella diversità della loro manifestazione in tutte queste realtà emergono
alcuni elementi comuni: in tutti i casi si tratta di imprese ibride, in parte
costituite da strutture organizzative in parte da mercati; in esse non vi è
coincidenza fra confini giuridico-organizzativi del soggetto impresa e i
confini dell’azione gestionale e tecnica dello stesso soggetto; il vero
contenitore e regolatore dei processi economici ed organizzativi è costituito
dalla relazione fra imprese e non dalla struttura delle singole imprese; il
loro scopo centrale è il perseguimento della flessibilità, dell’innovazione e
della tempestività di risposta a un mercato altamente dinamico e turbolento.
In
ogni caso dunque quando si parla di impresa-rete si fa riferimento a un sistema
di “nodi”, ossia a un insieme di parti costitutive di una rete organizzativa.
Si tratta, infatti, di entità piccole o grandi orientate ai risultati,
relativamente autoregolate e capaci di cooperare con gli altri nodi in un
processo di retroazione indispensabile per interpretare gli eventi esterni. I
nodi possono essere interni o esterni ai confini giuridico-amministrativi di
un’impresa, nel senso che possono essere sia unità giuridicamente autonome sia
unità interne all’impresa stessa. Ogni nodo è dunque una parte costitutiva e
attiva dell’impresa. Per esemplificare, i nodi di una rete possono essere: una holding, un board of directors, un’impresa autonoma, un ente pubblico, un
consorzio, un’associazione di categoria, una business units, una direzione funzionale, un ufficio, un reparto,
un negozio, un gruppo di lavoro, un ruolo organizzativo, una persona, etc. Quel che è importante
sottolineare è che tutti i nodi sono strutturalmente parte di uno stesso
processo produttivo inscindibile.
Nell’ambito
di questo fenomeno rientra, infine, il concetto di esternalizzazione, ossia il processo di “sostituzione crescente di
relazioni di complementarità strategica e operativa esterne con altre imprese
(nelle reti) ai circuiti interni della singola impresa”[43].
In questo contesto la capacità produttiva di un’impresa non identifica più il
campo in cui può operare, dal momento che essa attraverso il collegamento a
rete con altre imprese può operare con efficacia acquistando i loro servizi
produttivi o collaborando con alcune di esse alla messa a punto di un’innovazione
di interesse congiunto. In questo modo tutte le variabili strategiche e
organizzative dell’impresa possono divenire più mobili e flessibili rispetto ai
progetti innovativi da intraprendere e l’impresa stessa, allo stesso tempo, può
decomporsi e ricomporsi con estrema flessibilità e rapidità incrementando
profondamente le sue capacità di sviluppo e innovazione[44].
Il
dibattito teorico di sociologi ed economisti d’impresa ha ormai da anni
riconosciuto che il modello giapponese rappresenta la più completa espressione
del processo produttivo postfordista,
inteso come produzione flessibile e di qualità, a cui si perviene non tanto
grazie all’innovazione tecnologica quanto grazie all’innovazione organizzativa[45].
Prima
di procedere all’analisi delle caratteristiche del modello giapponese e delle
sue potenzialità innovative è opportuno dedicare qualche riga alle circostanze
storiche in cui il modello stesso ebbe origine. Sul finire degli anni ’40 la
Toyota, piccola e ancora sconosciuta casa automobilistica giapponese, fu
colpita da gravi problemi di sopravvivenza: una quota di mercato minima,
scarsità di capitali, macchinari superati, spazi fisici ristretti. “Secondo i
criteri fordisti della produzione di
massa fabbricare macchine in quelle condizioni non poteva che essere
fallimentare”[46]. Il
direttore dello stabilimento, T. Ohno, decise, pertanto, di abbassare il punto
di profitto dall’economia di scala a un’economia della flessibilità fondata su
produzioni di breve serie. Ciò era possibile solamente cambiando frequentemente
gli allestimenti dei macchinari in modo da riuscire a produrre lotti brevi
inseguendo anche le più piccole opportunità di mercato. Il frequente cambio di
produzione eliminava il bisogno di accumulare grandi riserve di materiale ma,
allo stesso tempo, richiedeva un sistema di trasporti talmente perfetto da
garantire consegne limitate di materiale giusto in tempo per essere lavorato.
Questo sistema presupponeva due vantaggi decisivi rispetto al sistema di
produzione di massa: da un lato la produzione limitata e diversificata
permetteva di rispondere tempestivamente alle variazioni di mercato e alle
richieste personalizzate dei clienti; dall’altro permetteva un controllo della
qualità del prodotto di gran lunga superiore a quello della produzione di
serie.
In
questo modo tra gli anni ’50 e ’70 la Toyota ottenne successi così evidenti da
riuscire a diventare una delle case automobilistiche più importanti e
innovative del modo. E negli anni ’80 un gruppo di ricerca del MIT concettualizzò
il modello di produzione giapponese come “produzione snella”[47].
Alla
base del sistema di produzione snella vi è il principio centrale del just in time, ossia “un sistema
produttivo che garantisce la continua e perfetta simmetria tra l’offerta dei
beni prodotti e la domanda che proviene dal mercato”[48].
Ma per funzionare in modo ottimale il JIT richiede quattro requisiti
fondamentali: l’eliminazione delle risorse ridondanti (spreco); il
coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni relative alla produzione; la
partecipazione dei fornitori; la ricerca della Total Quality.
Nel
fordismo le imprese si preoccupano di
avere scorte in abbondanza in modo da far continuare il ciclo produttivo anche
in momenti di perturbazione o di anomalia. Ciò presuppone che quanto più alta è
la probabilità di crisi tanto più elevati devono essere i livelli delle risorse
di riserva. In questo contesto i costi delle ridondanze sono giustificati con
la garanzia di una produzione regolare e costante, in conformità con le cadenze
temporali prestabilite. Il modello giapponese invece opta per un “officina
minima” come dice Ohno[49].
L’eliminazione delle risorse ridondanti non solo contribuisce all’economicità
del processo produttivo ma sostiene un principio fondamentale della “filosofia
dell’essenzialità” secondo cui qualsiasi elemento superfluo rappresenta uno
spreco (scarti, prodotti scadenti, tempi morti di attesa, trasporti e
manutenzioni inutili, persone addette a compiti burocratici o di controllo). La
necessità di eliminare drasticamente gli sprechi impone un continuo processo di
riduzione delle attività lavorative che non creano valore aggiunto, dei tempi
morti e delle scorte, al fine di attivare un processo di miglioramento
continuo. Un altro passo verso la ricerca dell’essenzialità è rappresentato
dalla tecnologia frugale, ossia impianti il più possibile semplici e
conoscibili dal personale che li utilizza, che di conseguenza meglio di nessun
altro è in grado di proporre miglioramenti e suggerimenti per l’ottimizzazione
del processo produttivo.
Inoltre,
mentre nel fordismo vige una rigida
divisione del lavoro, con confini precisi tra le diverse mansioni, secondo cui
viene scoraggiata ogni forma di apprendimento di competenze e responsabilità
formalmente non previste, nel modello giapponese, invece, i compiti hanno
confini poco definiti e il personale è incoraggiato a partecipare alle
decisioni che riguardano la produzione. In questo modo ogni operaio ha il
diritto/dovere di interrompere il flusso produttivo se nota delle anomalie o dei
difetti (processo di autonomazione)[50].
Il coinvolgimento delle maestranze si manifesta anche nella polivalenza delle
capacità professionali che consente l’interscambio di posizioni all’interno dei
gruppi di lavoro; nella flessibilità delle squadre che adattano la loro
consistenza numerica e la strutturazione interna alle variazioni dei compiti e
del flusso produttivo; nell’impegno al miglioramento continuo, con
suggerimenti, discussioni di gruppo, sperimentazioni di nuove soluzioni. E
inoltre, con una drastica riduzione delle “distanze fra chi pensa e chi esegue”
e con il principio del life-time
employement (impiego a vita), che garantisce la continuità della sapienza
del ciclo e dell’apprendimento delle innovazioni[51].
Le
imprese fordiste si fondano su produzioni
altamente verticalizzate, ossia costruiscono e assemblano la maggior parte del
prodotto all’interno dei propri stabilimenti. Per il resto dei componenti si
rivolgono a fornitori esterni scelti in base a una concorrenza sui costi. Le
imprese nel modello giapponese, al contrario, scelgono i fornitori
selezionandoli accuratamente in base alle capacità di collaborare in programmi
di lungo termine (progettazione, miglioramento, innovazione). La fiducia e la
reciproca trasparenza sono fattori fondamentali di questi rapporti di lavoro.
Il processo produttivo, in tal modo, può allargarsi a diverse unità produttive,
anche esterne alla fabbrica o all’ufficio
Infine,
nel modello giapponese il principio di qualità del prodotto assume una
rilevanza centrale tanto che tutto il “processo produttivo è organizzato in
modo da progredire costantemente verso l’obiettivo ideale dello zero-difetti”[52].
La ricerca della qualità totale deve essere presente lungo tutto il ciclo
lavorativo: ideazione del prodotto, scelta del materiale, costruzione, consegna[53].
Ma qualità totale non significa esclusivamente realizzare un prodotto privo di
difetti per il consumatore finale,
significa anche attenzione per il processo produttivo, ossia cercare di
lavorare al meglio, senza sprechi e costi economici aggiuntivi. Secondo
l’esperienza di Ohno[54]
l’obiettivo zero difetti è tanto più facile da perseguire quanto più corto è il
lotto messo in produzione. In questo modo la qualità si connette direttamente
alla flessibilità produttiva.
Il
concetto di qualità totale ha un valore pluridimensionale: per questo motivo si
è ritenuto opportuno non assimilarlo completamente all’analisi sul modello
giapponese, come sovente succede, né identificarlo esclusivamente con la
semplice certificazione in molti campi ora imposta da regolamentazioni
internazionali (si rimanda all’allegato 1 per un breve excursus nella normativa ISO 9000).
Fino
a metà degli anni ’80, nelle riviste di cultura manageriale non era stato
pubblicato mai uno scritto su questa tematica, mentre dal 1987 ad oggi oltre il
50% di queste riviste si fa uso dei concetti di qualità e qualità totale, anche
se risalgono al 1962 i primi circoli di qualità tipici del modello giapponese.
Tutto
ciò ci permette, dunque, di comprendere il carattere innovativo e attuale che
registra il tema della Qualità Totale, ma allo stesso tempo, come esso riveli
un’esigenza di profonda ridefinizione di strategie, organizzazione, struttura,
logiche di azione e immagine della realtà d’impresa.
Michele
La Rosa sostiene che il concetto di qualità totale deve essere considerato
nella sua globalità, ossia come principio trasversale rispetto ad altri fattori
organizzativi e aziendali in grado di orientare l’impresa verso l’obiettivo
unico dell’“eccellenza”[55].
In esso pertanto devono essere ricompresi il principio della qualità delle
prestazioni dell’azienda (costi, consegne, servizi, sicurezza, profitti), della
qualità del prodotto/servizio, della qualità di posizione rispetto
all’ambiente, della qualità dell’organizzazione, della qualità dell’immagine
sul mercato e nel modo esterno, e, infine, della qualità del lavoro[56].
Ne discende di conseguenza un rilevante fattore di discontinuità rispetto al
passato.
Nel
principio della qualità totale infatti ogni variabile del sistema organizzativo
deve essere considerata nella sua specificità e indipendenza rispetto alle
altre variabili. Questo perché altrimenti si avrebbe nient’altro che
un’estensione della concezione fordista dell’azienda,
secondo la quale ogni elemento costitutivo è subordinato e dipendente ad alcune variabili centrali: profitto,
tecnologia, etc. Il cambio di prospettiva risiede invece nella capacità di
assumere inizialmente ogni obiettivo nella sua specificità per poi pervenire a
una loro ri-combinazione in un obiettivo complessivo in grado di
contestualizzare contemporaneamente tutti gli obiettivi individuati[57].
Per
conseguire l’insieme di questi obiettivi, è indispensabile che il principio
della qualità trovi applicazione in tutte le fasi dell'attività produttiva
aziendale. L'attività di ogni azienda è infatti caratterizzata da una pluralità
di processi e di funzioni che interagiscono tra loro:
·
studio e ricerca;
·
progettazione e sviluppo del prodotto;
·
pianificazione e sviluppo dei processi;
·
acquisti;
·
produzione o fornitura dei servizi;
·
verifica;
·
imballaggio ed immagazzinamento;
·
vendita e distribuzione;
·
installazione e messa in esercizio;
·
assistenza tecnica e manutenzione;
·
attività post-vendita;
·
messa fuori uso o riciclaggio alla fine della vita utile.
Di
conseguenza un processo di qualità, per essere efficace, per poter cioè
garantire la qualità del prodotto sotto ogni aspetto, deve trovare applicazione
in ciascuno di questi momenti, per evidenziarne le caratteristiche, il
rendimento e le possibilità di sviluppo. Si può affermare pertanto che l’intero
Sistema di Qualità di un’impresa si
distingue in due ampi sottosistemi[58]:
il sistema qualità all'interno dell'impresa e il sistema qualità fra impresa e
clienti.
Nel
primo sistema il concetto della qualità si riferisce agli aspetti
organizzativi, produttivi e commerciali. In questa area rientrano pertanto i
seguenti obiettivi di qualità: 1) la qualità connessa alla definizione delle
esigenze relative al prodotto (si tratta della qualità del prodotto finito, che
deve rispondere alle esigenze del mercato e alle aspettative dei clienti); 2)
la qualità connessa alla progettazione del prodotto: consiste nella capacità di
tenere sotto controllo i processi per la progettazione di un prodotto conforme
alle normative specifiche, all'uso cui è destinato e alle esigenze concrete dei
clienti, nella identificazione e acquisizione di procedimenti, apparecchiature,
risorse e capacità necessarie per conseguire la qualità richiesta; 3) la
qualità connessa alla conformità del prodotto al progetto, ossia la rispondenza
del prodotto finale ai requisiti di progetto e il mantenimento costante di quei
requisiti, al fine di garantire al cliente sia il raggiungimento del risultato
qualitativo che ci si era prefissati sia il suo mantenimento nel corso della
realizzazione concreta del progetto; 4) la qualità connessa al supporto al
prodotto (si tratta della qualità legata alla fornitura di supporto del
prodotto dopo che questo è stato venduto, cioè la qualità dell'assistenza, che
deve essere garantita ai clienti o direttamente o fornendo loro le opportune
conoscenze tecniche).
Nel secondo sottosistema rientrano gli
aspetti più specificatamente connessi
ai rapporti contrattuali con i clienti, come la capacità del fornitore
di produrre con continuità, di far fronte alle richieste con tempestività e di
riuscire a mantenere un determinato livello qualitativo. E’ chiaro, ad esempio,
che a quelle imprese fornitrici il cui fatturato è rappresentato in grande
maggioranza da un cliente particolare, conviene assicurare a quel cliente
l'osservanza delle norme di qualità e il funzionamento di un efficace sistema
qualità. Esso pertanto rappresenta anche il perno centrale dei rapporti fra
imprese e clienti, ponendosi come requisito fondamentale per soddisfare
contemporaneamente: l’interesse delle imprese a mantenere competitività sul
mercato senza sprechi o costi eccessivi; le aspettative dei clienti ad un
prodotto di qualità, sempre più rispondente alle loro esigenze.
Da
un lato infatti i clienti chiedono:
·
qualità del prodotto;
·
costi di mercato;
·
idoneità all'uso;
·
riduzione dei costi di manutenzione e di riparazione;
·
sicurezza ed igiene del lavoro;
·
protezione dell'ambiente.
Dall'altro
lato, le imprese, per soddisfare queste richieste devono garantire:
·
il raggiungimento ed il mantenimento di un livello di
qualità ottimale;
·
la rispondenza del prodotto ad esigenze, scopi o impieghi
ben definiti;
·
la soddisfazione delle aspettative del cliente;
·
la conformità alle norme specificamente applicabili;
·
il rispetto dell'ambiente;
·
bassi costi di vendita e di manutenzione dei prodotti.
Risulta
chiaro, pertanto, che la capacità per le imprese di soddisfare la domanda dei
clienti non può che volgere a loro vantaggio sotto tutti gli aspetti: maggiore
competitività, incremento di redditività e di quota di mercato, minore rischio
di prodotti carenti o insoddisfacenti che possano compromettere la loro
immagine sul mercato, minore rischio di sprechi dovuti a ripetizioni di
processi, perdite di produzione, reclami o responsabilità legali. Il
soddisfacimento di questi interessi contrapposti può essere dunque assicurato
dalla costituzione di un Sistema Qualità all'interno delle imprese, cioè di un
complesso di organizzazione, responsabilità, procedure, personale, risorse e
mezzi per il perseguimento degli obiettivi di qualità.
Il
passaggio dalla società industriale alla società postindustriale porta con sé
anche una nuova immagine del mercato, la quale è a sua volta sia causa che
conseguenza di questi stessi mutamenti.
Sebbene
il termine globalizzazione abbracci
un fenomeno di ampia portata che coinvolge l’intera società in tutte le sue
dimensioni (storica, sociale, culturale, politica, economica), in questa sede
faremo riferimento esclusivamente al concetto connesso al sistema economico o
delle imprese. Quando in tale ambito si parla di globalizzazione il riferimento
immediato è evidentemente il mercato delle merci e dei servizi, o meglio: alla
pluralità delle forme istituzionali che definiscono tali mercati nel mondo.
Vittorio
Olgiati[59]
sostiene che uno dei principali criteri analitici per definire i mercati in un
contesto di globalizzazione è rappresentato dal codice binario “aperto/chiuso”,
riferito ai mercati stessi in relazione alle attuali potenzialità
dell’innovazione tecnologica. In questi termini la novità e l'importanza del
principio consiste nella possibilità tecnica dei mercati di superare
contemporaneamente una pluralità di “chiusure” o “confini” sinora pressoché
invalicabili. Dall’altro canto, altri studiosi sostengono che siano cinque megatrends a determinare il superamento
di una logica locale dei mercati e la diffusione di una prospettiva “globale”[60].
Essi riguardano:
·
La
globalizzazione della concorrenza. “Nel mondo ci sono circa 800
milioni di persone che consumano pressoché nello stesso modo: sono gli abitanti
di Europa, Giappone e America più i benestanti di altri paesi. Conoscono gli
stessi marchi, vivono gli stessi eventi in TV o attraverso la stampa e vogliono
essere serviti con la stessa qualità e tempestività. Ogni azienda ha iniziato
la propria esistenza servendo un mercato domestico e deve fare un salto
dimensionale di 4-15 volte per continuare a esistere”[61].
La globalizzazione della concorrenza è iniziata nei settori produttivi che
richiedevano altissime specializzazioni, elevati capitali per R&S o per
investimenti produttivi, in cui produttori finali globalizzati richiedevano
fornitori o componentisti ugualmente globalizzati, ma oggi si estende anche ai
settori delle commodities, ai settori
in cui il know how gestionale
rappresenta un particolare vantaggio competitivo e a quasi tutti i prodotti di
marca. “Le notevoli necessità di capitali per la R&S, l’opportunità di
penetrare quei mercati in cui si può sperare in tassi di crescita superiori a
quelli dei paesi sviluppati e le occasioni di acquisizione a seguito di
privatizzazioni o ristrutturazioni sono altri elementi che spingono sulla
strada della globalizzazione”[62].
·
Lo
sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. L’unità
di spazio, tempo e azione, sembra essere possibile oggi con lo sviluppo
imponente delle telecomunicazioni e dell’informatica. In tempo reale e a
migliaia di chilometri di distanza, è possibile progettare, effettuare
transazioni complesse, dare gli ordini di rifornimento dei magazzini,
effettuare attività di costumer service,
tenere la contabilità, ecc. Il tutto a bassi costi e con eccellente qualità.
L'impresa può quindi essere riprogettata da capo - come ad esempio nel Business Process Reeinginering (BPR) -
decidendo dove fare certe attività, da chi farle fare e con quale mix di costi
variabili/fissi. “Nel momento in cui i dipendenti si abituano a dialogare con
altri via computer, senza il bisogno di un contatto faccia a faccia, non c'è
più bisogno che, dall'altra parte, ci sia davvero una persona fisica che parla
la stessa lingua: basta un sistema efficiente che genera le proprie decisioni e
reazioni”[63].
·
La
diminuzione dei tassi di crescita per quasi tutte le industrie nei paesi
sviluppati. Da molti anni i ¾ dell'industria e dei servizi sono
strutturalmente stagnanti, almeno se definiamo come stagnazione una crescita
nel mercato di origine inferiore al tasso di aumento della produttività (che
comunque ha tassi di miglioramento “strutturale” del 4-5 % all'anno)[64].
La non crescita è pertanto la norma, mentre la crescita è l'eccezione. D'altra
parte ciò è logico: nei paesi sviluppati, nei quali la popolazione non cresce,
non è più possibile mangiare di più, prendere più medicine, comprare più
automobili nuove, ecc. Ci sono, naturalmente, alcune aree di crescita -
particolari prodotti, aree geografiche sottosviluppate, servizi innovativi - ma
la maggior parte dei business in cui
operano le aziende è inevitabilmente stagnante. La consapevolezza di ciò
richiede dunque un approccio totalmente nuovo da parte di manager, azionisti e
dipendenti.
·
La
delocalizzazione produttiva. Le possibilità offerte dalla teleinformatica di
governare in tempo reale situazioni distanti migliaia di chilometri e il
costante aumento della qualità dei prodotti fabbricati nei paesi che un tempo
si distinguevano solo per il basso costo della manodopera, permettono oggi di
decidere liberamente dove collocare ogni singola lavorazione del processo
produttivo[65].
·
La
deregolamentazione. Quando le tecnologie ridefiniscono i vecchi confini
(come nel caso delle telecomunicazioni) le aziende diventano sempre più
multinazionali, i consumatori diventano sempre più omogenei, ogni singolo stato
non può più resistere alla pressione di uniformare la propria legislazione a
quella degli altri e non può più negare a un settore la deregolamentazione che
ha concesso a un altro. “Deregolatori e antitrust,
che oggi tutte le aziende considerano dei nemici, sono invece dei preziosi
alleati che permettono di percepire in anticipo un trend generalizzato”[66].
Il
teatro dell’azione economica diviene dunque il “mercato mondiale” e il
risultato dell’azione diventa la progettazione, la costruzione e la vendita di
prodotti/servizi in una logica globale. Non si tratta più di vendere singoli
prodotti ma interi sistemi: “oltre ai
prodotti, reti di vendita, agevolazioni finanziarie e assicurative, tecnologia,
organizzazione”[67]. L’ottica è
pertanto profondamente mutata: da una concezione del prodotto fortemente legata
al luogo di origine, alla sua realizzazione nello stesso luogo in cui veniva
progettato, alla successiva esportazione nei mercati esteri, si passa a una
visione globale che implica un approccio diverso alle politiche del prodotto, di
produzione, di distribuzione. I nuovi obiettivi richiedono una cultura di
impresa che riesca a permeare ogni ambito dell'organizzazione per sviluppare
una nuova abitudine a pensare in termini di internazionalizzazione: lo schema
di pensiero deve diventare globale.
Il
prodotto, affermano C. Paracone e F. Uberto[68],
è forse ciò che più di ogni altro fattore rispecchia la cultura d’origine: ci
sono attributi quali lo stile, le forme, la presentazione che si ricollegano
direttamente al gusto estetico, alle abitudini di chi lo progetta e più in
generale alla cultura del mercato di origine. Oggi tuttavia le aziende più
dinamiche e flessibili si trovano nella necessità di sviluppare prodotti di
classe mondiale e servizi che abbiano uno standard di livello mondiale nel
rapporto costo/qualità. Le implicazioni sulla cultura d’impresa sono pertanto
notevoli.
La
definizione di standard di classe mondiale per il design, i servizi e la
prestazione implica nuove strategie di impiego delle sorgenti di conoscenza e
nuove forme di lavoro di gruppo. In particolare per “l’impiego strategico delle
fonti di conoscenza si stanno sviluppando modelli a sorgente tripla”[69]:
sviluppo del progetto secondo i canoni prevalenti nell’originaria cultura
d’impresa; collaborazioni con partners di
altri paesi, acquisizione del contributo di fonti indipendenti internazionali
che rispecchino le culture di aree strategiche del mercato mondiale.
Stanno
emergendo infatti nel mondo dell’impresa molte e differenziate alleanze. Esse
divengono necessarie per entrare su mercati difficili, per migliorare la
competitività e acquisire tecnologie, per sviluppare nuove conoscenze e sapere
manageriale. Il successo di queste alleanze risiede nella compatibilità
culturale dei partners,
nell’esistenza di condizioni per la reciproca cooperazione, nell’efficacia del
coordinamento e dei meccanismi di integrazione. Infatti quanto più i confini
aziendali si espandono, abbracciando tessuti sociali diversi, tanto più
aumentano le difficoltà di integrare le organizzazioni. La comunicazione
diventa pertanto elevata e tutto il sistema organizzativo nel suo insieme non
può non esserne coinvolto.
“L'azienda
che deve confrontarsi con un mercato di 800 milioni di consumatori potenziali
non ha che una possibilità: focalizzarsi e fare al proprio interno solo
l'essenziale”[70]. Il primo
passo è dunque l'abolizione del concetto di “domestico”: un consumatore
potenziale è tale sia che risieda in Giappone sia che viva negli Stati Uniti e,
quindi, bisogna comprendere bene cosa tale consumatore medio si attende dal
prodotto e dall'azienda che lo produce. In parallelo deve essere abolito il
concetto di distanza, sia nello spazio che nel tempo: “non si può più
introdurre un nuovo prodotto prima vicino a casa e poi, via via, negli altri
mercati, perché il consumatore pretende di essere servito istantaneamente
ovunque con il nuovo prodotto che vede in TV o viaggiando e i concorrenti non
aspettano altro che una differenza di tempestività per intrufolarsi nel gioco
competitivo”[71].
Il
secondo passo è il ripensare le relazioni con i fornitori e i clienti. Per
competere su base globale il know-how
presente in azienda non è spesso sufficiente e deve quindi essere integrato con
know-how che altri hanno: know-how tecnologico, conoscenze di
ciascun specifico mercato, accesso a risorse tecnologiche e finanziarie
particolari, ecc. Anche in questo caso l’azienda dovrà sviluppare un
atteggiamento positivo verso le partnership,
accettando la parziale perdita di sovranità e di autonomia che esse comportano.
Il
terzo passo è rivedere anche la logica in base alla quale sono svolti,
all'interno dell'azienda, i vari servizi: dalla contabilità alla logistica,
dall'informatica all'assistenza tecnica. A differenza del passato, esistono
oggi validi fornitori internazionali di servizi che danno all'imprenditore la
possibilità di acquistare (sempre in ottica di partnership) quasi tutti i servizi complementari alla propria
progettazione e distribuzione del prodotto. Al limite l'impresa può occuparsi
solo del marchio, dell'ideazione del prodotto e della finanza, essendo oggi
possibile far costruire, distribuire e assistere il prodotto da altri
specialisti. I capitali e le risorse intellettuali dell'azienda possono così
essere concentrati solo nelle aree in cui non c'è un'alternativa efficace e
meno costosa all'esterno. L'outsourcing non
è quindi soltanto un metodo per ridurre i costi, ma è anche una necessità
strategica per l’azienda che si deve concentrare nel core del core per competere in un mercato globale[72].
Il
quarto passo è l'identificazione di un assetto competitivo vincente. Non basta
infatti fare meglio che in passato, soprattutto in termini di costi: bisogna
riprogettare interamente come si produce e si vende e come si continuerà a
innovare. La potenza dell'informatica collegata alle telecomunicazioni consente
di ridurre praticamente a zero il costo variabile di ogni transazione. La
possibilità di delocalizzare la produzione nei paesi più convenienti,
mantenendo al contempo qualità e tempi di reazione adeguati, consente di decentrare
le singole fasi del processo produttivo, dall'ideazione del prodotto
all'assistenza al cliente, costruendo un sistema competitivo vincente. Infine,
il collegamento con centri di eccellenza diversi ed esterni all'azienda,
ovunque siano situati nel mondo, consente la tempestiva identificazione di
nuove possibilità di produrre o servire clienti sempre più sofisticati ed
esigenti. A questo punto il vantaggio competitivo dell’azienda diviene la sua
capacità di sviluppare competenze proprietary,
cioè non copiabili[73].
Essa, infatti, liberata dai problemi che possono essere delegati ad altri, può
concentrarsi su quelle tecnologie essenziali che, combinate in modi innovativi,
permettono stabilmente di far meglio dei concorrenti.
In
ultimo occorre citare la sempre maggiore attenzione che bisogna prestare al
mercato dei capitali: “quando tutti i competitors
si sono concentrati sul core business,
hanno terziarizzato e reingegnerizzato le proprie operations, hanno adottato tecniche di quick response, total quality,
employee empowermente e lean production, la capacità di alcuni
di acquisire capitali con l'attesa di tassi di remunerazione diretta
(dividendi) inferiore a quello degli altri concorrenti (in quanto compensato da
un'attesa di un maggior capital gain)
diventa l'elemento distintivo sul quale basare una strategia di sviluppo”[74].
In
questa prospettiva, dunque, la presenza di leaders
dotati di una visione globale diventa la chiave di volta per il successo
nel gioco della competizione. I due fondamentali ingredienti della
competitività in una dimensione globale sono, pertanto, la produttività e la
qualità, dove il concetto di produttività assume un significato allargato
rispetto al passato[75].
Essa, infatti, non indica più esclusivamente il dato numerico della produzione
effettuata per unità di tempo e valore, bensì si espanse alla considerazione
dell’impiego ottimale e simultaneo del mix di tutti i fattori della produzione:
capitali, lavoro, materiali, conoscenza, tecnologia, risorse umane.
In questo capitolo procederemo all’analisi di due realtà aziendali, la ST Microelectronics e la Advanced Micro Devices, appartenenti al
settore della microelettronica, per le quali la scelta di adottare un modello
organizzativo e produttivo altamente avanzato e flessibile ha determinato il
successo a livello internazionale. Esse, infatti, hanno dato vita a due
soluzioni organizzative e produttive estremamente innovative e avanzate,
fondando la loro strategia su tre principi cardine:
·
la
costituzione di un network operativo
mondiale, composto da unità organizzative dislocate in diverse parti del
pianeta;
·
il
miglioramento continuo dei livelli qualitativi del prodotto finale e dei cicli
produttivi al fine di garantire costantemente un prodotto leader sul mercato;
·
una
rilevante e significativa attenzione alle problematiche ambientali, attraverso
continue attività di tutela e monitoraggio degli ecosistemi dei contesti
territoriali in cui sono insediate.
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La ST Microelectronics è un’azienda che svolge un’intensa attività manifatturiera e commerciale nel campo dei componenti e delle applicazioni per l’elettronica e la microelettronica, nonché in settori connessi e affini. Essa infatti progetta, sviluppa, realizza e commercializza un’ampia gamma di circuiti semiconduttori integrati ("ICs") e congegni discreti impiegati in una grande varietà di settori (telecomunicazione, telefonia, informatica, multimediale, automazione e controllo dei sistemi industriali, apparecchiature e macchinari ospedalieri, attrezzature spaziali, etc.).
Sulla base dei
più recenti dati disponibili, la ST risulta la prima azienda al mondo
fornitrice di circuiti integrati analogici. I prodotti aziendali sono
realizzati e progettati utilizzando un’ampia gamma di processi di fabbricazione
e avanzati metodi di progettazione. Infatti, per la complessità e la varietà
dei processi e delle tecniche di ideazione, la Compagnia possiede un ampio range di risorse intellettuali che le
hanno permesso di sviluppare convenzioni “incrociate” con molti dei principali
fabbricatori mondiali di semiconduttori. In questo modo la ST ha sviluppato una
rete mondiale di alleanze strategiche, che includono relazioni con clienti
chiave per lo sviluppo del prodotto, con clienti e altri fabbricanti di semiconduttori
per lo sviluppo tecnologico e relazioni con le principali case di progettazione
software.
Allo stato attuale la ST offre oltre 3000 tipi di prodotti a più di 1500 clienti, tra cui si evidenziano Alcatel, Bosch, Creative Technology, Ford, Hewlett-Packard, IBM, Motorola, Nokia, Northern Telecom, Philips, Seagate Technology, Siemens, Sony, Thomson Multimedia e Western Digital. Circa il 51% del fatturato della Società deriva da prodotti differenti, ossia da una combinazione di sofisticati semiconduttori e di prodotti su commissione, realizzati per soddisfare specifici clienti o specifiche applicazioni.
La ST Microelectronics è nata
nel giugno del 1987 dalla fusione tra la Thomson
Semiconducteurs francese a la SGS
Microelettronica italiana. Da allora la Società ha sviluppato
significativamente la sua gamma di prodotti e le sue tecnologie e, inoltre, ha
fortificato la capacità di produzione e distribuzione in Europa, Nord America e
nelle regioni dell’Asia orientale. Questa espansione è stata facilitata dalla
diffusione delle attuali convenzioni internazionali e dal progetto di avviare
la costruzione di altre 2 unità produttive: una in Italia e una fuori
dall’Europa, che si vanno ad aggiungere alle 4 già esistenti a Crolles
(Francia), Phoenix (Arizona), Catania (Italia) e Rousset (Francia).
Il gruppo
comprende 25 mila addetti, 9 unità di ricerca avanzata e sviluppo, 31 centri di
progettazione e applicazione, 17 fabbriche principali e 57 uffici commerciali
in 23 paesi[76]. Si tratta
pertanto di una rete ampia e complessa di unità organizzative dislocate sul
territorio mondiale, ma significativamente connesse tra loro attraverso
importanti azioni di integrazione verticale e orizzontale - mission aziendale corporativa e unicità
di metodologie/azioni che caratterizzano i processi produttivi - le quali
riescono a garantire la continuità dei cicli di produzione e il raggiungimento
dell’obiettivo unico: realizzare un prodotto qualitativamente elevato e
all’avanguardia sul mercato nel pieno rispetto delle condizioni ambientali dei
paesi nel quale si insedia la Società.
La Direzione
Centrale della Compagnia si trova a Saint Genis (Francia), vicino a Ginevra
(Svizzera) dove si trovano anche le altre Direzioni europee e i Centri di
Servizio. Le Direzioni americane si trovano invece a Carrollton (Dallas, Texas)
e quelle asiatiche a Singapore e a Tokyo.
Per garantire il continuo
sviluppo tecnologico e offrire ai clienti un prodotto all’avanguardia, la ST
investe ogni anno significative quote di fatturato in R&D. Per esempio, nel
1995 ha investito un miliardo di dollari in spese di capitale, pari al 28.3%
del fatturato, e ha speso 440.3 milioni di dollari, pari al 12.4% del
fatturato, per la ricerca e lo sviluppo[77].
La ST, come detto, produce
diversi tipi di semiconduttori - dai singoli transistors ai microprocessori con milioni di componenti su uno
stesso silicon chip - che possono
essere implementati in una varietà di strumenti o ambienti, dagli avanzatissimi
supercomputers fino a strumenti quotidiani come il telefono, le automobili, il
tostapane o perfino le lampadine. A tal fine la Società ha elaborato un piano
aziendale di produzione organizzato in 5 gruppi produttivi fondamentali[78]
(per approfondimento si veda l’allegato 2), i quali si articolano in un insieme
unitario di centri produttivi, distaccati fisicamente ma strettamente connessi
fra loro per il semplice fatto di essere un “anello” costitutivo all’interno di
un ciclo produttivo unitario:
·
Dedicated Products Group: realizza semiconduttori per applicazioni specifiche utilizzando avanzate
e potenti tecnologie bipolari. I prodotti di questo gruppo sono usati in tutte
le più grandi applicazioni finali, compresi i networks per la comunicazione mobile, i sistemi asincroni di
comunicazione e i sistemi di compressione video-digitali;
·
Discrete and standard ICs Group: realizza power devices, transistors, prodotti per frequenze radio ("RF"). Il
gruppo ha una base eterogenea di clienti e un ampio portfolio di prodotti;
·
Memory Products Group: produce un’ampia gamma di
prodotti di memoria, come gli EPROMs,
le memorie flash, le SRAMs e i
circuiti per le smartcards;
·
Programmable Products Group: realizza microcomponenti,
cirduiti digitali e analogico/digitali. Esso produce anche componenti grafici
per PC e Ics per applicazioni multimediali;
·
New Ventures Group: individua e sviluppa nuove
opportunità di business, cercando di
sfruttare pienamente il proprio know-how
tecnico e costituendo abili e globali gruppi di lavoro orientati al marketing.
Il gruppo si è costituito nel maggio del 1994 e le sue attività iniziali si
sono focalizzate sulla realizzazione e vendita del microprocessore x86,
progettato dalla Cyrix Corporation.
La ricerca, in particolare quella orientata alla qualità, ossia al
miglioramento continuo delle performance aziendali, costituisce un fattore
determinante dell’intera politica aziendale. Nello specifico la ricerca della
qualità si fonda sui seguenti principi: miglioramento continuo del prodotto e
dei cicli produttivi, orientamento alle esigenze del cliente, sperimentazione
diffusa, attenzione e sviluppo delle risorse umane impiegate, profondo impegno
manageriale.
Anche in questo
caso, l’attività di R&S della ST è articolata in una rete di unità
strategiche dislocate sul territorio, che si occupano di una fase specifica ma
allo stesso tempo complementare alle altre del processo operativo. La rete
comprende Funzioni centrali, Unità operative per gruppi omogenei di prodotto e
Unità geografiche.
L’attività
aziendale si fonda, infine, su una rilevante e significativa politica
ambientale a livello di corporate.
Scopo è l’applicazione dei principali criteri per migliorare le performance
ambientali e permettere alla ST di diventare una delle migliori industrie nel
rispetto dell’ambiente. Questa politica coinvolge in modo trasversale tutte le
attività della ST, in particolare: la Progettazione, la Fabbricazione, gli
Acquisti, la Logistica, la Vendita e il Marketing e le più generiche attività
amministrative (Legale, Human Resources,
Contabilità, etc). Inoltre, bisogna sottolineare che anche tutti i fornitori
coinvolti nel networks aziendale sono
sollecitati ad adottare un approccio di rispetto per l’ambiente.
In questo modo
l’attenzione all’ambiente diviene un elemento allo stesso tempo costitutivo e
unificante della “condotta” aziendale. Esso si concretizza nei seguenti
principi (per un approfondimento degli stessi si veda l’allegato 2):
·
Mission ambientale: eliminare o minimizzare
l’impatto delle azioni aziendali sull’ambiente, massimizzando l’utilizzo di
materiali riciclabili e adottando il più possibile fonti di energia
rinnovabili;
·
Visione ambientale: seguire l’Environmental Decalogue (si veda
l’allegato 2) al fine di essere riconosciuto da tutti gli stakeholders come il leader
nella tutela dell’ambiente, applicando i criteri della regolamentazione ad ogni
grado e ovunque. Ciò al fine di acquisire la certificazione del Eco Management and Audit Scheme (EMAS)
in tutte le comunità in cui si opera;
·
Politica ambientale: 1) conseguire un
miglioramento continuo delle performance ambientali cercando di ridurre
l’impatto aziendale sull’ambiente utilizzando le migliori tecnologie
disponibili (EMAS art. 3a); 2) avere un approccio “proattivo” nelle attività
ambientali, fondato sui principi del TQM (Total
Quality Management), derivanti dai 16
principi della Business Charter
for Sustainable Development elaborata dall’ICC (International Chamber of Commerce); 3) essere un leader mondiale sulla base di:
-
doveri
morali verso l’ambiente;
-
rilevanza
economica (investire nella protezione ambientale dando significativi vantaggi strategici alla compagnie con cui si
collabora. Questo perché gli sforzi finanziari, in larga parte, saranno
ripagati se si è in grado di progettare e implementare processi incontaminati e
funzionano con materiali ed energia poco costosa). Gli investimenti ambientali,
pertanto, devono rappresentare una priorità;
-
risorse
umane: assumere i migliori individui giovani e motivare gli impiegati con la
garanzia di un’elevata qualità della vita.
La
consapevolezza del rispetto ambientale risulta pertanto essere il principio
ispiratore per il raggiungimento di tutti questi punti. Inoltre, i 16 principi
della Business Charter for Sustainable
Development forniscono le linee guida per uno sviluppo continuo di questa
politica. La Council Regulation (EEC
-1836/93) del 29 giugno 1993, che implica la partecipazione volontaria delle
imprese del settore industriale appartenenti alla Community Eco-Management e all’Audit Scheme – EMAS, dà importanti
indicazioni su cosa la ST ha introdotto al suo interno per amministrare i
diritti ambientali (attività/metodologie di verifica ambientale). Le norme ISO
14000, riguardanti la fase di emissione, forniscono a livello mondiale le linee
guida come per la EMAS. Il TQEM (Total
Quality Environment Management), infine, individua l’insieme di azioni
pratiche per lavorare e organizzare tutti gli aspetti di un business al fine di ottenere i migliori
risultati.
Tutta
l’organizzazione produttiva appena vista, è bene sottolinearlo di nuovo, è
svolta nella logica dell’integrazione dei processi produttivi tra stabilimenti
diversi, in cui si sovrappongono e contribuiscono al risultato finale leggi,
culture e stili di management differenti.
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La produzione di circuiti integrati è un’attività complessa.
Allo stato attuale un microcircuito - per esempio, un processore AMD-K6® - è
composto da circa 8 milioni di transistors
su un “chip” di silicio più piccolo di un‘unghia. La costruzione di questi
circuiti richiede pertanto processi tecnologici altamente avanzati.
Nell’ambito di questo settore
la Advanced Micro Devices (AMD)
detiene una posizione leader, grazie
agli elevati investimenti che la Società destina per la ricerca e lo sviluppo
dei propri processi industriali tecnologici. Basti pensare che negli ultimi
anni, la AMD ha investito circa 1.4 miliardi di dollari – più del 15 % del
fatturato – in R&D[79].
Gli investimenti effettuati hanno, comunque, prodotto straordinari ritorni.
Infatti, i progressi raggiunti nei processi tecnologici, in particolare in
quelli fotolitografici, hanno permesso di migliorare le performance produttive
e allo stesso tempo di ridurre i relativi costi.
La AMD è nata
nel 1969 ed è un’azienda che progetta e realizza microprocessori, memorie flash, circuiti per telecomunicazioni e per applicazioni networks. La Società è articolata in una
rete di unità organizzative e produttive dislocate sull’intero territorio
mondiale. La scelta di adottare una tale soluzione organizzativa è dipesa dalla
possibilità di realizzare un processo produttivo estremamente flessibile ma al
contempo altamente specializzato e unitario. Infatti, ogni unità operativa è
dislocata in una determinata area geografica scelta in base alle
caratteristiche e competenze specialistiche (tecnologiche, scientifiche,
intellettuali, ambientali, territoriali, etc.) che contraddistinguono sia le
risorse umane impiegate sia il contesto territoriale stesso.
La AMD ha dunque centri operativi a Sunnyvale (California), Austin
(Texas), Bangkok (Tailandia), Penang (Malesia), (Singapore), Aizu-Wakamatsu
(Giappone), Dresden (Germania), Suzhou (Cina), per un totale di circa 13 mila addetti in tutto il
mondo[80].
La Direzione Centrale e il Centro di Sviluppo Submicron (SDC), che si occupa della ricerca di una parte limitata
della produzione, si trovano a Sunnyvale, la città in cui venne fondata la AMD
nel ’69 e il centro operativo di Silicon Valley, mentre il Gruppo di Servizio
per la Produzione sta vicino a Santa Clara.
Ad Austin in Texas si trova il più grande centro produttivo (FAB 25)
della AMD, che nato nel ’79 si compone di 4 stabilimenti. Qui viene fabbricato
il prodotto più sofisticato della AMD, ossia il wafer, la base di tutti i microprocessori, nonché la serie K6™ di
microprocessori. A Dresden in Germania si trova la Fab 30 specializzata invece
nel processo di silicon wafers. Alla
base di questo processo operativo vi è un piano estremamente efficiente di
generazione elettrica. A Bangkok (Tailandia) e a Penang
(Malesia) sono ubicati i centri specializzati nell’assemblaggio delle
componenti microcircuitali e nella conduzione di test avanzati. Qui pertanto
vengono svolte le più antiche e complesse
operazioni di analisi e assemblaggio[81].
In entrambi i centri, infatti, sono stati implementati importanti programmi
chimici. A Singapore e a Suzhou (China), infine,
vengono condotti ulteriori test sul prodotto finale.
La cultura della AMD, importante elemento di integrazione aziendale, si
fonda sul rispetto per gli individui. I valori su cui si basa obbligano
l’Azienda, sia che si tratti di un privato cittadino sia di un impiegato, a
migliorare la qualità della vita e a proteggere l’ambiente delle comunità nelle
quali essa opera.
Il programma Environmental, Health
and Safety della AMD (per approfondire l’argomento si veda l’allegato 3)
rappresenta, dunque, la volontà di formalizzare operativamente i propri valori
fondanti. Il programma consiste in un insieme di principi generali in grado di
guidare tutte le azioni/attività aziendali a livello mondiale. Esso è
finalizzato alla sicurezza dei luoghi di lavoro, alla protezione ambientale,
alla prevenzione di danni per la proprietà, allo sviluppo della motivazione
degli impiegati e alla conformità alle norme e regolamentazioni mondiali. In
questa prospettiva management e singoli lavoratori sono responsabili del
raggiungimento degli obiettivi del programma. Pertanto, in esso è prevista un’ampia gamma di operazioni corporative che vanno dalla
riduzione di materiali pericolosi fino alla salute, sicurezza e benessere dei
lavoratori.
Alcuni punti essenziali del programma riguardano:
·
Water conservation. Si
tratta di un programma di purificazione dell’acqua utilizzata in ogni fase del
processo produttivo. Sebbene la AMD abbia ideato un processo di purificazione
dell’acqua, continua a ricercare metodi ancora migliori per preservare le
risorse idriche;
·
Global Climate Change. La AMD destina ampia parte dei suoi programmi di
ricerca e sviluppo per la riduzione delle emissioni di potenti gas termici e
per misure di preservazione energetica. Entrambe le misure riguardano tutte le
attività e prodotti.
·
Sematech
- The Semiconductor Research Consortium. Si tratta di un centro produttivo di
semiconduttori, sito a Austin in Texas, in cui la AMD concentra la
realizzazione di gran parte dei numerosi progetti concernenti appunto il
programma EHS. A tal fine nel 1997 la Sematech ha iniziato una collaborazione
con l’Electric Power Research Institute (EPRI)
di Palo Alto (CA). Da questa collaborazione è sorto il Center for Electronics Manufacturing (CEM), un’organizzazione internazionale
nata specificatamente per ricercare e analizzare nuovi sbocchi energetici nella
produzione di semiconduttori. Sempre nel 1997 è stato creata anche una nuova
organizzazione internazionale, la International
Sematech, che oltre a includere le società già membri della Sematech
originaria, raggruppa anche nuove società dell’Asia e dell’Europa.
Infine, la AMD, oltre a questo valido e ampio programma ha messo in atto, al fine di sostenere l’integrazione del sistema organizzativo, un articolato e complesso sistema di trasferimento e diffusione delle informazioni e delle conoscenze aziendali. Esso consiste in un sistema informatico definito Computer Based Training (CBT), in un sistema database integrato, nella diffusione di rapporti elettronici sulla legislazione dei diversi paesi, nelle pubblicazioni on-line di informazioni sia interne sia esterne all’azienda.
Anche per l’AMD, quindi, la vera risorsa organizzativa consiste nell’ampio processo di delocalizzazione produttiva, che permette a stabilimenti in nazioni diverse e lontanissime di interscambiare i prodotti giunti ad un determinato stadio della produzione, operando senza soluzione di continuità in tutti i processi critici, da quelli produttivi sino all’assicurazione di qualità.
Per concludere questo breve excursus dentro il sistema industriale,
attraverso il quale abbiamo condotto rapidi ma mirati flash tra i cambiamenti più rilevanti intervenuti nel mondo della
produzione, è bene tirare le somme degli argomenti e delle esperienze aziendali
prese in considerazione, focalizzando in particolare l’attenzione sui benefici
e sulla motivazioni aziendali alla base del processo di delocalizzazione
produttiva, sia a livello nazionale che internazionale. Ciò in quanto si tratta
di una tendenza che sta assumendo proporzioni di ampia portata, superando la
specificità dei settori produttivi o dei contesti territoriali.
La delocalizzazione
produttiva si inserisce nell’ambito di un processo innovativo generalmente
condiviso dai maggiori Paesi industriali, i quali, negli ultimi anni, hanno
visto crescere gli investimenti diretti esteri da parte delle imprese. Questo
trend è supportato dalla liberalizzazione e dalla globalizzazione dei mercati
ed è facilitato dal miglioramento delle infrastrutture mondiali di trasporto e
comunicazione nonché all’avvento di nuove tecnologie in grado di ridurre i
vincoli spazio-temporali e i costi di coordinamento delle transazioni
intra-impresa[82].
A conferma di ciò basti pensare al peso strategico che rivestono le alleanze e
le relazioni con partners stranieri o la grande parte di fatturato che le due
aziende analizzate nel capitolo precedente destinano ogni anno allo sviluppo di
unità aziendali dislocate in diverse aree del mondo. Se da un lato, dunque, si
tratta di un fenomeno quasi di “massa” nel senso che tende a coinvolgere tutti
i settori di attività economica - dalla manifattura più tradizionale sino alla
produzione di servizi e ai segmenti dell’alta tecnologia - dall’altro è pur
vero che ogni processo di delocalizzazione avviato all’interno di un’azienda
rappresenta un fenomeno a sé stante, che non può prescindere dall’analisi dei
caratteri specifici della sua organizzazione, dei suoi orientamenti strategici,
delle peculiarità settoriali, territoriali, di destinazione degli investimenti
dell’azienda interessata. Tuttavia, pur tenendo conto di questo, in questa sede
conclusiva è utile svolgere alcune considerazioni di carattere più generale.
Come
abbiamo visto sinora, la delocalizzazione produttiva, sia entro i confini
nazionali sia “extranazionali”, è strettamente connessa a un processo di
dimensionamento della struttura aziendale e organizzativa, la quale a sua volta
è conseguenza della crisi delle grandi concentrazioni industriali[83]
e in particolare dell’industria della produzione di massa e standardizzata taylor-fordista. Basti pensare, ad
esempio, che in Italia le piccole e le medie imprese rappresentano quasi i tre
quarti delle multinazionali italiane con attività produttiva all'estero, anche
se il loro contributo scende - come è naturale - al 37% in termini di imprese
estere partecipate e al 13,5% in termini di addetti totali all'estero. In
particolare, le Medie Imprese Italiane sono, seppur di poco, l'insieme numericamente
più numeroso, con 244 case-madri e 396 imprese partecipate all'estero che
occupano oltre 50.000 addetti[84].
A
tale proposito Renato Brunetta[85]
sostiene che mentre sul piano teorico questa tendenza rappresenta un ritorno
alle ipotesi smithiane[86]
sul riconoscimento della maggiore capacità operativa realizzabile mantenendo
l’unità produttiva entro dimensioni non eccessivamente ampie, sul piano
pratico, invece, segnala la possibilità di risolvere positivamente le
diseconomie proprie delle grandi dimensioni, utilizzando la flessibilità di
unità produttive più direttamente sensibili alle modificazioni della domanda di
mercato. Di conseguenza il processo di delocalizzazione assume un valore
diverso, nel senso che il suo verificarsi non è più legato soltanto alla necessità
di mantenere quote di mercato, ma anche alla garanzia di un adeguato margine di
manovra nell’ambito delle alternative tecnologiche esistenti.
Esso,
infatti, se da un lato appare come un tentativo di risposta alla rigidità del
sistema produttivo, consentendo di perseguire l’obiettivo di superamento delle
diseconomie (derivanti dalla concentrazione spaziale dei diversi fattori
produttivi entro strutture di ampie dimensioni) mediante una delocalizzazione
delle fasi della lavorazione in aree diverse da quella dove originariamente
veniva a situarsi l’unità produttiva, dall’altro si può definire come
l’attivazione di una molteplicità di unità produttive (stabilimenti, unità
locali, etc) “la cui scala venga determinata in base all’obiettivo di pieno sfruttamento
delle economie di scala endogene”[87].
In questo modo il sistema integrato derivante dall’esternalizzazione, oltre ad
implicare collegamenti di natura tecnologica ed efficientistica, può consentire
di mantenere scale operative adeguate a ciascuno stadio del processo produttivo
ed eliminare elementi di costo temporale nella utilizzazione dei fattori
produttivi.
Altri
importanti fattori che influenzano la scelta di produrre con una pluralità di
unità produttive sono[88]:
i costi di trasporto per la distribuzione dei prodotti o l’approvvigionamento
delle materie prime; l’integrazione verticale; la diversificazione orizzontale;
il congestionamento delle aree industrializzate d’origine; le agevolazioni
finanziarie; l’eterogenea distribuzione territoriale del fattore lavoro; la
specializzazione degli impianti e il controllo e l’assicurazione della qualità
dell’intero processo produttivo (prodotto finale, cicli di lavorazione, qualità
della vita, ambiente, etc).
In
questo processo la tendenza principale che si osserva è verso il decentramento
degli impianti produttivi, ossia la segmentazione tra più siti dei cicli
tecnici di lavorazione, come è risultato chiaramente anche dalla ricostruzione
delle due realtà aziendali prese in considerazione in questo studio, mentre in
misura molto inferiore si assiste al decentramento di funzioni amministrative,
che, al contrario tendono a rimanere centralizzate.
La
scelta della localizzazione delle unità produttive dipende, quindi, dalla
valutazione di diversi fattori ma in particolare conta soprattutto il calcolo
di convenienza dal punto di vista economico rapportato alla situazione del
mercato e alla fase del ciclo attraversata dall’intero sistema[89].
Di conseguenza, prevarranno di volta in volta motivazioni connesse
all’utilizzazione del fattore lavoro (sia in termini di costo della manodopera
sia in termini di specializzazione della stessa), delle materie prime
impiegate, alla vicinanza a complessi industriali, in modo da beneficiare di
rilevanti esternalità connesse alla facilità di collegamenti e alle economie di
agglomerazione (in previsione anche di possibili future esigenze di ampliamento
della capacità produttiva)[90].
Tuttavia
la scelta della delocalizzazione produttiva, dominata da un orientamento resource seeking, cioè determinata dal
mutare dei vantaggi comparati riguardo al costo dei fattori, spiega solo in
parte le valutazioni alla base della decisione aziendale di distribuire fuori
della sede principale dell’impresa le fasi del processo di produzione. Ad
orientare le scelte vi sono infatti anche orientamenti market seeking, cioè finalizzati alla conquista duratura di nuove
quote di mercato e atti rivolti all’acquisizione di know-how complementare e di integrazione delle proprie attività di
produzione e di R&S con quelle svolte, ad esempio, da imprese acquisite
all'estero[91]. In questa
tendenza rientrano ad esempio i casi aziendali trattati nel quarto capitolo.
Alla base della loro scelta di esternalizzare parte dei processi produttivi, di
dare vita ad un circuito articolato, ma al tempo stesso altamente integrato e
unitario, di unità organizzative vi è la valutazione della maggiore efficienza
produttiva e del maggiore livello qualitativo raggiungibile cercando di
organizzare il processo di produzione in base alle specifiche potenzialità
tecniche, ambientali, intellettuali, etc. che ciascun contesto territoriale e
culturale può offrire. Una soluzione quasi obbligata se si considera quanto sia
importante la qualità del prodotto e al contempo la flessibilità e la
tempestività di risposta al mercato per chi opera nel settore elettronico.
Non
va sottaciuto, infine, che, specialmente nei servizi, la delocalizzazione
produttiva è spesso una necessità imposta dalla particolarità settoriale,
soprattutto dalla necessità di fornire prodotti in maniera capillare,
personalizzati per utenti di culture e stili di consumo diversi, mantenendo
costante nel tempo e tra le diverse aree geografiche la qualità che costituisce
una delle componenti fondamentali dell’immagine di marca del produttore.
La
strada del decentramento delle fasi produttive quindi rappresenta una strategia
efficiente quando[92]:
a) vi è un significativo trade-off
tra riduzione dei costi ed altri fattori critici, quali la sicurezza degli
approvvigionamenti, la qualità del prodotto, i tempi di consegna e il servizio
al cliente, b) si combinano motivazioni market
seeking nei confronti del paese target
dell'iniziativa o dell'area regionale in cui si colloca.
In
definitiva, dunque, il fenomeno della delocalizzazione produttiva porta alla
costituzione di un network di nodi
organizzativi e produttivi, che può superare o meno i confini nazionali
dell’impresa interessata, ed è in grado di valorizzare le sue risorse
distintive endogene - intellettuali, tecnologiche, produttive e commerciali - arricchendole
con nuovi vantaggi competitivi, migliorando il processo di produzione e il
prodotto stesso, incrementando la qualità ottenuta dal cliente finale e la
tempestività di risposta alla sue richieste.
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[1] Butera F., Il Castello e la Rete, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 12.
[2] Accornero A., Il Mondo della Produzione., Bologna, Il Mulino, p. 7.
[3] Accornero A., Il Mondo della Produzione, Bologna, Il Mulino, 1994, cap. I.
[4] Accornero, op. cit., cap. I, pp. 23 ss.
[5] Accornero, op. cit., cap. I.
[6] Aron R., La Società Industriale, Milano, Comunità, 1965.
[7] Gallino L., “Capitalismo, Industria, Società industriale, Formazione economico-sociale e Struttura sociale”, in Gallino L., Dizionario di Sociologia, Torino, UTET, 1993.
[8] Deane P., La Prima Rivoluzione Industriale, Bologna, Il Mulino, 1971.
[9] Deane, op. cit., pp. 323 ss.
[10] Accornero, op. cit., cap. I, p. 24.
[11] Ibidem.
[12] Schumpeter J. A., “La Reazione Creativa nella Storia Economica”, in Pagani A. (a cura di), Il Nuovo Imprenditore, Milano, Franco Angeli, 1967.
[13] Bonazzi G., Storia del Pensiero Organizzativo, Milano, Franco Angeli, 1995, p. 31.
[14] Bonazzi, op. cit., p. 33.
[15] La Rosa M., Il Lavoro nella Sociologia, Roma, NIS, 1993, cap. III, p. 65.
[16] Ibidem.
[17] Montgomery D., Rapporti di classe nell’America del primo ‘900, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980.
[18] Taylor F. W., L’Organizzazione Scientifica del Lavoro, Milano, ETAS/KOMPASS, 1967.
[19] Bonazzi, op. cit., p.30.
[20] Accornero, op. cit., cap. III.
[21] Ford H., Autobiografia, Milano, Rizzoli, 1982, p. 87.
[22] Accornero, op. cit., cap. III.
[23] Accornero, op. cit., cap. III, p. 112.
[24] Ibidem.
[25] Morgan G., Images. Le metafore
dell’organizzazione, Milano, Franco Angeli, 1995, cap. II, pp. 41 ss.
[26] Morgan, op. cit., cap. II, p. 43.
[27] Ambrosini M., “La Ricerca del Consenso dei Lavoratori”, in Il Progetto, n. 60, Nov.-Dic., 1990, p. 77.
[28] Bonazzi, op. cit., cap. II .
[29] Accornero A., Il Mondo della Produzione, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 18.
[30] Piore M. J., Sabel C. F., Le due via dello Sviluppo Industriale. Produzione di massa e produzione flessibile, Torino, ISEDI, 1987, p. 89.
[31] Piore, Sabel, op. cit.
[32] Butera F., Il Castello e la Rete, Milano, Franco Angeli, 1992.
[33] Butera, op. cit., pp. 17 ss.
[34] Butera, op. cit.
[35] Failla A., Lavorare in un Mondo che cambia, Milano, ETAS Libri, 1994, p. 213.
[36] La Rosa M., Il Lavoro nella Sociologia, Roma, NIS, 1993, p. 195.
[37] Butera, op. cit., p. 96 ss.
[38] Butera, op. cit., p. 97.
[39] Butera, op. cit., p. 98.
[40] Butera, op. cit., p. 51.
[41] Ibidem.
[42] Ibidem.
[43] Regini M. (a cura di), La Sfida della Flessibilità, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 97.
[44] Regini, op. cit., parte I, cap. IV.
[45] Bonazzi, op. cit., cap. VII.
[46] Bonazzi, op. cit., p. 166.
[47] Bonazzi, op. cit., p. 168.
[48] Monden Y., Produzione Just in Time. Come si progetta e si realizza, Torino, Petrini, 1986.
[49] Ohno T., Lo Spirito Toyota, Torino, Einaudi, 1993, pp. 32 ss.
[50] Bonazzi, op. cit., cap. VII.
[51] Accornero, op. cit., p. 308.
[52] Bonazzi, op. cit., p. 175.
[53] Bonazzi, op. cit., cap. VII.
[54] Ohno, op. cit.
[55] La Rosa M., Il Lavoro nella Sociologia, Roma, NIS, 1993, p. 213.
[56] La Rosa, op. cit., cap. X.
[57] La Rosa, op. cit., cap. X.
[58] “Che cos’è
un Sistema Qualità”, in Sito Internet: www.analysisbo.it/iso9000
[59]
Olgiati V., “Globalizzazione”, in Impresa
& Stato, n. 34. Sito Internet: http://impresa-stato.mi.camcom.it/im_34/olgiati.htm
[60] AA.VV.,
“Strategia: globalizzazione”, in sito Internet: www.liuc.it/dida/econ/program/intra/progetti/g14/STRATEGIA.html
[61] Ibidem.
[62] Ibidem.
[63] Ibidem.
[64] Ibidem.
[65] Ibidem.
[66] Ibidem.
[67] Paracone C., Uberto F., Le Nuove Frontiere della Produttività: la Flessibilità Totale, Roma, SIPI, 1988, cap. VII, p. 156.
[68] Paracone
C., Uberto F., op. cit., cap. VII, pp. 156 ss.
[69] Paracone C., Uberto F., op. cit., ca. VII, p. 157.
[70]AA.VV., “Strategia: globalizzazione”, in sito Internet: www.liuc.it/dida/econ/program/intra/progetti/g14/STRATEGIA.html.
[71] Ibidem.
[72] Ibidem.
[73] Ibidem.
[74] Ibidem.
[75] Paracone C., Uberto F., op. cit., ca. VII, p. 161.
[76] www.st.com
[77] Ibidem.
[78] Ibidem.
[79] www.amd.com
[80] Ibidem.
[81] Ibidem.
[82] Mariotti S.,
“L’Internazionalizzazione Produttiva”, in Impresa
& Stato, n. 41, Sito Internet: www.impresa-stato.mi.camcom.it/im_41/mariotti
[83]
Brunetta R., La Multilocalizzazione
Produttiva come Strategia d’Impresa, Milano, Franco Angeli, 1983, cap. II, pp. 55 ss.
[84]
Mariotti, op. cit.
[85] Brunetta, op. cit., cap. II, p.54.
[86] Smith V. A., La Ricchezza delle Nazioni, Torino, UTET, 1950.
[87] Brunetta, op. cit., cap. III, pp. 113 ss.
[88] Brunetta, op. cit., cap. IV, pp. 205 ss.
[89] Brunetta, op. cit., cap. IV, p. 213.
[90] Ibidem.
[91] Mariotti, op. cit.
[92] Ibidem.