RIPENSANDO
TAYLOR E FORD
di Patrizio
Di Nicola
(Maggio 1991)
1. PREMESSA
Parlare, di questi tempi, di taylorismo e di fordismo
potrebbe sembrare a prima vista un'operazione di archeologia sociolavorista.
Le società avanzate si trovano in una fase del proprio
sviluppo economico che è stata definita, a secondo dei commentatori, "post
industriale", "terziaria", "neo industriale dei
servizi".
Tutto ciò, pur con alcune cautele, risponde al vero. La
produzione industriale, da attività "labour intensive" è divenuta,
grazie alla rivoluzione microelettronica ed alla progressiva sostituzione del
lavoro umano con i robot, "machine intensive". Le figure che sempre più spesso si
incontrano nelle linee di assemblaggio delle fabbriche hanno cambiato mansione: da operai massa si
sono tramutati in "conduttori di macchine" e "manutentori".
Ognuno di essi, come avvenne anche all'inizio della rivoluzione industriale in
Inghilterra allorquando vennero introdotti i telai meccanici per la tessitura,
controlla più strumenti; spesso interagisce con essi tramite sofisticatissime
reti di computers di processo.
In un sub sistema che perdendo la sua struttura a
"castello" ne inaugura una, nuova, "a rete" (Butera, 1990),
il concetto stesso della rilevazione individuale della produttività, dogma
centrale e fondamento scientifico del taylorismo, tende a divenire obsoleto.
In tempi di Total Quality Management il lavoro conta per la
"qualità" che contiene, per l'armonia con cui si pone all'interno di un progetto globale
dell'azienda. Dal taylorismo si trasla verso il toyotismo.
A ciò si affianca l'enorme importanza che assumono altri
ambiti, esterni al primario ed al secondario. Seguendo le regole
profetizzate da Clark (1940), il
terziario ha rapidamente guadagnato la supremazia occupazionale sugli altri
settori. Per padroneggiarlo meglio, gli
studiosi di fenomeni sociali ed economici hanno dovuto segmentarlo: il
terziario pubblico e quello privato, quello avanzato e quello
tradizionale. La divisione ha poi
toccato, come logico, la destinazione finale del prodotto. Ecco così che
parliamo di servizi alla produzione, di rete, alle persone. Ad alcuni sono
state attribuite valenze tutte positive, agli altri tutte negative, residuali.
Ma ragioniamo del lavoro. Su questo fronte la
terziarizzazione ha inciso profondamente. Nuove professioni sono nate, altre sono scomparse; la gran parte
si sono modificate. A volte in meglio,
altre in peggio. L'office automation,
ad esempio, ha creato poche figure ad alta specializzazione (il progettista di
reti, il database administrator) mentre ha, di fatto, standardizzato il
lavoro di milioni di impiegati molto più di quanto sia mai riuscito al vecchio
Henry Ford. Calcolare un bilancio non è
più una operazione di raffinata ragioneria: è sufficiente che, nel corso del
tempo, il data entry sia stato fatto nel modo corretto ed il programma
non abbia "bugs" per ottenere il risultato in pochi secondi.
Ma questo veramente libera l'uomo dalla parte più
spiacevole del lavoro, come pensavano gli utopisti settecenteschi ?
A quali altre attività "creative" (almeno
nell'ambito del proprio posto di lavoro) potrà dedicarsi il lavoratore
"liberato" dalla schiavitù del lavoro ripetitivo? E siamo proprio
certi che il lavoro negli uffici e nelle fabbriche informatizzate sia realmente
molto più libero di "prima" ?
Ci permettiamo di dubitarne. O almeno di rigettare una
assunzione, totalizzante, di benessere e soddisfazione generalizzata. Siamo assai lontani dalla "Città del
Sole" vagheggiata da Tommaso Campanella. Una recente ricerca condotta
sulla Fiat (Silveri e Pessa, 1990) ci fa notare che, nonostante
l'automazione, ancora oggi il tempo
medio di ciclo (l'indicatore privilegiato per la valutazione della varietà di
un job) rimane della durata di pochi minuti.
Non dissimile è la situazione in gran parte delle fabbriche
automobilistiche europee. Certo, la parcellizzazione si è ridotta, ma è
veramente scomparsa ?
Questa che viviamo è l'epoca terziaria. Gli operai e gli impiegati di fabbrica sono
una minoranza della popolazione lavoratrice. E' tempo di managers, di nuovi
professionisti, di lavori avanzati ed emergenti. Ma è anche tempo di lavori atipici, dequalificati, di
inoccupazione, di persone che hanno con il proprio lavoro un rapporto
"estraneo", che inseguono il miglioramento tra i lavori
anzichè nel lavoro (Accornero, 1990). Non che ciò sia negativo,
tutt'altro. Ma accanto ad un manager
(od ad un aspirante emergente) vi è sempre più spesso l'ombra di una
collaboratrice familiare. Nuove
professioni che generano lavori
antichi, ai più bassi gradini della considerazione sociale.
Tutto ciò rende attuale una rilettura del taylorismo e
della sua applicazione pratica, il fordismo.
Teoria che, non dimentichiamolo, fu alla base dell'industria moderna e
della produzione di massa. Originata
dall'esigenza di produrre in serie milioni di pezzi uguali utilizzando macchine
così poco sofisticate da necessitare di operatori umani. I quali dovevano divenire parti di quelle
macchine, correggerne la rozzezza. Ma
anche una teoria che, al contempo, serviva ad affermare l'importanza
socio-politica di una nuova classe di tecnici ed esperti, i moderni ingegneri
industriali, che si candidavano al ruolo di managers. Ed ha creato una frattura storica tra lavoro e controllo della
propria mansione, che sembra in parte essersi tramandata anche agli attuali lavoratori
post-industriali. Siano essi impiegati
che operai, industriali che terziari.
Un tempo il lavoro è stato parcellizzato ai fini della
massima produttività. Ora viene
ricomposto (almeno parzialmente), per ottenere il coinvolgimento del lavoratore
nella qualità dell'output, sia esso un bene che un servizio. Ma l'autonomia del
lavoratore sottoposto al controllo del processo produttivo rimane bassa e si
esprime per lo più in forme collettive anzichè individuali.
E', per dirla con Accornero, "l'evoluzione
dell'industria al di là dell'industria stessa" (1988, pag. 208).
2. I FONDAMENTI DEL TAYLORISMO
L'opera più "compiuta" di Taylor, quella in cui
esprimeva in modo diretto il suo pensiero fu presentata giusto ottanta anni fa,
durante la conferenza dell'American
Society of Mechanical Engineering del 1911. Si tratta di The Principles of
Scientific Management. ([1]) In
tale "papers" Taylor individuava lucidamente il punto debole dell'industria americana del primo 900: non
le macchine, tecnicamente idonee al lavoro in serie, ma il lavoro e la sua
organizzazione. I capitalisti dell'epoca,
infatti, conoscevano ben poco i limiti produttivi del proprio stabilimento. La produzione era, di fatto, affidata a
pochi operai specializzati, i quali, contrattata la tariffa di cottimo, spesso
assumevano direttamente i propri aiutanti e stavano ben attenti a che nessuno
superasse la produzione stabilita all'interno del gruppo (Montgomery,
1980). Cosa, questa, che avrebbe
invariabilmente portato al "taglio del cottimo". Contro queste due
pratiche antagoniste si scagliava Taylor: sia lo "speed up" che il
"soldiering" ([2]) erano
a suo avviso retaggi del passato, a-storici ed a-scientifici.
Il sistema propugnato da Taylor affrontava invece la
produzione da una angolazione diversa, manageriale. E al contempo fortemente
anti-operaia. La sapienza della
mansione lavorativa andava sottratta ai lavoratori, tutte le conoscenze circa
il lavoro andavano accentrate nella direzione d'officina. Era qui che si doveva stabilire la velocità
ottimale delle macchine e degli uomini, la procedura migliore per compiere un
lavoro (la one best way), il flusso informativo, e tutti gli altri
particolari della produzione, anche i più minuti. La direzione diveniva così il fulcro della fabbrica, intorno cui
ruotava tutto, il cuore scientifico che avrebbe garantito ai capitalisti la
massima produzione. Ma tali conoscenze andavano sottratte a chi ne sapeva di
più: in quel momento erano gli operai. Per ottenere la loro collaborazione
Taylor studiò un sistema di cottimo (definito "differenziale") ben
diverso da quelli in vigore all'epoca. Basato su compensi e penalizzazioni
"a gradini", legati al raggiungimento di determinati obiettivi, il
cottimo differenziale avrebbe permesso ai migliori (gli uomini di
prim'ordine, come li definiva Taylor) di migliorare i loro guadagni ([3]). Per contro, avrebbe portato all'espulsione
di coloro che non si piegavano alla razionalizzazione.
Sin qui, con estrema concisione, la teoria, la parte più
nota del taylorismo ([4]). La pratica era invece molto diversa. Anzitutto lo Scientific Management era
applicato in pochissime aziende, che furono disponibili a fare da cavia. E creava moltissimi problemi, sia tra i
dirigenti che tra gli operai. I primi,
infatti, non vedevano di buon occhio il lavoro dei consulenti che li privava di
una discreta fetta di potere; i secondi avversavano apertamente lo studio dei
tempi, che ritenevano poco dignitoso: "Questo fatto di avere un tale che
ti sta dietro le spalle e ti segna tutte le operazioni che tu vai facendo,
questa è una cosa che noi respingiamo nel modo più assoluto." ([5]) Nonchè
assai pericoloso, in quanto ledeva alla radice la base del potere dell'operaio professionalizzato:
l'esclusività della conoscenza delle mansioni che si svolgevano in fabbrica ([6]).
Anche il cottimo "differenziale" fu uno
strumento che, sebbene più scientifico nei presupposti che nell'applicazione,
difficilmente fu introdotto nelle fabbriche "taylorizzate". Un pò perchè Taylor predicava che esso non
andava imposto fin dall'inizio, ma soltanto dopo un accurato studio dei tempi
di tutte la attività che si svolgevano in fabbrica e comunque su base
individuale. ([7])
Soprattutto in quanto, non appena si tentava di applicarlo su larga scala,
iniziavano gli scioperi ed i sabotaggi.
Così lo Scientific Management "vivacchiava"; le
uniche parti largamente conosciute erano quelle legate agli studi di Taylor sul
taglio dei metalli, sugli acciai "rapidi" e sulla manutenzione delle
cinghie dei torni. Espedienti che, da soli, permettevano di incrementare senza
tanti problemi la produttività delle macchine utensili esistenti negli
stabilimenti.
3. OLTRE TAYLOR: IL FORDISMO
Il compito di superare i limiti del taylorismo se lo
assunse un capitalista innovatore, dotato di una "pionieristica audacia
del profitto" (Accornero, 1969, pag. 112): Henry Ford. Convinto che era finita l'era di considerare l'auto un bene di lusso,
prodotto in pochi e costosissimi esemplari, Ford decise di lanciare sul
mercato, nel 1908, una vettura per la gran massa, robusta e sicura, con un
prezzo "così basso che ogni lavoratore ben salariato sarà nella
possibilità di averne una" (Ford, 1928, pag. 87). Naturalmente il
"Model T" fu un successo senza precedenti: in tre anni ne furono
vendute oltre 36.000. Ciò portò con sè
la necessità di riorganizzare la fabbrica. Il vecchio sistema, secondo cui la
scocca della vettura era ferma e gli operai vi giravano intorno, montando i
pezzi, creava nell'officina una confusione indescrivibile, con gruppi di operai
che correvano di qua e di là alla ricerca del materiale giusto, dell'arnese
adatto. Era giunto il momento di portare il lavoro agli operai e non viceversa.
Così, nel 1913, Ford ed i suoi ingegneri (nessuno dei
quali, per inciso, era allievo di Taylor) svilupparono un sistema di trasporto
simile a quello che era in funzione, anni prima, al mattatoio di Chicago. Gli
chassis venivano attaccati ad una catena, lungo la quale si muovevano; il
montaggio, diviso in 45 operazioni, veniva effettuato in altrettante
"stazioni" ove l'autovettura si fermava per il tempo strettamente
necessario. In più, ovunque fosse possibile e conveniente, le macchine andavano
a sostituire gli operai specializzati.
In questo modo si superavano i limiti dello Scientific
Management: il capitalista, nell'opera di riorganizzazione della fabbrica, non
dipende dalla "sapienza" operaia e le norme standard per il massimo
rendimento venivano imposte collettivamente alle maestranze. (Accornero, 1969).
Nel metodo fordista, poi, non vi era necessità di raffinati cottimi: la
produttività dipendeva soltanto dalla velocità del nastro trasportatore. Certo,
per legare l'operaio alla catena era necessario offrire alte paghe in quanto,
come ha arguito Antonio Gramsci, la Ford richiedeva un consumo di forza lavoro
assai maggiore che non altrove. (Gramsci, 1975). Ma il "turn over"
non era un problema, perchè la catena permetteva l'impiego di lavoratori privi
di ogni esperienza di fabbrica. Anzi,
come affermava un dirigente della compagnia, erano proprio questi i lavoratori
che la Ford preferiva. (Arnod e Faurote, 1915).
La nuova era industriale che si apriva, caratterizzata
dalla produzione di massa (ed accellerata dallo scoppio della prima guerra
mondiale), si affermava dunque, come era logico prevedere, sulle ceneri di
quella autonomia dell'operaio di mestiere che aveva caratterizzato, con alti e
bassi, tutto l'Ottocento.
4. MESTIERI ED ABILITA' INTERSTIZIALI
Il taylorismo e, ancor di più il fordismo, hanno dunque
distrutto il mestiere operaio, come afferma Braverman (1978)?
Ci sembra assai improbabile. E ciò sia considerando la
ridottissima consistenza dei lavoratori "di mestiere" nel corso
del'Ottocento (Hobsbawn, 1972) che l'origine della classe operaia americana,
costituita per la maggior parte di immigrati provenienti dalle regioni europee
più sottosviluppate (Montgomery, 1980). Questi uomini non possedevano, nella
maggioranza dei casi, alcuna esperienza di lavoro industriale; la loro
introduzione nelle fabbriche fu resa possibile dall'altro grado di
macchinizzazione che, già all'epoca, caratterizzava le manifatture
d'oltreoceano. Agli operai comuni e semispecializzati l'addestramento
principale veniva impartito proprio dalle macchine. I cicli meccanici, già
rigidi fin dalla seconda metà del secolo, plasmavano, con il loro svolgersi, le
mansioni di chi vi era addetto. Il
fatto che l'operaio fosse capace nella sua mansione non significava certo che
possedesse l'arte meccanica o quella della tessitura, ma soltanto che,
adoperando le sue conoscenze, anche ridotte, riusciva, in assenza di norme
lavorative precise, ad autoregolarsi.
Ciononostante il fordismo ha effettivamente aumentato (e
di parecchio) la pena nel lavoro industriale. Solo che questo non è accaduto a
causa di una ipotetica distruzione del mestiere, che aveva già iniziato a
disgregarsi con l'emergere della produzione di massa e con l'utilizzo di
macchine utensili sempre più perfette, veloci e precise, molto superiori al più
bravo degli artigiani. La "disumanizzazione" del lavoro è passata attraverso
la negazione non delle capacità professionali, ma di quelle interstiziali
([8]), che
nessuno, fino a Taylor e Ford, aveva mai pensato seriamente di mettere in
discussione. La macchina, di fatto, imponeva all'operaio la mansione; ma il
gesto, il modo di muovere gli arti, la modalità di svolgimento del lavoro,
erano lasciati all'arbitrio del lavoratore. Con la direzione
scientifica, viceversa, il lavoro perdeva parte della sua fisicità; la
negazione del controllo operaio in fabbrica si incentrava sulla
standardizzazione dei movimenti e l'oggetto di studio diveniva la mansione
anzichè il mestiere. I prodotti di serie, sempre uguali a sè stessi, per
esistere richiedevano macchine specializzate ed operatori altrettanto
specializzati. Specializzati nel compiere sempre lo stesso movimento. Cioè parcellizzati.
5. CENNI CONCLUSIVI
Quella di Taylor, senza Ford, sarebbe probabilmente
rimasta una teoria inapplicabile. Il lavoratore non si sarebbe fatto
meccanizzare di sua spontanea volontà, come sperava il fondatore dello
Scientific Management. Abbandonare i propri sistemi di lavoro, espropriarsi dei
propri movimenti, è troppo duro perchè l'operaio lo accetti, anche in
cambio degli alti salari promessi. Ma
se contemporaneamente si impone un metodo tecnico di produzione che impone il
ritmo, allora la teoria diviene realtà. Per rispettare lo standard produttivo
deciso negli uffici della fabbrica l'operaio deve compiere solo ed
unicamente quei gesti prefissati e non derogare assolutamente dal tempo
standard. Lo scorrere della catena non permette all'operaio il
"lusso" di decidere come muovere gli arti. Per "stare nel
tempo" esiste un solo metodo. E quello va seguito; chi non si adegua in
poche ore o, al massimo, in pochi giorni, non è adatto al lavoro industriale.
Ma il taylor-fordismo conteneva in sè anche alcuni limiti
che in breve tempo sarebbero divenuti evidenti. Anzitutto il germe
dell'estraneazione del lavoro e dal lavoro. Per l'operaio parcellizzato,
a cui la fabbrica nega la possibilità di svolgere un lavoro, anche ripetitivo,
secondo il suo individuale ciclo vitale, la sicurezza economica e la poca
fatica divengono valori. Quando il lavoro diviene troppo penoso rispetto al
compenso che se ne ricava, il lavoratore (se le condizioni del mercato del
lavoro lo permettono) se ne va, alla ricerca di un altro impiego più
vantaggioso. Questo atteggiamento,
definito disaffection ([9]), è lo
scotto che la razionalizzazione ha dovuto subire. L'astrazione del lavoro
diviene così l'ostacolo stesso, intrinseco, all'aumento indiscriminato della
produzione.
Una seconda limitazione del fordismo, viceversa, veniva
"dall'esterno", dagli operai.
Quando la catena di montaggio, simbolo della nuova esigenza di produrre
(e guadagnare) in massa, divenne parte integrante di ogni medio-grande fabbrica
statunitense, anche i modi di opporsi alla razionalità capitalistica
cambiarono. L'operaio "senza abilità", non più subordinato al lavoro
degli specializzati ed ai contratti d'appalto, mutuò delle forme individuali di resistenza ai ritmi imposti dal nastro
completamente nuove, efficaci anche senza l'appoggio dei tradizionali sindacati
di mestiere ([10])
(Brecher, 1976). E permise la diffusione, almeno per un breve lasso di tempo,
di una organizzazione di rappresentanza di classe dei lavoratori americani, la
IWW (Dubofsky, 1969).
Così la nuova organizzazione di fabbrica mutò, per alcuni
versi, le modalità degli scioperi di massa e diede, sorprendentemente (almeno
per gli "scienziati della direzione") all'operaio alla catena
un'altissimo potere anti-produttivo. Che mai, prima di allora, aveva
posseduto.
Un ultimo, e forse il più importante limite del
taylor-fordismo, è possibile vederlo chiaramente soltanto oggi, nel momento in
cui, faticosamente, esso esce di scena. Quella di spostare tutte le
conoscenze dagli operai ai managers era soltanto una pia illusione: il ciclo
produttivo può adeguarsi e migliorare (in qualità, ma anche in quantità)
soltanto se escono dall'ombra "le conoscenze informali e i saperi concreti
dei lavoratori" (Ambrosini, 1990, pag. 77). Conoscenze che la catena di
montaggio può comprimere, ma non eliminare completamente; e che vengono
sfruttate, sotterraneamente, dall'operaio quale "ultima spiaggia" per
alleviare la fatica o per guadagnare pochi istanti di libertà dalla propria
mansione.
************************* BIBLIOGRAFIA
*********************
Accornero A. (1969), "Miscellanea su un precursore:
Henry Ford", Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 23.
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dal 1968: riflettendo sull'industria e su Torino", in P. Ceri (a cura di),
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Accornero A. (1990), "Il lavoro che cambia", Politica
ed Economia, n. 1-2.
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Brecher, J. (1976), Sciopero !, La Salamandra,
Milano, 1976,(2 Voll.)
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Milano.
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Dubofsky, M. (1969), We
Shall Be All. A History of the Industrial Workers of the World, Chicago,
Quadrangle Books.
Ford H. (1928), La mia vita e la mia opera, Apollo,
Bologna.
(ora in Henry Ford, Autobiografia, Rizzoli, Milano,
1982).
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Hobsbawm E.J. (1972), Studi di storia del movimento
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del primo 900, Rosenberg & Sellier, Torino.
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Silveri
M., Pessa P. (a cura di), (1990), L'Europa delle automibili, Ediesse,
Roma.
Taylor
F.W. (1967), L'organizzazione scientifica del lavoro, Etas Kompass,
Milano.
[1]) Tutte
le opere maggiori di Taylor sono ora raccolte in traduzione italiana in
(Taylor, 1967).
[2]) Cioè
il cercare di accellerare il ritmo, tecnica padronale ed il "segnare il
passo", metodo questo di autodifesa del lavoratore.
[3]) Ma il
miglioramento economico non era certo proporzionale all'aumento di
produttività: in Direzione d'Officina Taylor affermava che, "per il
loro stesso bene, è importante che i lavoratori non siano pagati troppo, nè
troppo poco. Se i salari sono troppo alti, molti lavorano irregolarmente e
tendono a diventare più o meno fiacchi, irrequieti e dissipatori: non è bene,
per moltissimi uomini, divenire ricchi." (Taylor, 1967, pag. 16)
[4]) Dopo
il 1900 Taylor abbandonò definitivamente l'attività di consulenza diretta, che
delegò ai suoi assistenti e si diede a pubblicizzare il suo sistema di
gestione. (Nelson, 1988)
[5]) Si
tratta di un brano della deposizione di Hugo Lueders, meccanico presso
l'arsenale di Watertown, difronte alla Commissione di inchiesta governativa sui
nuovi sistemi di direzione. Il brano è riportato in (Montgomery, 1980, pag.
143)
[6]) Anche
se, vi è da dire, i sindacati di mestiere individuarono questo aspetto del
taylorismo soltanto con grande ritardo.
[7])
"Nell'accingersi ad introdurre mutamenti, è della massima importanza che
gli sforzi della direzione siano concentrati su di un singolo individuo; nessun
ulteriore tentativo deve essere compiuto finchè non si sia arrivati ad un
successo completo con quel soggetto." (Direzione d'officina, in
Taylor, 1967, pag. 132)
[8]) Con
questo termine intendiamo una particolare forma di abitudine manuale che
permetteva all'operaio di adattarsi al lavoro, svolgendo la sua mansione nel
modo che gli era, fisicamente ed antropologicamente, più congeniale.
[9]) Cioè
il non riuscire ad amare un lavoro che, obiettivamente, non è possibile
amare.
[10]) Il
sindacato di mestiere, tra l'altro, mai si era realmente interessato della
tutela degli operai comuni.