AUTORI: M.
Carrieri
P. Di Nicola
V. Telljohann
CONTRATTAZIONE E ORGANIZZAZIONE NEI SISTEMI SINDACALI SVEDESE,
FRANCESE E TEDESCO
PAPER
PREPARATO PER LA CAMERA
DEL LAVORO
DI REGGIO EMILIA
1. Le tendenze del sindacalismo negli anni ottanta
Nel corso degli anni
settanta si era affermata una
sostanziale convergenza dei sistemi
di relazioni industriali
in Europa: questa convergenza si
era manifestata nella crescita costante della rappresentanza
sociale e dei tassi di
sindacalizzazione, nella crescita
del "potere di
minaccia" verso il sistema
politico, nella diffusione
di forme di democrazia
industriale (che condizionavano per
la prima volta
in modo diffuso i poteri degli imprenditori), nella generalizzazione (ma
con diverse eccezioni) di esperienze
riconducibili allo scambio politico o
al neo-corporativismo, che avevano toccato -anche se non in
modo duraturo- paesi
di tradizione pluralista (contrattualista) come l'Italia e la Gran Bretagna (Crouch e
Pizzorno, a cura di, 1979).
E' invece
abbastanza consolidata l'opinione che gli anni ottanta siano stati
caratterizzati dalla crescita delle
divergenze nei modelli d'azione
sindacale, che si
combina peraltro con una crescente interdipendenza delle economie europee (Streeck, 1991).
I problemi che i
sindacati debbono affrontare nei
diversi paesi sono sostanzialmente simili;
tra i principali: cambiamenti nella struttura sociale e nella
composizione dei lavoratori dipendenti, cambiamenti nell'organizzazione
della produzione in direzioni più flessibili e post-fordiste, crescente aggressività
dei manager che cercano di
"aziendalizzare" parti
consistenti delle relazioni industriali.
Eppure la
capacita' di risposta e
di reazione dei movimenti sindacali non
e' stata omogenea
nei comportamenti, ne' efficace allo stesso modo nei risultati.
Nel corso del
decennio e' aumentato il divario
tra i sindacati forti e i sindacati
deboli. Basta pensare in primo luogo ai tassi di sindacalizzazione, che hanno
continuato ad essere crescenti in paesi
come la Svezia
e la Danimarca, e a
calare in modo drammatico in
altri paesi come la Francia e la Spagna
(con tutta una varietà di
situazioni intermedie). Ma
questo e' visibile anche intorno a
importanti dimensioni qualitative. Infatti solo una parte dei
sindacati e' riuscita
a dimostrare adeguate capacita' evolutive di fronte alla nuove
sfide. Mantenendo un buon potere
di pressione verso il
sistema politico ma nello stesso tempo giocando un
buon ruolo a livello micro; esibendo capacita' di
contribuire al miglioramento delle performances aziendali, senza cadere in meccanismi di coinvolgimento manageriale (ma piuttosto aggiornando forme di partecipazione e di democrazia industriale).
Sulla base di questi criteri possiamo parlare di due
grandi fasce di sindacati :
- alla prima,
che dimostra strategie
e comportamenti più efficaci di fronte ai nuovi problemi, appartengono - con alcune differenze -
i paesi scandinavi, la Germania, e parzialmente l'Italia;
- alla
seconda, che mostra segni di indebolimento progressivo se non di vero
e proprio declino
appartengono gli altri paesi dell'Europa mediterranea, e
in certa misura
anche la Gran Bretagna.
1.1. I fattori problematici per i sindacati. L'importanza delle scelte organizzative e contrattuali
Tra le cause
che spiegano queste differenze crescenti possiamo indicarne
alcune in particolare:
a) la modificazione negli orientamenti dei governi e
degli attori pubblici divenuti più sfavorevoli per i sindacati;
b) il ciclo
politico complessivamente poco
favorevole alla sinistra (anche
se non catastrofico come sostengono alcuni);
c) la crescita di distanza nelle scelte e nei
comportamenti tra i sindacati e i partiti di sinistra in alcuni paesi.
Rispetto al primo punto si può sinteticamente
ricordare che come era stato rilevato già all'inizio degli anni ottanta l'affermazione della concertazione tra
sindacati e governi era minacciata da cambiamenti negli atteggiamenti dei governi, che erano diventati meno dipendenti
dal consenso del
sindacato. Come e'
stato possibile vedere successivamente, il declino delle politiche keynesiane si
e' accompagnato con la
crescente importanza del vincolo
esterno e del contenimento dei deficit
pubblici, che ha aumentato le
spinte a ridimensionare le spese sociali.
Le priorità pubbliche sono state accordate ai vincoli di bilancio e alla
competitività dei sistemi
economici: questo ha
reso i governi più vicini agli interessi del mondo imprenditoriale.
La riduzione delle spese sociali e
la maggiore vicinanza agli imperativi di flessibilità delle imprese ha
allontanato anche alcuni governi di sinistra dai sindacati: come e' successo tanto nel caso
francese, che in quello spagnolo (in cui i punti di attrito tra Gonzales e la stessa Ugt , vicina al Psoe,
sono stati numerosi).
Per quanto
riguarda il secondo punto la
sinistra e' rimasta al potere
negli anni ottanta in importanti paesi europei (Francia, Svezia, Austria)
ma all'interno di
un trend elettorale nell'insieme non brillante. Nel dopo 89 la crisi
irreversibile dei partiti di ispirazione
comunista non e' stata
compensata da segnali di ripresa nei paesi
socialdemocratici. Certo occorre
fare una distinzione. Questa crisi e'
molto grave nei paesi dove era stata maggiore l'influenza dei
partiti comunisti (come in Italia e in Francia) e
dove maggiori sono
i ritardi nella costruzione
di una diversa identità e
nuovi programmi. Per quanto
minore, questa crisi e' comunque seria anche negli altri paesi, nei quali -come
ha sostenuto Giorgio Ruffolo- sarebbe
necessaria una "radicale ristrutturazione" dell'identità
socialdemocratica.
Infatti
il nuovo programma
fondamentale della Spd
non ha dato immediati
vantaggi elettorali; in Gran Bretagna nonostante gli sforzi di
rinnovamento il Labour non si e' riaccreditato presso l'elettorato di
centro; nella stessa
Svezia la sconfitta elettorale del 1991 segnala l'epilogo del modello classico di riformismo in un solo paese.
Dentro queste vicende più generali una variabile importante per capire il peso dei
sindacati nei rispettivi paesi -anche
se da sola non spiega tutto -
e' quella del rapporto tra
sindacati e partiti di sinistra.
Anche un sindacato
molto forte e rappresentativo come quello danese (che e'
cresciuto anche negli anni ottanta)
senza un forte pendant politico (a
causa dell'indebolimento
della socialdemocrazia) ha
avuto una bassa influenza politica in questo periodo
e ha incontrato difficoltà crescenti
anche nella contrattazione ..
Storicamente
i due modelli prevalenti -
almeno in Europa occidentale - erano stati quello della dipendenza (praticato dai partiti comunisti
verso i sindacati
"fratelli") e quello dell'interdipendenza(costruito su
una qualche divisione
del lavoro tra sindacati
e partiti socialdemocratici di riferimento)..
Negli ultimi venti-venticinque anni questa polarizzazione si e' attenuata e
si e' complicata. Infatti il modello dell'interdipendenza, che
valorizza l'autonomo ruolo rappresentativo del sindacato, si è pressochè
generalizzato.
Con
l'eccezione della Cgt e del Pcf,
i principali sindacati e partiti in Europa si sono accostati
a regole di cooperazione e di parità di ruoli. Da questo punto di vista il caso
più esemplare di questo
avvicinamento ai modelli
socialdemocratici e' dato
dalla Cgil e dal Pci in Italia, dove addirittura al sindacato veniva
rivendicato (negli anni
70) la funzione di
"soggetto politico", in qualche modo aggiuntiva e concorrenziale con
quella svolta dai partiti.
Nello stesso tempo l'affermazione delle cosiddette tendenze neo-corporative
(cioè rapporti più sistematici tra sindacati e governi) segnava un cambiamento
nei confini classici della divisione del lavoro tra partiti e
sindacati, in quanto questi ultimi entravano sempre più nell'arena politica
(come "governi privati di funzioni pubbliche") in
precedenza occupata dai
soli partiti. Questa
ridefinizione ha comportato nuove tensioni,
ma non insuperabili.
I problemi maggiori si sono prodotti in
situazioni di pluralismo sindacale e
politico (e di conflitto tra i partiti
di sinistra): come in Italia
nei primi anni ottanta a causa dell'esplicito scontro tra Pci e Psi sui caratteri della concertazione, o in Spagna nello stesso periodo con
fasi di alta competizione tra Cc.Oo.
e Ugt che riflettevano un
analogo dissidio tra Pce e Psoe; oppure in Gran Bretagna negli anni settanta
a causa della diversità delle strategie
del Labour e del Tuc sulla politica dei redditi.
Sembra
piuttosto che si
sia accentuata una
tendenza, già segnalata in
passato dai politologi, alla
differenziazione delle basi sociali tra sindacati e partiti. Se
in passato questa era presentata
come una maggiore attenzione dei
partiti rispetto ai sindacati verso
il" centro", allo stato
attuale c'è qualcosa di più.
Soprattutto nei paesi dell'Europa
meridionale diventano importanti per i partiti di sinistra
gli elettori che non sono
ne' sindacalizzati, ne' lavoratori dipendenti. Alcuni di questi
partiti costruiscono una
rete di relazioni
e protezioni individuali, e qualche volta di tipo
"clientelare", che rendono più problematiche le tutele
collettive e le azioni
collettive del sindacato (come era successo per il Psi, il cui elettorato si è
poi spostato in prevalenza sul centro-destra, come abbiamo visto alle recenti politiche).
Sindacati e partiti di sinistra corrono il rischio di rimanere prigionieri del
conflitto sociale, tra interessi legati a
obiettivi di modernizzazione (e a miglioramenti individuali attraverso canali di mobilita' sociale) e interessi più
influenzati dal bisogno di
sicurezze e di riforme, tipico dei lavoratori
dipendenti ed espresso
da madalità d'azione collettiva.
Nei paesi
come la Germania e la Svezia nei
quali sindacati e partiti si sono posti
entrambi come obiettivo il
contemperamento e
l'intermediazione di quei
diversi interessi sembra
più possibile trovare soluzioni soddisfacenti.
In diversi paesi del
sud Europa sono cresciute le
divaricazioni tra partiti principalmente (non esclusivamente) interessati agli interessi di
modernizzazione e alle
chances di promozione individuali (come il Psoe, almeno in
parte il Ps francese, e in
Italia il Psi) e organizzazioni
sindacali risucchiate da compiti di
difesa della loro base sociale
tradizionale (anche se questa difesa
e' stata molto chiusa e senza risultati
in Francia e in altri paesi, e
ha invece comportato
maggiori capacita' di adattamento e di innovazione in Italia).
La strada
dell'interdipendenza si e'
quindi complicata già a partire dagli anni settanta.
Nello stesso
caso svedese il ruolo di anticipazione strategica giocato dalla
Lo sulla democrazia economica
(Piano Meidner del 1975) ha determinato problemi nuovi nei rapporti
con il partito rispetto alla lunga fase del "compromesso socialdemocratico". E anche negli
ultimi anni ottanta
i dissensi sindacali sulla politica fiscale del
ministro delle finanze Feldt hanno aperto la strada ad una grande caduta di consensi per la socialdemocrazia svedese.
Ma accanto a questo aspetto gli studiosi sottolineano
come la differenziazione degli interessi sociali si sia tradotta anche in
dilemmi di natura organizzativa e contrattuale.
Le linee di divisione degli interessi (anche quelli
stessi del lavoro dipendente) si sono complicate : divisioni tra settore
pubblico e settore privato, tra piccole
e grandi aziende, tra aree territoriali diverse.
Questo ha prodotto secondo alcuni la crescita di
conflitti interorganizzativi (tra Confederazioni diverse, o anche con la
nascita di nuovi soggetti extraconfederali) e intraorganizzativi (come in
diversi paesi si manifesta tra categorie dell'industrie del pubblico impiego)..
Ovviamente questo è un problema soprattutto per i
sindacati -come la Cgil- che aspirano
alla rappresentanza generale del lavoro dipendente, e che quindi sono impegnati
comunque a trovare un coordinamento tra i diversi interessi in campo. E quindi
sono molti i sindacati europei che oggi si interrogano sulla validità dei loro
modelli contrattuali e organizzativi. Che debbono fare i conti con un dato
inedito nella storia dei movimenti sindacali : quella che il sociologo tedesco
Streeck ha definito l'accresciuta eterogeneità degli interessi da
rappresentare (e che alcuni chiamano individualizzazione). Infatti storicamente
sono state le organizzazioni imprenditoriali a basarsi su interessi eterogenei
(il singolo imprenditore ha grandi margini di autonomia), mentre i sindacati
avevano situazioni interne più cose.
Questi interessi sono organizzabili da sindacati
confederali? e questa confederalità si colloca al centro o a livello
territoriale? quali sono i livelli negoziali essenziali? contano ancora
politiche concordate a livello nazionale o bisogna sempre più spostarsi verso
forme di regolazione decentrata?
Comunque sia i nodi organizzativi e contrattuali, la
selezione dei quadri dirigenti e la formazione di negoziatori capaci in ambito
micro assillano tutti i principali sindacati e sono al centro degli sforzi di
rinnovamento strategico.
Per dare un primo quadro di tendenze e di risposte su
questo dibattito e sulle scelte in corso ci siamo soffermati su tre paesi
significativi e di diversa tradizione: la Svezia, con un sindacato molto forte
e con una struttura negoziale molto centralizzata in passato; la Francia più
vicina all'Italia per la prevalenza della tradizione conflittuale e
contrattuale (ma che la debolezza sindacale ha reso più ideologia e meno
efficace); la Germania, che si colloca in una posizione intermedia, dal momento
che il sindacato ha privilegiato molto le garanzie legali, ma non ha trascurato la contrattazione di
livello regionale e settoriale.
1.2. I modelli organizzativi nei paesi considerati
TAVOLA : I sindacati svedesi.
NOME |
SOGGETTI ASSOCIATI |
ANNO DI NASCITA |
ANNO DI TERMINE |
TASSO DI SINDACALIZ- ZAZIONE 1985 |
TASSO DI SINDACALIZ- ZAZIONE 1990 |
L.a Confederazione sindacale svedese |
Operai , qualche impiegato dei servizi |
1898 |
Esistente |
55 % |
|
SAC Organizzazione centrale degli accademici svedesi |
Impiegati laureati, professori, ricercatori |
1909 |
Esistente |
6,8 % |
|
DACO Organizzazione centrale degli impiegati |
Impiegati di tutti i settori |
1931 |
1943 |
||
GAMLA Organizzazione centrale degli impiegati pubblici |
Impiegati pubblici |
1937 |
1943 |
||
TCO Organizzazione centrale dei salariati ed impiegati pubblici |
Dipendenti pubblici (impiegati ed operai) |
1944 |
Esistente |
29,2 % |
|
SR Federazione nazionale degli impiegati civili |
Dipendenti pubblici (dirigenti) |
1917 |
1973 |
||
SACO Confederazione svedese delle associazioni professionali |
Liberi professionisti |
1947 |
1973 |
||
SACO - SR Confederazione svedese delle associazioni professionali e degli impiegati civili |
Liberi professionisti e dirigenti del pubblico impiego |
1974 |
Esistente |
0,3 % (circa 15.000 iscritti) |
TAVOLA : I sindacati francesi.
NOME |
SOGGETTI ASSOCIATI |
ANNO DI NASCITA |
ANNO DI TERMINE |
TASSO DI SINDACALIZ-ZAZIONE 1985 |
TASSO DI SINDACALIZ-ZAZIONE 1990 |
CGT Confederazione generale del lavoro |
Operai , qualche impiegato, ispirazione comunista |
1895 |
Esistente |
4,4 % |
|
CGTU Confederazione generale unitaria del lavoro |
Sindacato unitario |
1920 |
1935 |
7,2 % (valori nel 1920 e 1930) |
|
FO Federazione generale del lavoro - Forza operaia |
Lavoratori riformisti, ispirazione socialista |
1948 |
Esistente |
3,5 % |
|
CFTC Confederazione francese dei lavoratori cattolici |
lavoratori cattolici, ispirazione centrista |
1919 |
Esistente |
0,6 % |
|
CFDT Federazione francese d emocratica del lavoro |
Operai e impiegati, ispirazione socialista |
1964 |
Esistente |
2,9 % |
|
CGC Confederazione generale dei quadri |
Dirigenti e quadri |
1944 |
Esistente |
0,9 % |
|
FEN Federazione Nazionale dei sindacati dell'educazione |
Personale delle scuole, istituti di istruzione ed università |
1948 |
Esistente |
? |
2. Il sindacato in Svezia ([1])
2.1. Organizzazione del tesseramento
Il sindacato svedese, coerentemente con le
caratteristiche che sono state proprie di quella società, appare, all'inizio
del 1994, ancora suddiviso secondo una logica occupazionale ben precisa. Da una
parte, infatti, abbiamo la L.O., la maggiore delle confederazioni, alla quale
aderiscono esclusivamente gli operai. Il suo tasso di sindacalizzazione, in
questo segmento della forza lavoro, è superiore al 95%. Gli impiegati, al
contrario, aderiscono (anche loro in misura molto vicino al 90%) all'altra
grande confederazione, la TCO. Se si tratta di laureati, molto probabilmente,
saranno indecisi se scegliere il loro sindacato di categoria (all'interno del
TCO) o, invece, se aderire alla SAC,
che raggruppa, organizzandoli per professione, gli accademici. In questo caso,
pur lavorando, ad esempio, nell'industria, saranno membri del sindacato degli
ingegneri o di quello degli economisti.
L'elevato tasso di sindacalizzazione si spiega in
parte con l'esistenza, in Svezia, di una decennale tradizione di governi di
sinistra (per definizione "amici": gli iscritti alla LO, sino al
1991, erano automaticamente anche iscritti al partito socialdemocratico). Non
sembra questa, però, la causa principale dell'alta sindacalizzazione dei
sindacati svedesi. Un ruolo
estremamente importante lo giocano quelle che vengono comunemente chiamate
facilitazioni istituzionali. I sindacati svedesi, infatti, amministrano
direttamente una parte del sistema di Welfare. Il fondo assicurativo contro i
rischi di disoccupazione, seppur pagato in larga parte dal padronato (e anche,
seppur in minima quota dai lavoratori stessi) viene gestito, tramite apposite
strutture, dai sindacati di categoria. Il fondo, pur essendo nazionale, è
suddiviso in circa cinquanta parti, ognuna delle quali viene amministrato da
una diversa federazione di categoria.
Secondo alcune surveys finanziate dal Work Environment
Found, la maggior parte dei lavoratori, al momento dell’ingresso in un nuovo
posto di lavoro, sottoscrivono contemporaneamente sia l'adesione al sindacato
che quella al fondo assicurativo. Ciò sebbene la legge dia possibilità di
scegliere di aderire soltanto al fondo assicurativo. Questa strada, comunque, viene seguita soltanto da una
piccolissima minoranza di nuovi addetti; ciò avviene anche per il contesto in
cui avviene l'iscrizione, normalmente il primo giorno di ingresso in azienda,
allorquando al nuovo assunto viene fatto fare "il giro" degli Uffici
che lo riguarderanno (personale, settore al quale verrà assegnato e, appunto,
ufficio del delegato sindacale).
2.2. Struttura
Seppur con alcune differenze di poco conto tra le
diverse confederazioni, i sindacati svedesi hanno sviluppato fortemente il
livello funzione categoriale e di base. La confederazione, infatti, ha un ruolo
debole nei confronti delle organizzazioni che la costituiscono. Tipicamente, a
livello di categoria, esiterà un centro nazionale al quale afferiscono tutte le
sezioni sindacali di azienda, senza alcun tipo di coordinamento sul territorio
da parte della loro federazione. Nelle aree maggiormente popolate o più
importanti (ad esempio a Stoccolma) esisteranno dei "District"
confederali, ma in posizione periferica rispetto alle categorie. Il compito dei
sindacati locali è eminentemente politico: a loro sono demandati i rapporti con
le autorità locali e l'organizzazione delle manifestazioni "rituali"
(ad esempio quella del 1° maggio).
Figura 1:
Struttura sindacale svedese.
La funzione del livello confederale nazionale si è,
negli anni più recenti, modificata profondamente. Scartata l'idea di coordinare
il lavoro dei sindacati membri (al momento sono 33 soltanto per la LO), quasi
tutte le funzioni sono state demandate ai sindacati di categoria. Rimane invece
prerogativa del livello centrale le decisioni di politica generale e la
contrattazione nazionale inerente le retribuzioni.
Tale modifica si è resa necessaria allorquando, andato
al potere il governo conservatore agli inizi degli anni novanta, sono state
enormemente ridotte le contribuzioni statali (erogate principalmente nei
seguenti ambiti: ricerca sulla coderminazione, democrazia industriale,
formazione professionale dei lavoratori). Si trattava di finanziamenti di non
piccola portata: soltanto per la LO, ad esempio, costituivano il 35% delle
entrate totali.
2.3. I quadri dirigenti
In Svezia la dirigenza sindacale, anche ai massimi
livelli, è strettamente ancorata al posto di lavoro. E’ rarissimo, infatti, che un quadro proveniente da un sindacato
di categoria possa passare ad un altra federazione. Gli unici movimenti
contemplati, infatti, sono quelli dal livello di federazione a quello di
confederazione e viceversa. Ogni dirigente, quindi, mantiene uno stretto
collegamento con i lavoratori del suo settore.
La strada che porta alla dirigenza sindacale è assai
lineare: si viene dapprima eletti nella rappresentanza aziendale (per la quale
votano soltanto gli iscritti ai sindacati), quindi si diviene, nelle fabbriche
più grandi (o in club formati da piccole aziende), rappresentanti del proprio
sindacato. I rappresentanti a tempo pieno sono, attualmente, circa 1000, la
metà dei quali pagati dai datori di lavoro. La carriera nel sindacato è su base
volontaria: contano la disponibilità ad impegnarsi del singolo, la sua
preparazione e, soprattutto, la disponibilità a lasciare l’azienda e la regione
di residenza per spostarsi a Stoccolma, ove hanno sede tutte le Federazioni
Nazionali.
Negli anni più recenti tutti i sindacati hanno
sperimentato, pur nella stabilità degli iscritti, un fenomeno di scarsa
propensione all’impegno nel sindacato. Sono diminuiti il numero dei militanti,
così come quello delle persone disponibili ad assumere incarichi di dirigenza.
Alla LO, ad esempio, non è raro dover ricorrere, per ricoprire un incarico vagante, ad inserzioni sul
giornale sindacale. A giustificare questa situazione sembra esservi sia
all’alto costo della vita a Stoccolma che, anche, il fatto che, mentre in
passato divenire funzionari sindacali era considerata da molti lavoratori come
una promozione sociale, ora viene a
mancare l’attrattività di questo mestiere, considerato non molto migliore di
altri.
Tabella: I
quadri dirigenti del sindacato svedese (LO - anno 1994)
Livello |
Numero
funzionari |
Nazionale (confederale e categorie) |
1.300 |
Locale |
800 |
Azienda (quadri full-time) |
1.000 |
Azienda (militanti) |
10.000 |
2.4. L’unità sindacale
L’unità tra confederazioni non è, in Svezia, un
argomento all’ordine del giorno. La LO, il sindacato operaio, ha da vari anni
un accordo di unità d’azione con il TCO, l’organizzazione degli impiegati.
Ciònonostante i due gruppi sono soggetti a contratti diversi, anche se la
parametrazione stipendiale è stata, con i contratti più recenti, unificata.
Questa situazione (di diversità nella
similitudine) non è stata mai realmente messa in discussione. Anche se gli
analisti che abbiamo intervistato concordano che, le crescenti ristrettezze
economiche in cui versano i sindacati non potranno, sul medio-lungo periodo,
che portare all’unità organica tra LO e TCO. A ciò si aggiunge il fatto che i
metodi di produzione moderni (in particolare la lean production e il Total
Quality Management) tendono ad uniformare sempre di più lavoro operaio ed
impiegatizio, mentre sorgono nuove differenziazioni (ad esempio quella
uomo-donna) dovute ai crescenti attacchi portati dal governo conservatore al
sistema di welfare.
2.5. Difficoltà e strategie future.
I sindacati svedesi si trovano, da pochi anni, a dover
fronteggiare un evento inaspettato: l’ascesa al governo nazionale di una
amministrazione conservatrice. Ciò ha creato, negli industriali, una forte
aspettativa di ridimensionamento del ruolo del sindacato nei posti di lavoro.
Senza tale controparte, infatti, sarebbe possibile, come nelle intenzioni dei
datori di lavoro, imboccare con maggior decisione la via della ristrutturazione
aziendale, riducendo il settore centrale della forza lavoro tramite un più
esteso utilizzo della flessibilità del lavoro. Nell’ipotesi datoriale, infatti,
il rilancio della competitività del sistema produttivo svedese dovrebbe essere
legato all’attenuazione del “modello co-decisionale”, con possibilità di
introdurre metodi di produzione ispirati al Toyotismo ed alla lean production. In questo senso, tra
l’altro, sembrano andare gli accordi (al momento sfumati) tra Volvo e Renault,
nonchè la chiusura degli stabilimenti “simbolo” dell’umanizzazione del lavoro
industriale, quello di Udevalla (già avvenuto) e quello di Gothenburg
(attualmente in serio pericolo di dismissione).
Appare oggi evidente che la crisi economica svedese,
accompagnata dalla vittoria dei conservatori, ha modificato profondamente il
sistema di gestione del mercato del lavoro nato dalle ipotesi di
Rehn-Meidner. Per utilizzare le parole
di Magnus Ryner, “la necessità di aumentare l’auto-finanziamento e la solidità
economica implicano che l’industria dovrà puntare su livelli di profitto
maggiori di quanto il modello di contrattazione
coordinata possa attualmente garantire”. ([2])
A parere di tutti gli esperti che abbiamo intervistato
il sindacato svedese molto difficilmente riuscirà a far fronte efficacemente ad
un serio attacco degli industriali, qualora appoggiati da un’amministrazione
conservatrice. Esso, infatti, è prosperato all’interno di un sistema di welfare
molto avanzato, che gli attribuiva un ruolo chiave nella distribuzione dei beni
pubblici. Ciò ha comportato, come affermato recentemente da Jens Lind
osservando il caso, molto simile, dei sindacati danesi ([3]), che i lavoratori abbiano perso, nel corso del
tempo, la sensazione di appartenere anche
ad un movimento sociale oltre che ad un apparato di welfare. Questa osservazione pare applicabile anche
al sistema svedese ove la partecipazione dei lavoratori alle attività sindacali
è generalmente bassa, l’adesione dei
lavoratori è fortemente legata alla possibilità di accedere alle indennità di
disoccupazione e a corsi di formazione professionale gestiti dai sindacati.
Ove, in ultima analisi, buona parte del finanziamento del sistema sindacale è
legata all’amministrazione congiunta di beni altrove erogati e distribuiti
direttamente dallo Stato o dalle aziende.
Nel caso svedese, quindi, ci troviamo, paradossalmente
(almeno se si considerano i tassi di sindacalizzazione come una misurazione
della forza del sindacato) di fronte ad organizzazioni di rappresentanza
strutturalmente deboli, in quanto non pensate per far fronte a situazioni di
forte scontro di interessi. Le attuali difficoltà vengono affrontate in maniera
tutto sommato contingente: alla riduzione dei budget si tenta di far fronte con
l’accorpamento delle federazioni di categoria assimilabili, con un maggiore
dualismo centro-estrema periferia (quindi ulteriore riduzione degli uffici
sindacali di zona), con la riduzione dei funzionari sindacali tramite
pre-pensionamenti e licenziamenti.
3. Il sindacato in Francia
"In questa fase di crisi il sindacalismo francese
perde iscritti, sezioni, la sua dottrina. Viene da pensare all'esercito
spagnolo ai tempi dei pronunciamenti: quadri energici, ma nessuna truppa".
L'affermazione, contrariamente a quel che si potrebbe
pensare, non è di questi giorni. E' stata scritta da Jean-Richard Bloch nel
marzo del 1911 e, meglio di qualsiasi analisi, mette in luce una delle
caratteristiche fondamentali del sindacalismo francese. Quella di aver
costituito un movimento di massa soltanto in pochissime occasioni: dopo la
prima guerra mondiale, nel 1936, all'indomani della liberazione.
Nel caso francese a poco è valsa l'ondata del '68 (che
ha visto un aumento consistente della sindacalizzazione in tutti gli altri
Paesi Europei), nè l'esistenza, negli anni Ottanta, di un "governo
pro-labour", assai impegnato, tramite le leggi Aroux, a legittimare la
presenza sindacale in azienda nella speranza di "liberare le forze vive
del Paese" ed aprire così la strada della partecipazione dei lavoratori
nelle aziende ([4]). La crisi della sindacalizzazione in Francia
(comunque il dato degli iscritti venga calcolato: sulle tessere o sul numero
dei versamenti sindacali) è talmente profonda che alcuni autori ([5]) hanno iniziato a parlare di "sindacato senza
iscritti", per la cui sopravvivenza basterebbe soltanto un nucleo piccolo
ma determinato di militanti ed un forte supporto legislativo, o di
"sindacato degli elettori", che poggia, anzichè sugli iscritti, sulla
base elettorale conquistata alle elezioni per le rappresentanze aziendali.
3.1. Organizzazione del tesseramento
Sapere con precisione quanti iscritti ha un sindacato
francese non è un'operazione agevole. Anzitutto per le caratteristiche del
tesseramento. Se si escludono le aziende ove esistono rappresentanti sindacali
(un numero che si riduce sempre di più, in quanto di pari passo alla
desindacalizzazione viaggia anche la crisi della militanza) il reclutamento dei
lavoratori è affidato alle occasioni di contatto tra questi e i sindacalisti:
tipicamente durante le assemblee o nel corso di altre azioni collettive. La
tessera viene consegnata immediatamente, senza formalità e, nella stragrande
maggioranza dei casi, gratuitamente. Il lavoratore viene in seguito contattato
di nuovo (ma questo non avviene sempre) da un collettore, che ha l'incarico di
incassare le quote dovute al sindacato. In Francia, infatti, non è affermata in
maniera generalizzata la prassi della delega al datore di lavoro. E' evidente che, passato il momento dell'azione
collettiva, assai spesso il lavoratore non abbia più alcuna intenzione di
divenire davvero iscritto al sindacato. O quantomeno, non intende contribuire
in maniera duratura alla sua
attività. Si viene così a creare una
discrasia tra il numero degli iscritti "formali" (quelli che hanno
soltanto ricevuto una tessera di adesione) e il numero degli iscritti
"reali" (quelli che contribuiscono in maniera costante). Esistono così sia "dati ufficiali"
diffusi dalle Confederazioni (per lo più in maniera saltuaria e non da tutte)
sia "stime", elaborate da vari studiosi e giornalisti tenendo conto
della regolarità dell'adesione ([6]). Groux &
Mouriaux esemplificano così la situazione della CGT: ([7])
Tabella : Gli iscritti alla CGT secondo alcune stime.
Autore della stima |
Anno |
Iscritti |
Rosanvallon |
1988 |
600.000 |
Noblecourt |
1989 |
600.000 |
CFDT |
1989 |
682.000 |
Batsch |
1989 |
800.000 |
Validire |
1989 |
500.000 |
Cours-Salies |
1990 |
515.000 |
DATO
UFFICIALE CGT |
1989 |
818.294 (*) |
(*) Di cui 198.034 pensionati
3.2. Struttura della rappresentanza
I lavoratori francesi, come noto, sono rappresentati
tramite un doppio canale: da una parte la sezione sindacale, dall’altra una
serie di comitati elettivi non coordinati, ma nati nell’arco del tempo a
secondo delle contingenze del momento e, soprattutto, aventi un mandato assai
limitato. In un’azienda francese, infatti, possono esistere ([8]):
- i Delegues du personnel, sorta di
rappresentanti di “gruppo omogeneo”, che hanno l’incarico di riportare verso la
dirigenza le lamentele individuali dei
lavoratori, di controllare il rispetto delle leggi e dei contratti nazionali e,
se del caso, chiedere l’intervento dell’ispettorato del lavoro.
- Il Comité
d’entreprise, con mansioni consultive e di co-decisione per quanto concerne
le materie assistenziali. Nei tempi più recenti ai comitati d’azienda è stato
anche riconosciuto il diritto di trattare le condizioni del personale in cassa
integrazione o di quello in via di pre-pensionamento.
Nelle aziende maggiori possono esservi anche altri
organismi, dedicati specificamente alla formazione professionale o al
trattamento economico accessorio. Di una certa importanza è la commissione per il miglioramento delle
condizioni di lavoro che, istituita sin dal 1973, nel 1982 fu unificata con
la commissione igiene e sicurezza nel lavoro.
Il doppio canale di rappresentanza, come si vede, ha,
almeno in teoria, demarcazioni nette: al sindacato viene lasciata la
contrattazione collettiva (che in Francia, a seguito delle leggi del 1982, sono
un obbligo per il padronato), mentre i vari comitati d’impresa si interessano
di materie tecniche o delle condizioni di lavoro, ma sempre su base
individuale. Nella pratica, naturalmente, esistono una serie di sovrapposizioni
di non poco conto. Anzitutto perchè, specialmente negli anni della sinistra al
potere, si è assistito a ottimi risultati delle liste sindacali: alle elezioni
dei comitati aziendali i cinque sindacati maggiormente rappresentativi
ottengono, nonostante la bassissima sindacalizzazione, il 75% delle preferenze
(ma il tasso di astensionismo è assai alto, ed aumentano i candidati non legati
ad alcun sindacato, come si vede nella figura che segue). In secondo luogo in quanto parte del
padronato, specialmente quello che doveva “impiantare” nuovi paradigmi
produttivi (i circoli di qualità, la lean
production) ha preferito scegliere come interlocutore il consiglio di
azienda, spesso usato in funzione anti-sindacale. ([9])
Figura:
Risultati delle elezioni dei Comitati d’impresa (valori percentuali) |
3.3. I militanti
I militanti, per sindacati strutturalmente dotati di
pochissimi iscritti come quelli francesi, costituiscono una risorsa
fondamentale. Ma anche un ulteriore terreno di crisi. L’alto numero di delegati
espulsi dalle aziende nella seconda metà degli anni ottanta ([10]) ha fatto sì che i sindacati francesi, fortemente
divisi tra di loro su base ideologica ([11]), si radicalizzassero ancor di più. La grande
maggioranza della classe dirigente viene selezionata per cooptazione, sulla
base dell’appartenenza e della fedeltà politica ai leaders. Questo gruppo
dirigente sindacale, che fa della risorsa “ideologica” l’elemento centrale
della propria auto-rappresentazione di fronte ai lavoratori, tende, come
affermano Groux & Mouriaux, a considerare la base sindacale come suddivisa
in tre grandi tronconi: gli iscritti, i
simpatizzanti, gli elettori. ([12]) Tale visione
discende, probabilmente, dall’accento posto dai militanti sulla semplificazione
sociologica che vede i lavoratori, sostanzialmente, come una classe omogenea
sulla quale operare non tanto per alleviare le condizioni di sfruttamento,
quanto per renderla cosciente dell’ingiustizia di tale sfruttamento.
3.4. L’organizzazione
Pierre Eric Tixier, in un saggio recente sulla CFDT ([13]) dedica una intera parte del libro alle problematiche
organizzative. Il titolo della sezione è indicativo: “Alla ricerca permanente
della <struttura ottimale>“. I maggiori sindacati francesi, infatti,
hanno mostrato una costante attenzione alla forma organizzativa. Organizzati
inizialmente in maniera semplice (centrale nazionale + sezione di azienda), a
parismo di tipo interprofessionale e uno di tipo professionale. Ma l’esistenza
di un doppio livello sindacale si risolve, quasi subito, nella moltiplicazione
delle strutture locali. A venti anni di distanza, visto l’ampio processo di
desindacalizzazione che ha svuotato di fatto di funzioni il livello confederale
regionale, il sindacato francese si trova oggi con un vestito troppo grande rispetto
alla sua taglia effettiva. Per correre ai ripari si è scelto, naturalmente, di
privilegiare il livello locale di categoria su quello confederale.
3.5. Cenni conclusivi.
I casi di cui si è accennato qui sono decisamente agli
antipodi. Da una parte abbiamo il “sindacato - movimento”; dall’altra quello
“istituzione (vedere tabella).
|
Sindacato
Movimento |
Sindacato
Istituzione |
Logica |
rapporto di forza |
gruppo di pressione |
Forme di legittimazione |
lotta, dominio, giustizia |
partecipazione dei lavoratori agli obiettivi delle
imprese |
Natura dei discorsi |
opposizione, contestazione |
pragmatismo |
Caratterizzazione |
politicizzazione o rivolta |
tendenza alla co-gestione |
Ricorso alla protesta |
costante e sistematico |
regolato e rituale |
Modo d’azione |
offensivo |
programmatico |
Tipo di conflitto |
conflitti locali multipli, spontanei e poco coordinati |
scioperi coordinati per settore e articolati tra i settori |
Forma di militanza |
volontarismo |
burocrazie locali |
Categorie sindacalizzate |
operai, settore privato, industria |
tutti i settori |
Eppure i casi della Svezia e della Francia sembrano
essere legati da un filo rosso comune. In entrambi, infatti, la vera debolezza
del sindacato sta nella debolezza delle strutture di rappresentanza a livello
di azienda. Nel caso svedese, ove il tasso di sindacalizzazione è tra i più
alti del mondo, le rappresentanze aziendali coincidono con il sindacato e si
riducono, molto spesso, a semplici terminali assistenziali. Esse hanno una
scarsa incidenza progettuale sul sindacato: tutte le loro prerogative sono
fissate per legge e, proprio per questo motivo, potrebbero essere facilmente
vulnerabili di fronte ad un attacco padronale spalleggiato dal governo
centrale. Il crollo delle strutture di fabbrica, assieme alla riduzione del
sistema di welfare, potrebbe mettere il sindacato svedese in serie difficoltà.
Nel caso francese si ha quella che possiamo definire
come la “profezia realizzata”. Alla estrema debolezza delle strutture di
rappresentanza aziendali ha corrisposto la debolezza di un sistema sindacale
tutto sommato poco interessato alla contrattazione decentrata. La lotta del
sindacato francese è “contro il sistema capitalistico”, non per migliori
relazioni industriali. Quando, negli anni Ottanta, si sono potenziate le
rappresentanze aziendali (in termini di poteri e compiti) questo non ha avuto
sulle organizzazioni alcun benefico effetto. Esse, semplicemente, hanno
iniziato a vivere “una vita propria”.
4. La struttura organizzativa del DBG è dei sindacati di categoria
Il DGB (Deutscher Gewerkschaftsbund - Confederazione
Sindacale Tedesca) è stato fondato nel 1949. La sua principale caratteristica
rispetto al modello di organizzazione sindacale della Repubblica di Weimar è il
superamento del modello di diverse confederazioni divise secondo l'orientamento
politico e la realizzazione del modello del sindacato unico. Il DGB è la
confederazione nella quale si uniscono 16 sindacati di categoria che da parte
loro sono autonomi nelle loro decisioni. Sono i potenti sindacati di categoria
ad avere il maggiore potere rispetto alle decisioni sulle questioni di
strategia sindacale in generale.
Il DGB è la confederazione sindacale di gran lunga più
rappresentativa. Oltre al DBG esistono
la DAG
(Deutscher Angestellten - Gewerkschaft - Sindacato Tedesco degli Impiegati), che organizza
esclusivamente impiegati;
il DBB
(Deutscher Beamtenbud - Associazione Tedesca degli impiegati Statali), che organizza
esclusivamente degli impiegati statali
con uno stato di funzionario e
cioè con la sicurezza di un posto di un lavoro a vita;
il CGB
(Christlicher Gewerkschaftsbund - Confederazione Sindacale Cristiana), che in realtà ha poco peso.
Il DGB come confederazione ed i sindacati di categoria
affiliati ad esso sono strutturati in un modo simile. Nei sindacati di
categoria si possono organizzare tutti i lavoratori e le lavoratrici di un
comparto di industria o di servizio. Iscrivendosi ad un sindacato di categoria
si diventa automaticamente membro del DGB.
L a struttura dei sindacati di categoria è in genere
la seguente:
La struttura di base è l'associazione provinciale
(e non aziendale!), la cui assemblea degli iscritti elegge i membri della
direzione provinciale, sia quelli a titolo onorifico, sia quelli che lo fanno
come primo lavoro. Gli ultimi svolgono un doppio ruolo: da un lato
rappresentano la struttura provinciale del loro sindacato verso l'esterno e
verso le altre organizzazioni sindacali, dall'altro lato sono sottoposti alle
decisioni e alle direttive della direzione nazionale. I funzionari a tempo
pieno che lavorano presso l'associazione provinciale sono dipendenti della
direzione nazionale e in questa qualità hanno l'obbligo di garantire, che le
direttive della direzione nazionale vengano realizzate al proprio interno, cioè
rispetto all'insieme degli iscritti a livello provinciale. Le sedi
amministrative provinciali dei sindacati ottengono in genere fra il 12 e il 25%
dei contributi degli iscritti. Un tale finanziamento permette una certa
autonomia in modo da perseguire una specifica politica sindacale a livello
provinciale.
Mentre l'articolazione della rete delle sedi
amministrative locali dei sindacati di categoria dipende dalla diffusione delle
località d'impianto e dalla loro dimensione, i confini dei territori delle sedi
provinciali del DGB in genere coincidono con quelli delle province
amministrative di una regione (Land). Nel 1987 il DGB era composto da 215 sedi
provinciali. Con il consenso della direzione regionale del DGB la direzione di
una sede provinciale può dare vita a sedi locali di cui nel 1986 ce n'erano
1.262. Queste sedi locali del DGB hanno
il compito di curare i rapporti con la base a livello di una qualità o di un
quartiere. Inoltre dovrebbero cercare di esercitare un'influenza sulla politica
comunale ai sensi della politica sindacale di rappresentanza degli interesse.
Le sedi amministrativi provinciali dei sindacati di
categoria vengono coordinati e controllati dalle direzioni regionali.
Anche in questo caso i confini delle sedi regionali
dei sindacati di categoria non coincidono con quelli delle direzioni regionali
del DGB. Le sedi regionali dei sindacati di categoria sono di grande importanza
all'interno dell'organizzazione nazionale. Ciò è dovuto al fatto che la
politica contrattuale viene effettuata dalle sedi regionali.
In alcuni sindacati di categoria la direzione
regionale viene eletta attraverso l'assemblea regionale senza che ci sia
bisogno di una conferma da parte della direzione nazionale. In alcuni altri
sindacati di categoria la direzione regionale eletta dall'assemblea regionale
deve essere confermata dalla direzione nazionale. L'assemblea regionale è
composta dai delegati che sono stati eletti dalle assemblee provinciali. Nel
caso di un conflitto fra la direzione regionale e la direzione provinciale
prevale "... l'interesse generale dell'organizzazione rappresentato dalla
direzione nazionale contro ogni egoismo regionale e locale" (Wilke 1979,,
61).
Per quanto riguarda il DGB c'è la conferenza regionale
che deve eleggere la direzione regionale.
L'organo più alto della gerarchia è il congresso
nazionale di un sindacato di categoria. I delegati vengono eletti a livello
regionale. Le singole strutture regionali dispongono di una certa quota che in
genere viene stabilita secondo il peso della struttura regionale all'interno
dell'organizzazione complessiva.
I funzionari sindacali a tempo pieno costituiscono una
parte quantitativamente molto importante. Nel periodo fra i congressi nazionali
l'organo deliberativo più alto è il consiglio generale, che in genere viene
dominato da funzionari sindacali a tempo pieno.
Il congresso nazionale elegge i membri della direzione
nazionale e stabilisce gli orientamenti e i compiti della politica del
sindacato fino al prossimo congresso nazionale. La direzione nazionale è
composta da un alto da membri che lavorano a tempo pieno per la direzione
nazionale e dall'altro lato da membri onorari. La direzione nazionale di un
sindacato di categoria è senz'altro il vero centro del potere. Essa ha il
diritto di
controllare
tutti gli altri livelli subordinati dell'organizzazione;
impartire
disposizioni;
gestire
la contrattazione collettiva;
impostare
le pubbliche relazioni;
rappresentare
l'organizzazione nel pubblico;
impostare
le attività di formazione sindacale ecc..
Il congresso nazionale del DGB che ha luogo ogni
quattro anni viene dominato dai sindacati di categoria più fori, cioè dall'IG
Metall (Sindacati dei metalmeccanici), dal sindacato per l'industria chimica,
ceramica e della carta e infine dal sindacato per il servizio pubblico, il
trasporto e il traffico. Fra i congressi nazionali la commissione federale del
DGB è l'organo più alto della gerarchia. Sia il congresso nazionale sia la
commissione federale vengono dominati da funzionari sindacali a tempo pieno.
In generale si può affermare che nel corso del
dopoguerra ha avuto luogo un processo di centralizzazione dei processi di
decisione. Ciò ha portato ad un continuo aumento del peso delle strutture
centralizzate e dei funzionari sindacati a tempo pieno.
Nel 1989 il tasso di sindacalizzazione complessivo si
aggirava su circa il 40% il DGB contava il 7,86 milioni di iscritti fra i
lavoratori le lavoratrici attive. Ciò corrispondeva a 83,1% di tutti i
lavoratori e tutte le lavoratrici organizzate.
Il resto si distribuiva su
la
confederazione sindacale cristiana (304.000/3,2%);
il
Sindacato Tedesco degli impiegati (503.000/5,3%);
l'Associazione
tedesca degli impiegati statali (793.000/8,4%).
Anche per il DGB e i suoi sindacati di categoria il
problema centrale riguarda la sindacalizzazione degli impiegati. Mentre nel 1987 più della metà di tutti i
lavoratori e le lavoratrici erano impiegati, ciò non si rispecchiava nella
struttura degli iscritti ai sindacati uniti nel DGB: solo il 22,8% degli
iscritti erano impiegati.
Sempre nel 1987 la quota delle donne iscritte ai
sindacati di categoria del DGB si aggirava sul 23,1%.
Nel 1982 invece il tasso di sindacalizzazione
complessivo ha raggiunto il 40,4%. Ai sindacati di categoria del DGB erano
iscritti 11,02 milioni di lavoratori e lavoratrici. Questo numero corrispondeva
ad un tasso di sindacalizzazione del 34,2%. Il tasso di sindacalizzazione delle
altre tre organizzazioni si aggirava complessivamente su 6,2 %. Il sindacato di
categoria più grande rimane l'IG Metall con 3,93 milioni di iscritti (1993:
3,15 milioni di iscritti).
Per quanto riguarda la presenza dei sindacati di
categoria in azienda questa si verifica su due binari secondo il sistema duale
di rappresentanza a livello aziendale. Da un lato esiste il consiglio di
azienda che è previsto dalla legge sullo statuto aziendale, dall'altro lato c'è
il fiduciario, che è una figura strettamente sindacale senza nessun diritto
formale di rappresentanza degli interessi o di contrattazione.
4.1. Il consiglio di azienda
Il consiglio di azienda come struttura di
rappresentanza degli interessi di tutti i dipendenti di un'azienda previsto
dalla legge non è una struttura sindacale né subordinato al sindacato.
Comunque, anche se per legge il
consiglio di azienda è cosa diversa rispetto al sindacato, di fatto la loro
cooperazione è assai stretta. Ciò è anche dovuto al fatto che in genere circa i
due terzi dei membri de i consigli di fabbrica sono iscritti ai sindacati di
categoria del DGB.
La legge sullo statuto aziendale (BetrVG) del 1952
prevede che il consiglio di azienda è obbligato
alla pace sociale in azienda;
alla neutralità politica e
alla collaborazione fiduciosa con l'imprenditore.
Il consiglio di azienda può opporsi ad un
provvedimento del datore di lavoro solo se ci sono i presupposti di una delle
fattispecie previste dalla legge.
E' inoltre proibito che il consiglio di azienda
invochi degli scioperi.
Dall'altro lato la legge sullo statuto aziendale
stabilisce anche i diritti di codeterminazione. Ci sono comunque delle materie
(per esempio le questioni che riguardano il personale o o decisioni economiche)
dove il consiglio d'azienda non ha un effettivo diritto di codeterminazione ma
solo un diritto di informazione o di
partecipazione (diritto di proposta).
La riforma della legge sullo statuto aziendale del
1972 estende i diritti di codeterminazione soprattutto nel campo delle
questioni sociali (87 BetrVG) e di licenziamento ( 102 betrVG).
Ai sensi del
87, c, 1, n.6 BetrVG (legge sullo statuto aziendale), il consiglio di azienda
ha diritto di codeterminare riguardo a "introduzione e utilizzazione di
strumenti tecnici destinati a controllare il comportamento o la prestazione dei
lavoratori". Se il contrasto di
opinioni tra consiglio di azienda e datore di lavoro non è superabile, la
decisione spetta ad un collegio di conciliazione di composizione paritaria con
un presidente naturale, che per lo più (anche se non sempre) è giudice del
lavoro.
La prassi è però diversa rispetto al quadro giuridico.
Non tutti i consigli di azienda sono in grado di sfruttare a pieno tutte le
possibilità offerte dalla legge. E ciò non dipende soltanto dai rapporti di
forza tra consiglio di azienda e datore
di lavoro, ma anche dalla competenza tecnica specifica che si ha in materia.
Al consiglio di azienda non è attribuito alcun diritto
generale di codetrminazione. Ai sensi
del 91 BetrVG, esso può soltanto pretendere un'adeguata riparazione nel caso in
cui non ci sia "manifestatamente" tenuto conto di norme di comune
esperienza in materia di lavoro". Può dirsi per esperienza in materia di
lavoro", arrecando così al singolo
dipendente un danno "particolare". Può dirsi per esperienza
che una norma del genere è quasi applicabile.
Maggiori possibilità di intervento sono offerte dalle
regole del BetrVG in materia di "composizione di interessi" e di
"piano sociale". L'introduzione "di metodi lavorativi e di
processi produttivi radicalmente nuovi", così come una "radicale modificazione
dell'organizzazione aziendale", rappresentano ai sensi del 111 parte 2,
una cosiddetta modificazione aziendale, che può costituire oggetto di una
"composizione di interessi", che ha ad un oggetto la decisione
imprenditoriale in quanto tale, non può essere realizzata coattivamente; il
"piano sociale" è all'occorrenza ottenibile coattivamente da parte
del collegio di conciliazione, ma può avere ad oggetto soltanto la
compensazione o l'attenuazione dei danni di natura economica.
Nel 1989 il governo federale è riuscito ad imporre
un'altra modificazione della legge sullo statuto aziendale. Le modificazioni
prevedono fra l'altro
il prolungamento della durata della carica del
consiglio di azienda da tre o quattro anni;
il rafforzamento della tutela delle minoranze;
l'introduzione di strutture particolari di
espressioni e degli interessi per i dirigenti.
Tutte queste modificazioni mirano ad indebolire
l'unità dei consigli di azienda.
4.2. Il sistema dei fiduciari
La risposta dei sindacati alla neutralità del
consiglio di azienda voluta dalla legge era la costruzione di un sistema di
fiduciari. Visto i limiti definiti dalla legge e visto anche il fatto che il
consiglio di azienda deve essere una struttura che rappresenta l'insieme dei
lavoratori e delle lavoratrici di un'azienda i sindacati ritenevano necessario
fondare una struttura che fosse in grado di rappresentare e promuovere la
politica a livello aziendale.
Il fiduciario viene eletto dagli iscritti di un gruppo
di lavoratori e lavoratrici di un reparto. L'insieme dei fiduciari di una
azienda costituisce il cosiddetto "corpo di fiducia". Nella prassi i
fiduciari non hanno quasi nessuna autonomia di azione. In sostanza sono il
braccio aziendale delle sedi provinciali o regionali dei sindacati di
categoria. Hanno la funzione di stabilire un collegamento fra la base aziendale
e l'organizzazione sindacale eterna. Può anche succedere che i fiduciari si
dedicano a sostenere il consiglio di azienda nel suo lavoro.
Le imprese in genere hanno sempre cercato di
ostacolare la diffusione del sistema dei fiduciari. Negli ultimi anni ci sono
stati anche dei casi che la legittimità dei fiduciari viene riconosciuta da
contratti collettivi.
4.3. LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Il sistema delle relazioni industriali della
Repubblica federale tedesca è caratterizzata da un dualismo che vede da una
parte il sistema di autonomia tariffaria, cioè di contrattazione collettiva, e
il sistema delle relazioni industriali a livello aziendale dall'altra parte.
Tutti e due i sistemi sono caratterizzati da una forte regolazione giuridica.
Il sistema di contrattazione collettiva comprende
la
contrattazione;
la
mediazione fra interessi contrastanti (il raffreddamento);
lo
sciopero.
Tutti e tre i livelli di regolazione sono, in misura
diversa, materia di norme giuridiche. Articolo 9 (3) della costituzione
garantisce la libertà di coalizione e la autonomia tariffaria. La legge sul
contratto tariffario del 1949 stabilisce i presupposti della contrattazione
collettiva.
Un imprenditore legato al contratto collettivo si
potrebbe limitare ad applicare le norme di questo solo ai membri del sindacato.
Visto che un tale comportamento probabilmente porterebbe anche i non iscritti
ad aderire al sindacato, l'imprenditore in genere applica il contratto
collettivo a tutti i dipendenti. In certi casi è anche possibile che avvenga
l'applicazione della regola "erga omnes" da parte del Ministro del
Lavoro e degli Affari Sociali.
Per quanto riguarda lo sciopero non esiste un diritto
esplicito di sciopero. Un tale diritto viene solo dedotto dalla libertà di coalizione.
E' stata la giurisdizione che ha definito meglio il diritto di sciopero.
Secondo la giurisdizione lo sciopero può essere organizzato solo dal sindacato
e solo per richieste che possono essere materia di un contratto collettivo,
cioè richieste che riguardano la retribuzione e le condizioni del lavoro. Lo
sciopero può essere dichiarato solo dopo che il periodo di "obbligo di
pace" è terminato e tutti i tentativi a livello di contrattazione sono
falliti.
Prendendo l'esempio del settore metalmeccanico i
contratti collettivi possono essere stipulati a livello
di
un'impresa o di un gruppo (per esempio all Volkswagen);
di una
regione;
federale.
Contratti collettivi a livello di impresa o di gruppo
in genere vengono stipulate con imprese o gruppi
che non fanno parte delle associazioni
imprenditoriali. La maggior parte dei contratti collettivi vengono comunque
stipulati a livello regionale.
Esistono tre tipi di contratti collettivi:
a) i
contratti collettivi che riguardano le retribuzioni;
b) i
contratti collettivi quadro riguardanti le retribuzioni;
c) i
contratti collettivi quadro riguardante le condizioni del lavoro.
Mentre i primi hanno una durata di un anno gli altri
due tipi di contratti collettivi hanno una durata più lunga, in genere di
cinque anni.
La contrattazione collettiva viene eseguita dalle
direzioni regionali dei sindacati di categoria. Per la contrattazione viene
nominata una commissione tariffaria che in genere è composta da membri dei
consigli di azienda e dan funzionari sindacali (a tempo pieno) delle sedi
provinciali e regionali.
5. Il sistema contrattuale francese
La struttura contrattuale francese è stata per lungo
tempo la più simile a quella italiana,
sia nei livelli contrattuali previsti, che nella carenza di una precisa
divisione di funzioni (cosa sulla quale l'Accordo triangolare ha invece
introdotto maggiori procedure nel nostro sistema).
Infatti i livelli contrattuali previsti e praticati
sono tre:
- il livello "interprofessionale" (che
corrisponde al nostro interconfederale);
- il livello di branche o di categoria;
- il livello aziendale.
Nel corso degli anni ottanta le scelte fatte in
materia di rigore economico hanno portato all'eliminazione di indicizzazioni.
Ma i lavoratori delle qualifiche più basse hanno la protezione di un Salario
minimo (la cui sigla in francese è Smic) che è pienamente indicizzato (ma che
appunto non riguarda tutti i salari, ma solo i minimi). In altri termini il
salario non può scendere al di sotto della soglia dello Smic, che è fissato ed
aggiornato periodicamente dal governo. Da notare che lo Smic non deve essere
confuso con un reddito minimo garantito, perchè al contrario di questo (che si
applicherebbe anche ai disoccupati), esso protegge solo i lavoratori
dipendenti. La presenza dello Smic serve anche a controbilanciare la tendenza alla riduzione dei salari
contrattuali per i lavoratori con le qualifiche più basse: infatti erano
numerose le categorie in cui almeno un livello salariale era al di sotto dello
Smic.
Il livello interprofessionale si è specializzato su
materie normative e qualitative, mentre gli altri due livelli regolano la dinamica salariale e gli
incrementi retributivi.
A livello interprofessionale si sono conclusi negli
ultimi anni significativi accordi in tema di generalizzazione della quarta
settimana di congedo retributivo, pensioni integrative e mensilizzazione del
salario operaio. E' un livello molto attivo in materia di politica
occupazionale, orario di lavoro e contratti formativi.
Storicamente il livello contrattuale più significativo
è stato quello di categoria, che coincide con l'ambito nazionale, anche se non
mancano casi in cui si contratta in sede territoriale (regionale o
dipartimentale). La prevalenza del livello di categoria è dovuta a diversi
fattori. La tradizione culturale e contrattuale francese, la struttura
organizzativa
che prevede un debole decentramento territoriale, la
debolezza dei sindacati nei luoghi di lavoro(compensata come abbiamo visto
dalle strutture elettive, che non sono sindacali ).
Proprio per questa ragione quando la sinistra ha
conquistato il governo (elezioni presidenziali e legislative del 1981) si è
dedicata a rafforzare i diritti delle organizzazioni sindacali e a promuovere
l'attività contrattuale. Nel 1981-82 sono state approvate così le più
importanti leggi lavoristiche dell'intera V Repubblica, paragonabili per impegno e complessità al nostro Statuto
dei Lavoratori (le leggi Auroux, dal nome del Ministro del lavoro dell'epoca).
Una di queste leggi (legge del
13.11.82) si occupa specificamente del problema della diffusione della
contrattazione. Con essa viene previsto l'obbligo, civilmente sanzionato, e
gravante sulle organizzazioni che hanno già sottoscritto accordi, di riunirsi
una volta l'anno per negoziare sui salari in ogni categoria.
Si tratta di quell'obbligo a negoziare di cui
si è discusso -in modo ipotetico e poco stringente- anche in Italia nel corso della trattativa sul costo
del lavoro. Come è noto quell'accordo è stato raggiunto proprio quando il
Ministro del lavoro ha rassicurato la Confindustria sulla non obbligatorietà
del secondo livello di contrattazione.
Nel caso francese questo obbligo è stato invece
introdotto -data la debolezza sindacale nei rapporti di forza- per
incentivare i datori di lavoro a
contrattare annualmente i salari (cosa che può essere fatta alternativamente a
livello di categoria o di impresa).
Gli effetti di questa innovazione legislativa sono
stati per così dire a chiaroscuro.
Infatti da un lato ci sono stati sicuramente degli
aumenti significativi di tipo quantitativo. Nel senso che -come testimoniano i
dati elaborati dal Ministero del lavoro- sono aumentati i rinnovi in corso
d'anno sulle materie salariali della contrattazione di categoria (la
progressione è stata costante nel periodo 1987-92). Ma anche la contrattazione
a livello d'impresa -tradizionalmente gracile- ne ha ricevuto un impulso
consistente. Tra l'altro viene segnalato uno spostamento verso il basso -in
ambito aziendale- dei negoziati
salariali. Questo deriva anche da una
serie di vincoli e strozzature che sono presenti a livello nazionale e
centrale: la politica di rigore perseguita dai governi, la scarsa capacità di
mobilitazione a livello "generale" dei sindacati, la riduzione dei
differenziali salariali prodotta dalla contrattazione nazionale. Tutto questo
ha aperto nuovi margini per aggiustamenti retributivi a livello micro.
Va però considerato un altro lato della medaglia.
L'obbligo a negoziare per funzionare efficacemente dipende -specie in ambito nazionale- dalla forza e
dall'insediamento delle organizzazioni sindacali. Proprio questo aspetto è
carente nel caso francese. Le organizzazioni sindacali sono troppe, deboli,
divise e questo viene solo parzialmente compensato dalla vitalità dei Consigli
d'azienda (che non hanno poteri contrattuali). Quindi in sostanza l'obbligo a
negoziare ha prodotto un'estensione dell'attività contrattuale periodica, ma
non una sua piena generalizzazione.
Durante il
primo periodo di governo di centro-destra (1986-88; ma anche le
legislative dell'anno scorso hanno dato il successo alla coalizione moderata) è
stata introdotta una legge
sull'"interessement": che significa nella sostanza modalità di
"partecipazione economica" che vengono incentivate dall'intervento
pubblico (con agevolazioni fiscali), ma demandate alla libera contrattazione
tra le parti. Di queste modalità si è parlato anche in Italia, come una delle
possibili ricadute dell'Accordo del 23 luglio
in materia di specializzazione della contrattazione decentrata. I
meccanismi previsti dall'ordonnance(decreto) francese sono quelli classici di
partecipazione ai risultati: partecipazione ai profitti, partecipazione agli
incrementi di produttività, o di redditività delle imprese (come recita anche l'Accordo italiano). Come
effetto della legge si è verificato un fortissimo incremento in numero assoluto
delle esperienze di interessamento
nelle aziende francese (son praticamente più che raddoppiate). Ma al di
là dei numeri assoluti si tratta ancora di una percentuale minoritaria di aziende che sperimenta queste
modalità di erogazione (variabile) del salario.
Vanno infine ricordati due aspetti decisivi
nell'analisi del caso francese:
- il primo riguarda la debolezza organizzativa e il
pluralismo patologico dei sindacati: i sindacati "rappresentativi" a
livello nazionale sono troppi (Cgt, Cfdt, Fo, Cftc, Cgc) e divisi da opzioni
politiche piuttosto che associativo-sindacali. Essi hanno un modesto
decentramento organizzativo, apparati molto ridotti e pochi militanti in
azienda (dato che è solo parzialmente compensato dalla presenza dei Comitati
d'impresa). La conseguenza è che i sindacati contano poco sul piano generale,
non incidono sulle politiche regionali, e non riescono a dare impulso alla
contrattazione (che spesso è condotta in azienda da elementi extrasindacali);
- il secondo aspetto si riferisce al ruolo spesso
assorbente dei governi, che si sostituiscono spesso e volentieri (grazie a una
tradizione statalista efficientista) a parti sociali deboli e che si parlano
poco. Il ruolo dei governi è stato decisivo per esempio nelle politiche di
rigore economico: i dipendenti
pubblici, i cui salari sono spesso decisi per decreto e senza negoziato, sono
stati i più controllati, ed infatti le loro retribuzioni sono cresciute meno
che nel settore privato per tutti gli anni ottanta. I governi contano molto, e
questo vale sia nel senso di assicurare coerenza ed efficienza ai comportamenti
di tutti, che nel senso di un eccessivo dirigismo.
5.1. Il sistema contrattuale svedese
Per tradizione il sistema svedese è molto centralizzato tanto sul piano
organizzativo (dove però vanta una presenza forte e capillare) che sul piano
contrattuale.
Infatti il livello contrattuale che ha prevalso -nella
determinazione delle retribuzioni- per diversi decenni fino agli ottanta è
stato quello interconfederale . Infatti le organizzazioni centrali
(confederali) dei sindacati e dei datori di lavoro in base a questo schema
prendono parte a trattative di tipo centralizzato, che stabiliscono accordi
salariali validi per i diversi settori dell'economia.
Contrariamente a quello che pensano molti queste
trattative non erano triangolari, cioè
non implicavano l'intervento diretto al tavolo da parte del governo (se non
nella veste di datore di lavoro). Si trattava piuttosto della definizione di
quella che potremmo chiamare una politica dei redditi bilaterale (cioè con
due soli soggetti).
Per lungo tempo l'indirizzo di fondo nella politica
dei redditi è stato impresso dagli incontri centrali tra la confederazione
dell'industria LO e la Saf (la Confindustria svedese). I risultati di questi
incontri si traducevano nei cosiddetti "accordi cornice", che
tracciano le linee della dinamica salariale per il periodo successivo (in
generale da uno a tre anni). Gli accordi veri e propri vengono poi sottoscritti
nell'ambito dei settori (o anche delle
imprese più grandi) dai sindacati e dai datori di lavoro direttamente
interessati. Nella pratica i contratti seguono le indicazioni generali degli
accordi cornice , e li traducono in termini più dettagliati e più inerenti le
specifiche situazioni settoriali o aziendali. A livello aziendale l'applicazione
dei contratti non limita ulteriori contrattazioni salariali, che si sviluppano
sia formalmente che informalmente.
L'efficienza di questo sistema era collegato
soprattutto alla capacità del sindacato di interpretare in modo corretto le
spinte che venivano dal mercato (dalle imprese) senza scontentare i lavoratori.
In altri termini erano due le variabili più
importanti:
- una era collegata
al consenso dei lavoratori , e quindi dipendeva dai benefici
anche differiti (Welfare, piena occupazione etc.) che i sindacati offrivano,
oltre che dall'equità sostanziale dei
differenziali salariali previsti per i diversi gruppi di lavoratori. Il pilastro di questa impostazione è stata
la politica di solidarietà salariale che si basava sull'omogeneità dei
trattamenti retributivi per i lavoratori che svolgevano mansioni analoghe.
Questo significava chiedere un sacrificio di solidarietà ai lavoratori delle
imprese più redditizie, i quali dovevano di fatto rinunciare a maggiori
incrementi salariali (o per meglio dire dovevano moderare le loro richieste).
La politica salariale solidaristica , caratterizzata dalla propensione a
favorire i lavoratori meno pagati, aveva ridotto le differenze di retribuzione
tra lavori dello stesso tipo, o quei dislivelli dovuti alla discriminazione tra
i sessi, alle differenze di capacità di pagare tra le imprese, o a rigidità del
mercato del lavoro;
- la seconda , strettamente connessa, riguardava la capacità di tenere sotto controllo quelli
che vengono chiamati gli slittamenti salariali , cioè gli adeguamenti
salariali di livello aziendale che vanno a formare la retribuzione effettiva
percepita dai lavoratori. Il fenomeno dello slittamento si produce quando gli
accordi centrali sottostimano la dinamica dell'economia e le possibilità di
spesa delle singole imprese. Mentre c'è uno slittamento aziendale considerato
fisiologico (che sta ad indicare un
certo grado di flessibilità aziendale), quando esso cresce significa che le
organizzazioni centrali non sono state capaci di interpretare correttamente le
domande dei lavoratori(sempre nelle rispetto delle compatibilità economiche da
rispettare per mantenere competitive le aziende). Il coordinamento salariale
(che significa anche coordinamento efficace degli interessi) si produce meglio
in questo quadro quando la LO arriva ad un accordo preventivo tra i sindacati
di settore affiliati sul livello e la distribuzione degli aumenti salariali,
cioè quando si verifica la formulazione di una politica salariale concordata
.
Non bisogna
dimenticare d'altro canto che a livello d'impresa al di là della contrattazione
salariale il sindacato svedese si è impegnato da lungo tempo a negoziare
aspetti qualitativi importanti: le innovazioni tecnologiche, i cambiamenti
organizzativi, in generale l'organizzazione . Grazie anche al sostegno delle
leggi prodotte negli anni settanta su vari aspetti dell'"umanizzazione del
lavoro" sono state condotte
esperienze, di carattere contrattuale e aziendale, tra le più avanzate ad
esempio in materia di coprogettazione
delle innovazioni tecnico-organizzative.
Nel corso degli ultimi anni il sistema svedese è stato
sottoposto a tensioni interne e a cambiamenti, che potrebbero essere accentuati
dal governo neo-conservatore insediatosi dopo le elezioni del 1991.
E' emersa una tendenza a limitare la centralizzazione
classica della politica dei redditi. Una tendenza a ridisegnare la struttura
contrattuale di cui sono portatori diverse parti del sistema: il mondo
imprenditoriale, che mira a decentrare in ambito aziendale la gestione delle
relazioni industriali; le categorie industriali più forti, come i
metalmeccanici, intendono ridiscutere i parametri della solidarietà salariale a
vantaggio dei propri membri; i dipendenti del settore pubblico, che per tutti
gli anni ottanta sono aumentati di numero e di peso (e che si organizzano nel
TCO) rivendicano maggiore autonomia contrattuale e miglioramenti salariali più
in linea con le retribuzioni del settore privato.
E' quindi in atto un assestamento che dovrebbe portare
a disegnare un volto più decentrato del sistema contrattuale: anche se questo
vorrà dire rinunciare di conseguenza alla coesione sociale che era garantita
dalla centralizzazione contrattuale (quando funzionava).
6. Alcune tendenze di sviluppo
Nella Repubblica Federale Tedesca il sistema di
relazioni industriali probabilmente è cambiato in modo meno evidente che negli
altri Paesi europei. Ciononostante, sono stati introdotti nel sistema alcuni
elementi che, pur senza mettere in discussione i suoi principi fondamentali,
hanno costituito la base per diverse novità interessanti.
In seguito alla vittoria dei cristiano-democratici e
dei liberali alle elezioni del 1982 le condizioni per lo "scambio
politico" tra governo e sindacati sono peggiorate; ciò ha costretto i
sindacati a concentrarsi su obiettivi che potessero essere conseguiti con la
contrattazione collettiva.
Allo stesso tempo si assiste ad un passaggio o un
trasferimento di competenza della contrattazione collettiva agli attori di
livello aziendale (direzione e consigli di azienda) rappresenta tuttavia un
allentamento del sistema di negoziazione tipicamente accentrato, esistito fino
a ieri nella Repubblica Federale Tedesca.
La contrattazione a livello di azienda è stata
rafforzata specialmente quando si trattava di decidere su contenuti qualitativi
di contrattazione collettiva e sull'orario di lavoro.
Visto la diversificazione della modalità di assunzione
e di impiego della forza lavoro diventa comunque sempre più difficile di
realizzare un modello di rappresentanza degli interessi ad orientamento
universale. Emerge oggi una esigenza di regolamentazione specifica per ogni
posto di lavoro, che non può essere più previste da grandi contratti negoziali
a livello di settore. L'ambito delle relazioni industriali aziendali è stato
esteso a livello di impianto ed è possibile che in futuro questo tipo di
relazioni industriali possa svolgere un ruolo determinante.
Hanno anche avuto luogo cambiamenti dalle numerose
iniziative nel campo della partecipazione sollecitata dagli imprenditori. La
tendenza verso i circoli di qualità e il lavoro di gruppo con responsabilità
delegata non solo sta godendo di maggiore popolarità fra le teorie di gestione
aziendale e del personale, ma ha causato anche un aumento del numero delle
aziende che introducono nuove forme di partecipazione. Quando dirigenti
dell'organizzazione e del personale mostrano un crescente interesse per i
concetti di "gruppo ", sembrano che stiano invadendo il terreno
altrui; dopo tutto, il concetto di lavoro di gruppo e dei gruppi parzialmente
autonomi ha sempre costituito parte integrante dei programmi sindacali di
"umanizzazione del lavoro" degli anni sessanta e settanta .
Nel caso odierno, i modelli propugnati dagli
imprenditori mirano ad una partecipazione di carattere strumentale, il cui
obiettivo è di stimolare le risorse produttive e motivazionali dei lavoratori.
Se le direzioni aziendali possono o no conseguire la
partecipazione dei lavoratori all'interno o all'esterno della rappresentanza
istituzionale degli interessi dipende in gran parte dal coinvolgimento dei
sindacati nelle varie aziende e dal potere dei consigli di azienda. Nei settori
in espansione e nel settore impiegatizio si tende a perseguire forme elastiche
di partecipazione a controllo direttivo e di natura consultativa. Laddove le
direzioni non possono ignorare la rappresentanza legale dei lavoratori,
accetteranno di usarla come strumento per i propri fini, cercando di
coinvolgere formalmente i consigli di azienda.
I sindacati intravedono il pericolo che la
rappresentanza collettiva dei lavoratori possa essere scalzata da un
coinvolgimento diretto dei lavoratori e delle lavoratrici. Per questo motivo,
da una parte cercano di assicurare che i consigli di azienda abbiano influenza
sulle forme dirette di coinvolgimento dei lavoratori; dall'altra hanno avanzato
una loro rivendicazione di codeterminazione sul posto di lavoro: un'istanza che
il sindacalismo di sinistra sta avanzando da anni.
Il coinvolgimento diretto dei lavoratori e delle
lavoratrici fa parte integrante di una più vasta strategia di gestione del
personale, tesa a sviluppare e rafforzare la parte centrale della forza lavoro.
Tale strategia è appagata dalla deregolamentazione in materia sindacale
realizzata dalla coalizione di governo. Una conseguenza diretta di questa
tendenza è stata l'espansione del mercato del lavoro secondario, ovvero il
continuo aumento del numero di persone con contratti non tutelati dalle
relazioni industriali collettive.
Nonostante la peggiorata situazione socioeconomica e
politica sembra che i sindacati siano riusciti di difendere sostanzialmente il
loro potere contrattuale. Ci sono comunque dei problemi che rendono lo sviluppo
futuro del potere contrattuale più incerto.
1. L'alto numero dei disoccupati e la crescente
percentuale di disoccupati di lunga durata costituiscono un onere per le
funzioni di solidarietà dei sindacati. La questione riguarda i tipi di
interessi verso i quali deve orientarsi la politica di contrattazione
collettiva e con i quali i gruppi sociali si debbano portare avanti gli
obiettivi contrattuali. La riduzione dell'orario di lavoro settimanale è stata
fissata dai sindacati come obiettivo contrattuale soprattutto nell'interesse
dei disoccupati e dei lavoratori minacciati dalla disoccupazione; i sindacati
hanno utilizzato il conflitto industriale per conseguire questo obiettivo.
2. I cambiamenti strutturali socioeconomici hanno
portato ad una ristrutturazione a lungo termine della composizione della forza
lavoro. Per i sindacati, il declino delle vecchie industrie comporta ala
perdita di un fonte importante di
iscritti. I gruppi di lavoratori in espansione tendono ad essere quelli che
hanno rapporto meno stretto con l'organizzazione sindacale. Tra le industrie
tradizionali e quelle nuove esistono altri settori che sono stati trasformati
dall'ondata di modernizzazione e che ora sono datati delle più sofisticate
tecnologie. In queste industrie i sindacati godono ancora di un grosso
sostegno, specialmente da parte degli operai qualificati. Ciononostante, non si
può nemmeno prevedere che questo nuovo tipo di lavoratori qualificati,
emergenti in queste industrie, aderiscono quasi automaticamente ai sindacati,
come in effetti è accaduto per i tradizionali lavoratori industriali. Ed ancora
più difficile è organizzare il gruppo eterogeneo e fluttuante dei lavoratori
periferici, che sta attualmente crescendo.
3. La natura sempre più eterogenea degli iscritti al
sindacato e, al contempo, la necessità di ottenere e rappresentare gruppi con
poteri contrattuali diversi sul mercato del lavoro non solo rende più onorosi
gli sforzi di reclutamento dei sindacati, ma mette anche in discussione la
politica tradizionale di cantrattazione accentrata e universalistica. Il
tradizionale obiettivo sindacale dei salari e condizioni di lavoro
standardizzati mediante regole comuni si trova davanti a un dilemma dovuto, da
una parte, ai diversi interessi dei vari gruppi di lavoratori e, dall'altra,
agli svariati sforzi degli imprenditori per conseguire una maggiore
flessibilità. Una sua possibile soluzione può essere trovata nel decentramento
della rappresentanza degli interessi e nel passaggio della competenza di
contrattazione agli attori di livello aziendale.
4. Altri gravi problemi per i sindacati sorgono
dall'offensiva manageriale. Sempre più diffusi i concetti di lavoro di gruppo
flessibile e le offerte di partecipazione che vengono posti in alternativa alle
istituzioni di democrazia industriale. Quella che viene definita "gestione
delle risorse umane" mira oggigiorno a costruire una fedeltà del personale
e un'integrazione normativa dei lavoratori centrali, con una politica che cerca
di disaffezionare i lavoratori dalle loro organizzazioni e dai loro dirigenti.
Dopo tutto, il collante che fino ad oggi ha tenuto insieme i sindacati era
costruito dal fatto che le masse lavoratrici erano relativamente indifferenti
alle questioni concernenti il lavoro; in altre parole, esse erano
strumentalmente orientate sul proprio lavoro. Le strategie attuali di gestione
del personale tendono invece ad una "subordinazione ideologica" degli
operai e degli impiegati centrali; ci si aspetta che questi si impegnino
emotivamente e interamente per la realizzazione degli obiettivi aziendali, in
modo da assicurarsi la garanzia sociale e l'integrazione nell'impresa.
Per il futuro le organizzazioni sindacali dovrebbero
concentrarsi di più sul compito di fornire i consigli di azienda di alcuni
servizi necessari per la loro attività di rappresentanza. E' anche prevedibile
che di conseguenza i soggetti a livello aziendale diventeranno le figure
centrali nella regolamentazione e nell'amministrazione delle relazioni
industriali. In questo caso le relazioni industriali perderebbero ovviamente
parte della loro trasparenza, fino ad oggi dominante grazie alle tradizionali e
prevalenti strutture di contrattazione accentrata.
Già oggi, almeno nel settore privato, si sta offrendo
una diversità di modelli di relazioni industriali a livello di fabbrica.
Possono essere:
a) aziende con una forte rappresentanza sindacale e
consigli aziendali sindacalizzati con una struttura di relazioni industriali
bilaterali (sia collaborativa che antagonistica);
b) aziende con una duplice struttura di rappresentanza
istituzionale dei lavoratori (consigli di azienda) e di coinvolgimento diretto
dei lavoratori e delle lavoratrici;
c) imprese esenti da sindacalizzazione con una
sofisticata gestione del personale.
Questi tre tipi di relazioni industriali si incontrano
soprattutto nelle grandi aziende; nelle piccole e medie imprese si nota una
diversità ancora maggiore, perché in esse sono di regola le relazioni informali
e plasmate di volta in volta.
7. Un primo bilancio conclusivo
Gli ultimi anni hanno confermato che le
difficoltà di strategie dei sindacati
si traducono anche in incertezze nella scelta dei modelli organizzativi e contrattuali (che sono tra loro
strettamente collegati) più efficaci.
Ma sulla base di questa analisi dei cambiamenti e
delle tendenze quali sono i sistemi che hanno dato o possono dare migliore
prova di sé?
Dieci anni fa era diffusa tra gli studiosi la
convinzione che funzionassero meglio i sistemi più centralizzati, in quanto
assicuravano un maggiore coordinamento degli interessi(e quindi il sistema
svedese era quello che godeva di migliore salute).
In realtà nella fase attuale quasi nessuno propone più
un modello simile (nonostante abbia continuato a dare buona prova anche negli
anni ottanta nei paesi di piccole dimensioni del Centro e del Nord Europa).
Quasi tutti concordano sul fatto che gli interessi sono troppo differenziati e
legati a situazioni locali o micro
perchè possano essere organizzati secondo i vecchi schemi.
Tra gli scienziati sociali sono in molti a convenire
sul fatto che negli ultimi anni sia stato il sistema tedesco (pur non privo di
problemi) ad assicurare la migliore combinazione dei due nodi-chiave:
-quello di favorire un buon grado di decentramento
di poteri in modo da avvicinare i sindacati alle realtà d'impresa o
territoriali nelle quali si prendono decisioni rilevanti;
- quello di permettere nello stesso tempo un buon
grado di coordinamento tra gli interessi e le strutture organizzative,
perchè se viene meno la funzionalità (e l'esigenza) della centralizzazione, non
viene certo meno (e anzi forse si rafforza)
quella di trovare un equilibrio giusto per le diverse rivendicazioni
presenti nel mondo del lavoro.
Il sistema svedese e quello francese presentano
problemi in qualche caso opposti.
Per quanto riguarda la Svezia la tradizione (anche
culturale e di classe) alla centralizzazione rende più difficile una
riconversione organizzativa, che sia in
maggiore sintonia con i caratteri della flessibilità dell'economia (e
dell'affermazione delle tecniche produttive post-fordiste). Ma il sindacato
svedese ha dalla sua una forte robustezza organizzativa e una presenza
capillare nei luoghi di lavoro (con una sindacalizzazione massiccia dei
colletti blu). Quindi i suoi punti di partenza -e le garanzie legali, oltre
all'insediamento sociale-sono talmente elevati da ridurre il costo (che pure
c'è) delle rigidità organizzative e della ricerca di un nuovo assetto
contrattuale.
Nel caso francese
l'accentramento decisionale più che una scelta è stata una necessità.
Dovuta alla gracilità degli apparati sindacali, al numero ridotto dei
militanti, alle cifre esigue dei
tesserati nei luoghi di lavoro. In realtà questa debolezza strutturale rende i
sindacati esposti a livello centrale nei riguardi del governo, e a livello
d'azienda nei riguardi delle controparti(con il solo contrappeso dei Comitati
d'impresa). In queste condizioni sono state di fatto impraticabili tanto la
scelta del decentramento che quella del coordinamento: hanno prevalso
frammentazione e poteri limitati ,e prevalentemente difensivi, in ambito micro.
Per quanto riguarda il sistema tedesco di relazioni
industriali si può dire che esso si sia avvantaggiato di scelte fatte in
precedenza, come il piccolo numero di organizzazioni di categoria affiliate al
Dgb, o la presenza di una struttura confederale non troppo
"stringente". Questo ha consentito al sindacato di avvantaggiarsi in
una situazione mutata e caratterizzata da maggiore
"aziendalizzazione" delle relazioni tra le parti. Riuscendo a
garantire un buon coordinamento tra i
diversi gruppi sociali, perchè non si è
basato su uno strumento confederale troppo centralizzato, come invece
nel caso svedese. Ed è riuscito a garantire un maggiore decentramento delle
decisioni, grazie al peso delle sue strutture regionali-settoriali, e un
avvicinamento alle realtà aziendali, rompendo le vecchie rigidità che
impedivano formalmente la contrattazione aziendale.
Queste considerazioni non ci consentono ancora di
arrivare a delineare modelli organizzativi e contrattuali ottimali, in quanto
la ricerca di assetti più definiti è ancora in corso, e bisogna anche tener
conto dell'influenza che avranno le regole fissate dalla Comunità europea.
Possiamo però fare un catalogo dei requisiti che
consentono-possono consentire-ai sindacati nella fase attuale di consolidare la loro forza.
Un primo requisito che veniva sottolineato in
passato riguarda la capacità del sindacato di trarre i
maggiori benefici possibili per sè e per i propri membri dal rapporto con il
sistema politico e istituzionale. I sindacati che hanno avuto migliori rapporti
con i governi (vicini), o hanno gestito direttamente pezzi di poteri pubblici
(in materia di mobilità, sussidi di disoccupazione, formazione, etc) sono
quelli che hanno avuto la capacità di mantenersi forti anche quando i rapporti
sul mercato (la contrattazione) sono divenuti più sfavorevoli. E proprio grazie
a questa "rendita" di partenza negli anni ottanta c'è stato un
aumento del divario tra sindacati: da un lato quelli più "forti"
(concentrati soprattutto nell'Europa settentrionale e centrale) divenuti in qualche caso ancora più forti(almeno sul
piano della sindacalizzazione), e alcuni altri indebolitisi fino al declino.
Ovviamente possono esserci grossi problemi quando governi o istituzioni
pubbliche mettono in discussione le prerogative conquistate dal sindacato : è
quanto si sta verificando in Svezia con il governo neo-conservatore, che
potrebbe avere grossi effetti di spiazzamento sulla tradizione organizzativa
della LO e della TCO (e indebolire la sindacalizzazione).
Un secondo
requisito è quello che potremmo
definire recupero della confederalità in ambiti diversi da quello
nazionale. Si tratta quindi di valorizzare l'azione di aggregazione e
coordinamento degli interessi a livello locale o territoriale. Questo per
esempio è un obiettivo praticabile a livello italiano per una Camera del
lavoro, ed è -almeno parzialmente-l'insegnamento che ci deriva dall'esperienza
tedesca di "abbassamento" del livello contrattuale all'ambito
regionale-settoriale.
Un terzo requisito riguarda il numero e l'estensione delle
strutture di rappresentanza di base. Se
il primo requisito risulta importante ai fini dell'espansione della forza
sindacale(e infatti se ne avvantaggiano i sindacati con più del 60% di
sindacalizzazione), questo invece sta risultando sempre più decisivo ai fini
del mantenimento della presenza sindacale specie in una fase di
"decentramento" o "localizzazione" delle relazioni
sindacali. Ovviamente questo insediamento organizzativo dipende anche da
sostegni legali (il nostro è uno dei pochi sistemi senza un legge che
disciplini questa materia) e dalla capacità dei sindacati di utilizzare le
strutture di base (che spesso non hanno funzioni direttamente
"sindacali" e "contrattuali") come una risorsa in più: per
avere dei quadri(selezionarne di nuovi), dei terminali, e orientare il processo
negoziale. Questo dato è sostanzialmente presente in tutti e tre i paesi
esaminati e rende più ottimisti sul futuro dell'azione sindacale. Ed è questa
la ragione dell'importanza nel caso italiano della elezione e generalizzazione
delle Rsu.
Un quarto
requisito che integra il precedente può essere definito la profondità
dei poteri spettanti alle rappresentanze di base, in quanto la loro forza
-e la possibilità di consolidarsi nel tempo- è collegata anche alle funzioni
che queste hanno o riescono a svolgere. Per questo è importante che gli
organismi di base abbiano poteri
negoziali, anche informali, e diritti di tipo partecipativo, perchè sono questi
che aiutano il radicamento organizzativo del sindacato. In questo senso tutti i
paesi considerati indicano la tendenza
delle strutture di base a espandere il loro ruolo e la loro influenza.
Bibliografia
Daubler, W., Lecher, W. (19919: Die Gewerkschaften in
den 12 EG-Landern.
Gewerkschaftsbewegung. Koln.
Keller, B. (1991): Einfuhrung in die Arbeitspolitik.
Munchen.
Muller- Jentsch, W. (1986): Soziologie der
industriellen Beziehungen. Frankfurt/New York.
Wilke, M. (1979): Die Funktionare. Apparat und Demokratie im Deutschen Gewerkschaftsbund. Munchen.
[1]) Le note che seguono sono il frutto di una serie di interviste fatte da chi scrive a studiosi e sindacalisti svedesi. Si ringraziano, in particolare: Rudolf Meidner, uno dei padri di quello che viene attualmente conosciuto come il “sistema svedese”, Lars Starkerud, del dipartimento di politica economica della L.O., Casten Van Otter, Birger Viklund e Magnus Sverke dell’Arbetslivscentrum di Stoccolma.
[2]) J. Magnus Ryner, The Economic “Success” and the Political “Failure” of Swedish Social Democracy in the 1980’s, Arbetslivscentrum, Research Report, n.1, 1993.
[3]) Jens Lind, Trade Unions: Social Movement or Welfare Apparatus?, paper presentato alla conferenza dell’Irec “Trade Unions: Designers or Dedicated Followers of Fashion”, Bruxelles, 21-23 Aprile 1994.
[4]) Jean Aroux, " Libérer les forces vives du pays", Le Monde, 12 ottobre 1981.
[5]) Si veda, ad esempio, Pierre Rosanvallon, La question syndicale, Paris, Calmann-Levy, 1988; Maurice Croisat & Dominique Labbé, La fin des syndicats ?, Paris, L'Harmattan, 1992.
[9]) Yves Delamotte, “Workers Participation and Personnel Policies in France”, International Labour Review, n. 127, 1988.
[10]) Groux & Mouriaux, nel volume curato dal G. Bibes & R. Mouriaux (Les syndicats européen à l’épreuve, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1990) citando dati del Ministero del lavoro affermano che nel triennio 1985-87 sono stati licenziati dalle aziende francesi circa 35.000 rappresentanti del personale, 883 sindacalisti e 23.000 delegati.
[11]) La rottura del patto di azione tra CGT e CFDT nel 1980, ad esempio, è stata fortemente indotta dai disaccordi esistenti tra PCF e Partito Socialista.
[12]) Ivi, pag. 61.
[13]) Pierre Eric Tixier, Mutation ou declin du syndicalisme ? Le case de la CFDT, Paris, Puf, 1992.