Patrizio Di Nicola

Sociologo

 

 

 

 

 

QUALE FLESSIBILITA’ ? LAVORO ATIPICO E PART-TIME IN ITALIA E IN EUROPA

 

 

(Marzo 1995)

Pubblicato su Economia e Lavoro

 

 

 

 

INDICE

 

 

 

                                1. Premessa

                                2. L'impresa flessibile

                                3. La flessibilità dei mercati del lavoro in Europa

                                4. Il caso italiano

                                5. Flessibili e interinali

                                6 Cenni conclusivi

                               

 


QUALE FLESSIBILITA’ ? LAVORO ATIPICO E PART-TIME IN ITALIA E IN EUROPA

 

 

1. PREMESSA

 

Una peculiarità delle società moderne è rappresentato dallo sviluppo di attività che mettono in crisi il modello di "lavoro subordinato standard".  Costruzione questa che, seppur recente, aveva finito per identificarsi nel lavoro tout court (L. Pero, 1990, A. Accornero, 1994).  Molti dei nuovi lavori, specialmente quelli terziari, sono "atipici" rispetto a tale modello generale. Essi mancano, con varie articolazioni,  di alcune caratteristiche che hanno connotato il lavoro dipendente, quali la retribuzione legata alla disponibilità temporale del lavoratore e la continuità ed esclusività della prestazione.   I fattori che hanno contribuito, anche in Italia, allo sviluppo dei lavori atipici (Chiesi, 1990) sembrano essere principalmente cinque:

                a) richiesta di flessibilità da parte di chi offre il lavoro. Si tratta di una tendenza spesso sottovalutata, ma che, specialmente negli anni più recenti, ha assunto un discreto peso. Se guardiamo infatti i dati statistici disponibili per l’Italia (tabella 1) notiamo che quasi un disoccupato su cinque è alla ricerca di un lavoro che offra qualche forma di flessibilità oraria, sia esso sotto la veste di lavoro autonomo ed auto-diretto che di impiego dipendente a tempo parziale. Per specifici segmenti del mercato del lavoro (ad esempio le donne disoccupate in condizioni non professionali, quali le casalinghe)  la quota di chi aspira ad un’attività “libera”, almeno sotto il profilo della regolarità della prestazione e della sua adattabilità alle proprie disponibilità individuali, supera il 33%.

 

Tabella 1:  Tipo di occupazione preferita dai disoccupati. Italia, 1992

                                (valori in migliaia)

 

                                                                                Maschi                                                                   Femmine

Disoccupati

In cerca di prima occupazione

Altre persone in cerca di lavoro

Disoccu-pati

In cerca di prima occupazione

Altre persone in cerca di lavoro

Totale

Lavoro indipendente

2

2

106

1

1

84

197

Dipendente esclusivamente a tempo pieno

133

283

33

88

263

156

957

Dipendente esclusivamente a tempo parziale

8

19

9

15

26

77

154

Dipendente preferibilmente a tempo pieno

70

143

15

69

169

91

557

Dipendente preferibilmente a tempo parziale

9

21

9

23

35

86

183

Senza preferenze

75

224

64

58

184

146

751

Totale

297

692

238

254

678

640

2.799

Fonte: Istat, 1994b

 

 

                b) riduzione del grado di tutela del lavoro dipendente (l'espansione dei contratti di formazione e di quelli a tempo determinato ne sono un esempio) ([1]);

                c) la particolare modalità di "offerta" dei servizi, specialmente di quelli privati destinati alle famiglie e alle imprese, che richiedono orari lavorativi non standard;

                d) l'importanza del fattore umano nel successo aziendale: si pensi alle imprese di pubblicità, alle software houses, alle organizzazioni di "engineering". Tutti lavori in cui conta più la creatività individuale che non la regolarità della prestazione;

                e) il fenomeno della plurioccupazione che, specialmente nei lavori autonomi del terziario, rappresenta una buona quota dell'occupazione, come si vede dalla tabella 2 che segue.

 

Soprattutto, comunque, ha pesato la spinta alla flessibilizzazione che proveniva dalle aziende, sia prese singolarmente (aumento dei contratti aziendali che prevedono forme atipiche di orario o di prestazione - si pensi alle sperimentazioni di telelavoro in corso -) che in forma associata.

 

 

Tabella 2: Lavori regolari e seconde occupazioni nei servizi destinabili alla vendita. Italia, 1993.

Lavoratori regolari

Secondo lavoro

Rapporto percentuale

Unità di lavoro indipendenti

 

3.159.900

 

660.300

 

20,9

Posizioni lavorative indipendenti

 

3.159.900

 

1.650.700

 

52,2

Fonte: nostra elaborazione su Istat, 1994a

 

 

Lo sviluppo dei lavori atipici non è solo e necessariamente l’espressione di una “forza positiva” che attraversa il mercato del lavoro, come sostiene una certa retorica datoriale. La crescita di attività non standard, infatti, è stato anche alimentato dall‘esistenza di fasce di lavoratori strutturalmente "deboli" sul mercato. E’ il caso, come mostra la tabella 3, delle donne (che in percentuali sensibilmente superiori agli uomini sono destinatarie di lavori part-time), ma anche degli occupati a tempo determinato che, indipendentemente dal sesso, in oltre il 40% dei casi svolgono anche un lavoro di durata (e con retribuzione) ridotta. E sommano, così, una doppia forma di flessibilità che, oggettivamente, può in alcuni casi essere agevolmente definita come “precariato”. Questo spiega, tra l’altro, l’ampio differenziale esistente tra il numero di lavoratori che, svolgendo un’attività part-time vorrebbero averne una full-time e quelli che, nella condizione opposta, aspirano invece ad un lavoro a tempo parziale (figure 1 e 2)([2])

 

 

      Tabella 3 :  Occupazione permanente, temporanea, a tempo pieno e a tempo parziale. Italia, 1992

                                                                (Valori percentuali)

 

                                Agricoltura                                          Industria                               Servizi                                   Totale

Permanenti

Tempo-ranei

Permanenti

Tempo-ranei

Permanenti

Tempo-ranei

Permanenti

Tempo-ranei

Maschi

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

Tempo pieno

96,6

50,1

99,3

70,0

98,7

64,4

98,8

62,8

Tempo parziale

3,4

49,9

0,7

30,0

1,3

35,6

1,2

37,2

N.

(x1.000)

966

139

5.019

195

7.391

235

13.376

569

Femmine

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

Tempo pieno

87,9

38,9

93,5

72,1

92,9

52,9

92,7

51,8

Tempo parziale

12,1

61,1

6,5

27,9

7,1

47,1

7,3

48,2

N

(x1.000).

486

158

1.556

81

4.878

355

6.920

594

 

Fonte: nostra elaborazione su Istat, 1994b

 

 

 

 

Fonte: Fondazione Europea, 1993

 

 

 

 

 

Fonte: Fondazione Europea, 1993

 

 

2. L'IMPRESA FLESSIBILE

 

Le imprese sono state particolarmente rapide nell'utilizzare la perdita di rigidità del lavoro che ha caratterizzato gli anni Ottanta, nonchè ad adattarsi alle nuove condizioni strutturali del mercato del lavoro che anche loro avevano contribuito a costruire.  Si è così in breve tempo creato un mercato della domanda e dell'offerta di lavori "non standard", impensabile soltanto un decennio prima.  In questo contesto si afferma quella che è stata definita dall'Institute of Manpower Studies impresa flessibile (J. Atkinson, 1986).  Secondo tale analisi l'impresa moderna adatta e modifica il proprio "output" (sia in termini di volume che, soprattutto, in termini di coerenza con le richieste provenienti dall'utenza) sfruttando la flessibilità interna del mercato del lavoro;  il modello organizzativo su cui essa è basata è riportato nella figura 3.


fig3

 


 

Alla base del costrutto teorico  vi è una distinzione basilare tra i diversi aspetti della flessibilità.  E' possibile infatti distinguere tra flessibilità numerica, funzionale e di remunerazione.  La prima consiste fondamentalmente nel "calibrare" la quantità di occupati tenendo conto della situazione congiunturale della domanda. I metodi per ottenere la flessibilità numerica sono molti, ma tutti basati sull'uso di lavori atipici (a termine, part-time, ad interim, ad obiettivo). L'impresa flessibile adotta quindi una organizzazione del lavoro che le permette di adoperare estensivamente i lavori non standard allo scopo di mantenere sempre il giusto numero di dipendenti, qualsiasi siano le fluttuazioni della domanda. 

La flessibilità funzionale, al contrario di quella numerica, si basa sulla adattabilità dei lavoratori per far fronte a modifiche qualitative delle richieste di mercato, oppure indotte dalla tecnologia o da cambiamenti nelle strategie aziendali. Tale forma di flessibilità dipende strettamente dalle abilità e dalla volontà cooperativa dei lavoratori (involvment, commitment). Il terzo aspetto della flessibilità, quello legato alle retribuzioni, può essere considerato "di supporto" ai primi due, in quanto in grado di differenziare tra di loro i lavoratori sulla base delle prestazioni individuali anzichè della qualifica. ([3])

L'impresa flessibile, secondo tale modello, è  costituita da un nucleo centrale ("core group") di lavoratori garantiti e tutelati che assicurano la flessibilità funzionale. Per Atkinson (1986, pag. 14) essi sono generalmente maschi, lavorano a tempo pieno con un contratto di durata illimitata, sono portatori di professionalità considerate strategiche per l'azienda e non risultano immediatamente sostituibili in caso di defezione.  Attorno al nucleo centrale si snodano due anelli di forza lavoro definiti periferici ed esterni. Il primo anello, che ha il compito di assicurare la flessibilità numerica, è costituito da dipendenti che svolgono lavori di routine, non critici dal punto di vista aziendale e quindi facilmente rimpiazzabili.  L'aggiustamento alle condizioni di mercato è assicurato all'azienda dal rapporto di lavoro di cui essi sono detentori: part-time, contratti a termine, job sharing, interim. Non a caso è costituito principalmente da lavoratori giovani e da donne.  Il gruppo più esterno è anche il più eterogeneo: in esso possiamo trovare, ai due estremi, sia addetti alla pulizia che consulenti di altissimo livello. La caratteristica del gruppo è di essere detentori di abilità (o disabilità) professionali che l'azienda non intende possedere al proprio interno, ma di cui non può fare a meno. A secondo della tipologia del lavoro svolto (nonchè delle condizioni del mercato) gli "esterni" possono essere utilizzati per incrementare la flessibilità numerica o per supportare il "core".

Ai diversi tipi di lavoratori corrispondono anche diverse metodologie formative e di arricchimento delle conoscenze professionali: per i lavoratori centrali la formazione fa parte dell'attività lavorativa, per quelli periferici vige l' on job training, tipicamente svolto nell'azienda a spese della collettività; il gruppo esterno, infine, non ha alcun supporto formativo, anche se in alcuni casi la loro possibilità di lavoro è legata all'altissimo livello di know-how posseduto ([4]).

Il modello appena illustrato, tra i vari pregi, possiede quello dell'adattabilità alle diverse situazioni aziendali e nazionali.  Inoltre, sembra essere una delle rappresentazioni più aderenti alla struttura di alcune moderne aziende terziarie, specialmente di quelle di piccola-media grandezza dedicate ai servizi alla produzione e di rete.

 

3. LA FLESSIBILITA’ DEI MERCATI DEL LAVORO IN EUROPA

 

Il mercato del lavoro nelle diverse nazioni europee è o meno contraddistinto da un’elevata flessibilità? La domanda, tutt’altro che retorica, avrà, a seconda degli interlocutori, risposte ben diverse. I datori di lavoro, in qualsiasi nazione essi operino, diranno, prendendo a paragone gli Stati Uniti d’America, che il mercato europeo è scarsamente flessibile, imbrigliato in “lacci e lacciuoli” che rendono difficile alle aziende adattare il proprio assetto all’andamento della domanda. Inoltre porteranno a sostegno della loro tesi le molte leggi che tutte le nazioni hanno sviluppato per garantire un adeguato livello di protezione della manodopera contro i licenziamenti (Statuti di vario genere, ammortizzatori sociali, ecc.). I rappresentanti dei sindacati, viceversa, affermeranno che la de-regulation che ha caratterizzato le politiche pubbliche nel corso degli anni Ottanta ha portato ad un “imbarbarimento” del mercato del lavoro, ove figure sempre meno garantite in senso classico (lavoratori a termine, giovani con salari “d’ingresso”, telelavoratori, ecc.) sono andati a sostituire ampie fette di occupazione stabile. Ambedue, seppur entro alcuni limiti, hanno una parte di ragione: nell’ambito dell’Unione europea i due fenomeni coesistono. Da una parte vi è stata una indubbia flessibilizzazione dell’occupazione per far fronte, almeno in parte, alle pressanti richieste datoriali; dall’altra la tenuta di una tradizione di gestione sociale del mercato del lavoro, che garantisce ai dipendenti una serie di garanzie delle quali si potrebbe fare a meno soltanto in prossimità di una situazione di “quasi-piena occupazione” (M. Emerson, 1991).

Attraversando l’Ue, però, le situazioni nazionali che si incontrano sono assai differenziate. Alcuni paesi (come il Regno Unito, ad esempio) espongono alti livelli di flessibilità nell’uso della manodopera; altri (come l’Italia e le nazioni mediterranee in genere) in cui prevalgono le rigidità. Ma come vengono costruiti, tipicamente, i vari indici descrittivi della rigidità/flessibilità del mercato del lavoro? La gran parte degli studi parte, invariabilmente, dalla quota di lavoratori a tempo parziale presenti nelle diverse nazioni. Essendo questa la modalità di lavoro atipico più diffusa (nonchè quella per la quale si dispone delle maggiori informazioni statistiche cross-national), è giocoforza adottarlo come lo stimatore di maggior importanza per analizzare il fenomeno.  Una breve osservazione condotta su tale variabile (vedere tabelle 4 e 5) ci fornisce un primo quadro sulla flessibilità. In Europa, nel 1991, il lavoro a tempo parziale interessava oltre 13,5 milioni di lavoratori, per la grandissima maggioranza (oltre l’80%) donne.  Il part-time, quasi ovunque, coinvolge tra il 2 e il 4% della manodopera maschile e oltre il 20% di quella femminile. Fanno eccezione Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, ove le occupazioni a tempo parziale sono pochissimo sviluppate e, su un altro versante, Danimarca, Olanda e (seppur in misura ridotta) la Gran Bretagna, nelle quali il part-time interessa in maniera consistente anche gli uomini.


 


Tabella 4: Il lavoro part-time in Europa

Valori assoluti e percentuali

Belgio

Danimarca

Germania

Grecia

Spagna

Francia

Irlanda

Italia

Lussemburgo

Olanda

Portogallo

Regno Unito

EUR 12

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

v.a.

%

Maschi

1985

33

1,8

105

8,9

192

1,4

32

2,6

*

*

280

2,8

11

2,1

234

2,4

2

2,5

226

7,7

*

*

479

4,0

*

*

1986

38

2,1

114

9,2

206

1,5

31

2,6

*

*

325

3,2

14

2,8

217

2,2

2

1,9

190

6,1

24

1,3

521

4,4

*

*

1987

38

2,1

120

9,8

191

1,3

25

2,1

91

1,6

329

3,3

16

3,1

243

2,6

*

*

436

13,2

28

1,5

594

5,0

2111

3,4

1988

38

2,1

117

9,3

217

1,5

28

2,3

78

1,3

319

3,2

19

3,8

262

2,7

2

1,9

465

14,2

30

1,6

653

5,3

2228

3,6

1989

33

1,8

122

9,9

253

1,7

27

2,1

63

1,0

345

3,3

17

3,4

234

2,5

2

1,8

495

14,8

18

0,9

556

4,6

2165

3,4

1990

40

2,2

132

10,8

317

2,1

24

1,9

65

1,0

320

3,1

18

3,6

208

2,1

2

1,8

506

14,7

29

1,5

604

5,0

2265

3,5

1991

40

2,2

133

10,9

338

2,2

21

1,7

69

1,1

335

3,2

19

3,7

239

2,5

*

*

542

15,5

31

1,6

638

5,4

2405

3,8

Femmine

1985

227

23,2

460

44,2

2632

29,1

46

8,3

*

*

1579

21,0

36

12,7

421

8,6

7

16,1

791

51,0

*

*

4133

44,5

*

*

1986

255

25,2

468

42,7

2675

29,2

44

7,8

*

*

1737

22,5

37

12,4

286

7,7

7

16,5

804

49,8

90

8,1

4236

44,8

*

*

1987

274

26,6

472

42,8

2676

29,0

46

8,0

289

12,8

1736

22,5

44

14,0

441

8,7

9

18,1

1006

56,0

100

8,7

4625

44,5

11718

28,6

1988

277

26,1

477

42,1

2822

30,0

46

7,4

310

12,5

1839

23,5

48

15,3

485

9,3

7

15,2

1064

56,1

108

8,8

4431

44,0

11914

28,8

1989

305

28,0

452

40,6

2919

30,4

44

6,8

300

11,1

1886

23,6

49

15,3

531

10,0

8

16,4

1142

58,4

101

7,7

4530

43,5

12267

28,9

1990

330

29,3

443

39,1

3552

33,6

39

5,7

329

11,3

1914

23,6

55

16,4

509

9,2

8

16,6

1179

57,7

97

7,1

4545

43,1

13000

29,3

1991

368

30,5

433

28,3

3651

34,0

32

4,8

323

10,6

1968

23,6

59

17,2

552

9,7

9

18,4

1274

58,6

92

6,5

4569

43,7

13330

29,5

Numeri indici

Belgio

Danimarca

Germania

Grecia

Spagna

Francia

Irlanda

Italia

Lussemburgo

Olanda

Portogallo

Regno Unito

EUR 12

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

%

n.i.

Maschi

1985

1,8

8,9

1,4

2,6

2,8

2,1

2,4

2,5

7,7

4,0

1986

2,1

9,2

1,5

2,6

3,2

2,8

2,2

1,9

6,1

1,3

4,4

1987

2,1

62

9,8

288

1,3

38

2,1

62

1,6

47

3,3

97

3,1

91

2,6

76

0

13,2

388

1,5

44

5,0

147

3,4

100

1988

2,1

58

9,3

258

1,5

42

2,3

64

1,3

36

3,2

89

3,8

106

2,7

75

1,9

53

14,2

394

1,6

44

5,3

147

3,6

100

1989

1,8

53

9,9

291

1,7

50

2,1

62

1,0

29

3,3

97

3,4

100

2,5

74

1,8

53

14,8

435

0,9

26

4,6

135

3,4

100

1990

2,2

63

10,8

309

2,1

60

1,9

54

1,0

29

3,1

89

3,6

103

2,1

60

1,8

51

14,7

420

1,5

43

5,0

143

3,5

100

1991

2,2

58

10,9

287

2,2

58

1,7

45

1,1

29

3,2

84

3,7

97

2,5

66

0

15,5

408

1,6

42

5,4

142

3,8

100

Femmine

1985

23,2

44,2

29,1

8,3

21,0

12,7

8,6

16,1

51,0

44,5

1986

25,2

42,7

29,2

7,8

22,5

12,4

7,7

16,5

49,8

8,1

44,8

1987

26,6

93

42,8

150

29,0

101

8,0

28

12,8

45

22,5

79

14,0

49

8,7

30

18,1

63

56,0

196

8,7

30

44,5

156

28,6

100

1988

26,1

91

42,1

146

30,0

104

7,4

26

12,5

43

23,5

82

15,3

53

9,3

32

15,2

53

56,1

195

8,8

31

44,0

153

28,8

100

1989

28,0

97

40,6

140

30,4

105

6,8

24

11,1

38

23,6

82

15,3

53

10,0

35

16,4

57

58,4

202

7,7

27

43,5

151

28,9

100

1990

29,3

100

39,1

133

33,6

115

5,7

19

11,3

39

23,6

81

16,4

56

9,2

31

16,6

57

57,7

197

7,1

24

43,1

147

29,3

100

1991

30,5

103

28,3

96

34,0

115

4,8

16

10,6

36

23,6

80

17,2

58

9,7

33

18,4

62

58,6

199

6,5

22

43,7

148

29,5

100

 

 

Tabella 5:  Tasso di femminilizzazione del lavoro part-time

Belgio

Danimarca

Germania

Grecia

Spagna

Francia

Irlanda

Italia

Lussemburgo

Olanda

Portogallo

Regno Unito

EUR 12

1985

87,3

81,4

93,2

59,0

84,9

76,6

64,3

77,8

77,8

89,6

1986

87,0

80,4

92,8

58,7

84,2

72,5

56,9

77,8

80,9

78,9

89,0

1987

87,8

79,7

93,3

64,8

76,1

84,1

73,3

64,5

69,8

78,1

88,6

84,7

1988

87,9

80,3

92,9

62,2

79,9

85,2

71,6

64,9

77,8

69,6

78,3

87,2

84,2

1989

90,2

78,7

92,0

62,0

82,6

84,5

74,2

69,4

80,0

69,8

84,9

89,1

85,0

1990

89,2

77,0

91,8

61,9

83,5

85,7

75,3

71,0

80,0

70,0

77,0

88,3

85,2

1991

90,2

76,5

91,5

60,4

82,4

85,5

75,6

69,8

70,2

74,8

87,7

84,7

 


Si profila, quindi, una configurazione “a più fasce”: da una parte le nazioni dell’area mediterranea, contraddistinte da un mercato del lavoro rigido; dall’altra i Paesi più a nord, “campioni” della flessibilità. Tra questi due estremi vi sono le restanti nazioni del centro Europa. E’ evidente che, nella diffusione del lavoro part-time (e soprattutto nelle differenze riscontrate tra i diversi paesi) vi sono più spiegazioni: legislative, sociali, culturali. Queste ultime sembrano avere una importanza particolare. Dederichs e Kohler (1993) in uno studio per la Fondazione europea sul part-time attribuiscono alla femminilizzazione del mercato del lavoro le differenze nazionali:

“Sostanzialmente, nei paesi ad alta incidenza dell’occupazione femminile anche la quota dei dipendenti a tempo parziale è elevata.  (...) Inversamente, la quota dei dipendenti a tempo parziale in paesi quali Irlanda, Italia e Spagna è relativamente modesta in quanto in tali paesi anche l’incidenza dell’occupazione femminile è relativamente scarsa” (pag. 56)

Si tratta, non vi è dubbio, di un buon punto di partenza per l’analisi. Ed anche cruciale, in quanto abbiamo assunto la quota di part-time come indicatore della flessibilità del mercato del lavoro. Spiegare quindi i differenziali intra-nazionali dell’una variabile permette di comprendere anche l’altra. Per confermare (o invalidare) gli assunti dello studio della Fondazione europea abbiamo condotto, partendo dai dati statistici dell’Eurostat, una serie di regressioni lineari, incrociando, per i diversi paesi e per alcuni anni, il tasso di femminilizzazione del mercato del lavoro con la quota di occupati a tempo parziale. I risultati ottenuti, riportati sotto forma grafica in figura 4, mostrano, effettivamente, l’esistenza di una relazione diretta tra le due grandezze. I dodici paesi dell’Ue, infatti, si distribuiscono secondo tre clusters principali: paesi ad alta femminilizzazione del mercato del lavoro e alto livello di part-time (Regno Unito e Danimarca), paesi con valori medi per ambedue le modalità (Belgio, Irlanda, Germania e Francia), nazioni con bassi indici per entrambe le variabili. Vi sono, però, anche alcune eccezioni di discreta importanza: l’Olanda, che come abbiamo visto ha la più alta concentrazione di lavori a tempo parziale, espone invece una quota di occupazione femminile medio-bassa; il Portogallo, che pur avendo un tasso di femminilizzazione superiore a quello tedesco (42,2% nel 1991) è in penultima posizione per il numero di occupati part-time; la Francia che, con il 44% di donne inserite nel mondo del lavoro, ha “soltanto” il 12% di forza lavoro a tempo parziale.

Le incongruenze appena citate hanno, come logico, un riflesso immediato sulla capacità esplicativa del modello posto a base della regressione lineare. Il coefficiente r quadro (che misura la quota di varianza spiegata dalla variabile “femminilizzazione del mercato del lavoro”), seppur significativo sino al 1990, è tutto sommato basso e in diminuzione nel periodo preso in esame (tabella 6).  Ciò suggerisce, quindi, di prendere in considerazione anche altre spiegazioni.

 

 

 

Figura 4


 Tabella 6. Regressione tra quota di occupazione part-time e femminilizzazione del mercato del lavoro.

Anno

Equazione della retta di regressione

r quadro

1985

%pt=-24,4+0,96*femm

0,40

1986

%pt=-16,7+0,75*femm

0,39

1987

%pt=-22,1+0,93*femm

0,35

1988

%pt=-24,1+0,95*femm

0,36

1989

%pt=-24,9+0,96*femm

0,34

1990

%pt=-23,1+0,91*femm

0,31

1991

%pt=-16,2+0,71*femm

0,22

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat.

 

Se guardiamo la struttura del mercato del lavoro nei diversi paesi vediamo che esistono differenze notevoli non soltanto nel grado di partecipazione della manodopera femminile ma, anche, nella distribuzione intersettoriale dell’occupazione e nel rapporto esistente tra lavoro indipendente e dipendente (tabella 7, 8 e 9). Differenze, per inciso, che sembrano andare tutte nella stessa direzione: le regioni dell’Europa mediterranea (le stesse contraddistinte da una ridotta quota di part-time) hanno quasi sempre un’alta percentuale di lavoratori indipendenti e un ridotto sviluppo del settore terziario ([5]). Questo ci permette quindi di espandere il modello utilizzato nella regressione inserendo le nuove variabili. In questa maniera otteniamo un risultato decisamente migliore sotto il profilo statistico: le tre variabili (femminilizzazione del mercato del lavoro, quota di occupazione indipendente e percentuale di occupazione nel settore terziario) riescono a spiegare una quota molto elevata (il 64,3%) ([6]) delle variazioni intra-nazionali del part-time. Prese individualmente, poi, le variabili maggiormente correlate con il part-time risultano essere la terziarizzazione dell’occupazione (all’aumentare della manodopera impiegata nei servizi aumenta anche il lavoro part-time) e la percentuale di lavoro indipendente (tanto più questo è sviluppato, tanto meno si lavorerà a tempo parziale, come si vede dalla figura 5).

 

Figura 5

 

 

 

 


Tabella 7: Alcune condizioni strutturali di sintesi del mercato del lavoro europeo nel 1992.

Quota di lavoratori Part-time

Femminiliz-zazione del mercato del lavoro

Quota di lavoratori indipendenti

Quota di occupazione nei servizi

Quota di occupazione in

agricoltura

Belgio

13,5

39,9

18,9

66,0

3,3

Danimarca

20,6

55,6

11,4

67,0

5,6

Germania

15,3

41,1

11,0

56,2

3,7

Grecia

2,8

35,1

47,7

50,2

23,9

Spagna

4,2

32,7

26,3

54,6

11,9

Francia

12,2

44,3

15,7

63,2

6,4

Irlanda

9,1

40,0

25,1

55,9

15,3

Italia

5,2

37,3

28,2

58,6

9,0

Olanda

32,0

38,3

11,9

69,1

4,7

Portogallo

3,7

42,2

28,8

47,8

18,1

Regno Unito

23,4

46,9

13,4

65,5

2,2

Lussemburgo

6,9

30,3

11,0

66,9

3,7

Media europea

14,5

41,7

18,5

60,1

6,7

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat

 

Tabella 8: Distribuzione settoriale e per tipologia degli occupati nell’Unione Europea. (Totale maschi e femmine, 1992)

 

 

Media europea

Belgio

Dani-marca

Germa-nia

Grecia

Spagna

Francia

Irlanda

Italia

Lussem-burgo

Olanda

Porto-gallo

Regno Unito

Agricoltura

6,7

3,3

5,6

3,7

23,9

11,9

6,4

15,3

9,0

3,7

4,7

18,1

2,2

Industria

33,2

30,7

27,4

40,1

25,9

33,5

30,4

28,8

32,4

29,4

26,3

34,1

32,3

Servizi

60,1

66,0

67,0

56,2

50,2

54,6

63,2

55,9

58,6

66,9

69,1

47,8

65,5

Lavoratori indipendenti

15,7

16,1

9,5

8,9

34,8

20,9

12,9

22,6

24,3

9,3

10,0

25,8

13,4

Lavoratori dipendenti

81,5

81,1

88,6

89,0

52,3

73,7

84,3

74,9

71,8

89,0

88,1

71,2

86,6

Collaboratori familiari

2,8

2,9

1,9

2,0

12,9

5,4

2,8

2,5

4,0

1,7

2,0

3,0

0,0

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat

 

 

 

Tabella 9: Percentuale di lavoratori indipendenti per settore di attività  nell’Unione Europea. (Totale maschi e femmine, 1992)

 

Media europea

Belgio

Dani-marca

Germa-nia

Grecia

Spagna

Francia

Irlanda

Italia

Lussem-burgo

Olanda

Porto-gallo

Regno Unito

Agricoltura

72,0

87,9

64,7

73,0

96,1

68,6

81,9

86,3

57,2

8,2

62,2

80,3

53,6

Industria

11,2

9,4

8,5

5,0

28,7

14,2

10,2

11,0

16,9

4,5

4,8

12,5

13,9

Servizi

16,5

19,9

8,2

11,1

34,4

24,5

11,6

15,7

30,1

9,4

11,2

21,0

11,8

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat

 

In conclusione, uscendo dal linguaggio dei numeri, ci sembra possibile fornire  una spiegazione convincente (e in parte diversa da quella assunta da Dederichs e Kohler [1993] ) dei meccanismi che favoriscono o meno la creazione di impieghi a tempo parziale e, di conseguenza, che creano un’immagine di maggiore/minore flessibilità del mercato del lavoro di una nazione. La flessibilità, infatti, non dipende se non in piccola parte dalla possibilità di avere manodopera disponibile per i lavori atipici (come è il caso dei giovani e delle donne che scelgono o subiscono il part-time); di fondamentale importanza è la morfologia dello stesso mercato del lavoro, il suo grado di modernità. Ove è possibile lavorare in maniera auto-diretta (ampia esistenza di lavoro autonomo) e laddove esiste un tessuto di imprese (magari piccole aziende agricole o imprese del terziario tradizionale costruite intorno ad una famiglia allargata), la scelta di flessibilità di molti lavoratori consiste nello sfruttamento di tali possibilità.  Non vi è, oggettivamente, la necessità di ricorrere al mercato “esterno” cercando di adattarsi alle sue esigenze.  Così le aziende vengono private di una consistente quota di forza lavoro flessibile “diretta” e si vedono costrette a fare ampio ricorso al sub-appalto e al lavoro su commessa.  Questo, naturalmente, non contraddice la visione “classica”, secondo cui le Nazioni con basse percentuali di part-time hanno anche mercati del lavoro assai rigidi, ma ne circoscrive i contorni: in molti casi nazionali la flessibilità della prestazione lavorativa è ottenuta per altre strade: lavoro autonomo, micro-imprenditorialità, sfruttamento delle aziende operanti nei settori economici a basso valore aggiunto.  Le diverse strategie, naturalmente, sono determinate dalle  legislazioni nazionali e dallo stato delle relazioni industriali. Laddove è difficile per le aziende ottenere dai propri dipendenti condizioni di lavoro flessibili, si è giocoforza costretti  ad usare il “polmone” del lavoro indipendente, spesse volte poco più che una forma di lavoro dipendente mascherato, come nel caso dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa.

 

4. IL CASO ITALIANO

 

L’Italia sembra inserita a pieno titolo nel processo di modernizzazione dei mercati del lavoro appena delineato.  Partendo da una normativa che assegnava centralità al contratto di lavoro a tempo pieno di durata illimitata, si è passati, tramite una serie consistente di eccezioni, ad una de-regolamentazione “assistita”. Ma anche incompleta, in quanto lascia eccessiva discrezionalità alle parti sociali (e ai rapporti di forza tra queste) nel determinare le condizioni e l’estensione del ricorso a forme di lavoro atipiche. E’ nei contratti collettivi, infatti, che viene fissata la percentuale massima di occupati che, in un’azienda, possono avere un contratto a tempo parziale o temporaneo. Tipicamente la soglia fissata è oscillante tra il 10 e il 15% degli occupati (Treu, 1993) ma, come visto, a livello nazionale il ricorso al part-time supera di pochissimo il 5%. Un’accelerazione delle forme di lavoro atipiche si è avuta a partire dalla metà degli anni Ottanta, allorquando fu prevista (Legge 863/84) la possibilità di stipulare sia particolari contratti a tempo parziale (detti di solidarietà) per evitare il ricorso ai licenziamenti sia a termine (per un massimo di due anni non rinnovabili), per l'inserimento di giovani in fase di training (Contratti di Formazione e Lavoro).  Questo, come si vede nelle tabelle 10 e 11 che seguono, ha permesso, almeno nella fase iniziale, uno sviluppo molto rapido, specialmente nel terziario, di entrambe le forme di lavoro atipico. Ciònonostante, nel caso italiano non sono stati questi gli strumenti principali adottati dalle aziende per giungere ad una maggiore flessibilità. Uno studio recente e ben documentato svolto sul nostro paese da due ricercatori del BIT di Ginevra, infatti, afferma che:

“la via prescelta dalle aziende italiane per introdurre la flessibilità del lavoro sembra essere stata quella degli accordi per orari di lavoro particolari. Negli anni ottanta gran parte degli accordi collettivi nazionali di categoria hanno previsto un leggero accorciamento dell’orario canonico di 40 ore per cinque giorni alla settimana, stabilito negli anni settanta. Ma ancor più rilevante è il fatto che questi accordi hanno introdotto un ventaglio di possibilità: lavoro a turni (compreso il lavoro notturno per le donne in determinate circostanze); indennità per attività disagiate, turni e lavori pesanti; redistribuzione delle ore e del tempo di lavoro nell’ambito della giornata o su diverse settimane; riduzione dell’orario (e del salario) e così via.” (Bruni & De Luca, 1994: pag. 172).

Si è assistito, insomma, ad una richiesta di flessibilità intesa più a modificare le condizioni dei lavoratori facenti parte del core group che non ad un ricorso ad assunzioni “flessibili”.  Questo, se da una parte è dovuto alla particolare fase economica che l’Italia (e l’Europa) ha attraversato, dall’altra è determinata dall’ampia gamma di alternative di cui le aziende dispongono quando si rivolgono al mercato del lavoro esterno.


 

Tabella 10: Avviati con contratti a tempo parziale in Italia

ex art. 5 legge 863/84

Base 1987=100

Sesso

Uomini

Donne

Anni

v.a.

n.i.

v.a.

n.i.

1987

      36.193

100

         106.499

100

1988

      42.361

117

         119.086

112

1989

      45.898

127

         134.222

126

1990

      45.647

126

         139.139

131

1991

      60.628

168

         151.042

142

1992

      70.583

195

         164.257

154

1993

    151.234

418

         102.514

96

Ampiezza dell'azienda (addetti)

 1..49

 50..249

 250..499

 >500

 TOTALE

Anni

 v.a.

n.i

 v.a.

n.i

 v.a.

n.i

 v.a.

n.i

 v.a.

n.i

1987

    103.865

100

           23.540

100

    9.342

100

    5.945

100

  142.692

100

1988

    115.761

111

           25.054

106

  11.160

119

    9.472

159

  161.447

113

1989

    129.424

125

           27.976

119

  12.974

139

    9.746

164

  180.120

126

1990

    136.077

131

           28.533

121

  10.721

115

    9.455

159

  184.786

129

1991

    152.905

147

           35.106

149

  13.049

140

  10.610

178

  211.670

148

1992

    166.746

161

           41.382

176

  15.165

162

  11.547

194

  234.840

165

1993

    183.460

177

           42.122

179

  14.210

152

  13.956

235

  253.748

178

Settori NACE

Agricoltura

Industria

Servizi

Anni

Operai

Impiegati

Dipendenti

Operai

Impiegati

Dipendenti

Operai

Impiegati

Dipendenti

v.a.

n.i.

v.a.

n.i.

v.a.

n.i.

v.a.

n.i.

v.a.

n.i.

v.a.

n.i.

v.a.

n.i.

v.a.

n.i.

v.a.

n.i.

1987

             32

          100

                141

            100

       173

       100

  23.655

       100

    15.268

       100

  38.923

       100

    61.072

       100

  42.524

       100

   103.596

       100

1988

               3

           0  9

                130

              92

       133

         77

  24.800

       105

    15.458

       101

  40.258

       103

    74.420

       122

  46.636

       110

   121.056

       117

1989

               5

            16

                122

              87

       127

         73

  26.082

       110

    15.991

       105

  42.073

       108

    82.725

       135

  55.195

       130

   137.920

       133

1990

             12

            38

                137

              97

       149

         86

  26.975

       114

    15.563

       102

  42.538

       109

    90.850

       149

  51.249

       121

   142.099

       137

1991

        1.981

       6.191

             1.168

            828

    3.149

    1.820

  31.222

       132

    19.670

       129

  50.892

       131

    97.081

       159

  60.548

       142

   157.629

       152

1992

        2.800

       8.750

             1.008

            715

    3.808

    2.201

  35.386

       150

    20.103

       132

  55.489

       143

  108.471

       178

  67.072

       158

   175.543

       169

1993

           254

          794

                507

            360

       761

       440

  39.585

       167

    21.061

       138

  60.646

       156

  121.292

       199

  71.049

       167

   192.341

       186

Fonte: nostre elaborazioni su dati Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale


 

Tabella 11: Numero dei lavoratori avviati con contratto a T.P. e CFL secondo le ripartizioni geografiche.

Base 1987=100

NORD

CENTRO

SUD

ITALIA

Anni

T.P.

n.i.

CFL

n.i.

T.P.

n.i.

CFL

n.i.

T.P.

n.i.

CFL

n.i.

T.P.

n.i.

CFL

n.i.

1987

  102.519

100

  299.618

100

  28.808

100

    69.926

100

  11.365

100

  33.312

100

   142.692

100

   402.856

100

1988

  114.371

112

  353.718

118

  32.519

113

    95.452

137

  14.557

128

  44.473

134

   161.447

113

   493.643

123

1989

  126.205

123

  375.007

125

  35.806

124

  100.049

143

  18.109

159

  55.043

165

   180.120

126

   530.099

132

1990

  123.906

121

  313.167

105

  40.606

141

    87.569

125

  20.274

178

  68.314

205

   184.786

129

   469.050

116

1991

  142.663

139

  185.020

62

  44.906

156

    66.371

95

  24.101

212

  64.952

195

   211.670

148

   316.343

79

1992

  156.761

153

  143.109

48

  47.439

165

    56.768

81

  30.640

270

  55.838

168

   234.840

165

   255.715

63

1993*

  167.223

163

  103.760

35

  52.325

182

    41.521

59

  34.200

301

  44.036

132

   253.748

178

   189.317

47

Fonte: nostre elaborazioni su dati Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale

Legenda: T.P.=tempo parziale; CFL=contratto formazione e lavoro

1993*= dato stimato

 

Tabella 12:   L’imprenditorialità in Italia. (dati al 31.12.92)

 

Aree geografiche

Società di capitale

Società di persone

Aziende individuali

Altre forme

Totale

Nord Ovest

223.790

313.283

677.418

29.673

1.244.164

Nord est

104.389

226.271

506.755

22.032

859.447

Centro

182.266

220.164

503.088

39.236

944.754

Sud e Isole

115.696

218.427

850.650

66.271

1.251.044

ITALIA

626.696

978.145

2.537.911

157.212

4.299.409

Iscrizioni nel 1993

43.926

66.495

172.098

6.172

288.691

Cessazioni nel 1993

16.606

60.520

281.898

6.337

365.361

Tasso di cessazione

2,7

6,2

11,1

4,0

8,5

Tasso di crescita

4,4

0,6

-4,3

-0,1

-1,8

 

Fonte: Cerved


In Italia, come abbiamo visto, è estremamente vasta l’area del lavoro autonomo e della micro imprenditorialità, come testimoniano i dati delle Camere di Commercio (tabella 12). Più dell’80% delle oltre 4 milioni di aziende italiane sono riconducibili a  persone fisiche, siano esse singole o in associazione. Questo “serbatoio” costituisce, per le aziende maggiori, una fonte di flessibilità che, spesso ignorata, tende ad avvicinare il mercato del lavoro italiano a quello delle altre nazioni europee.

L’enorme sviluppo in Italia dell'occupazione "in proprio" è dovuta a più cause: l’ampio tessuto di piccole aziende, tradizionale in varie aree del paese (Piore & Sabel, 1987); le opportunità  di iniziare attività commerciali e produttive (specialmente nel settore dei servizi alle famiglie) pur disponendo di "budget" limitati o addirittura inesistenti; la particolare struttura del sistema fiscale italiano, che lasciando ai lavoratori indipendenti ampie possibilità di "erosione", sia legali che non, rende particolarmente conveniente il lavoro in proprio. Anche quando questo si configura come una seconda attività "in nero" o, addirittura, come una seconda "professione" (Accornero, 1995)

Tutti i settori produttivi, anche quelli classici, hanno fatto ampio ricorso a queste forme esterne di flessibilità. Nell’industria, ad esempio, l'occupazione dipendente, stabile o in leggera crescita durante gli anni settanta, è andata diminuendo dopo il 1980, con una perdita superiore alle 128.000 unità per anno. Diminuzione che è poi accelerata ulteriormente a partire dal 1990. I settori più colpiti dalla riduzione occupazionale sono stati quello delle costruzioni (-170.000 posti di lavoro tra il 1980 ed il 1988), della produzione dei mezzi di trasporto, passati da 446.500 addetti a 341.100, delle industrie elettriche (-108.000 unità) e di quelle del legno (ridottosi del 20%). L'occupazione indipendente, al contrario, è aumentata, rispetto al 1970, di circa il 23,5%  pur registrando, a partire dal 1983, una fase di leggero calo.  Il settore che ha avuto il maggior incremento del lavoro indipendente è quello delle costruzioni, passate dalle 316.000 unità censite nel 1970 alle oltre 575.000 del 1993.

La tendenza all'"autonomia nel lavoro" è confermata anche dalle rilevazioni trimestrali delle forze di lavoro. L’Istat, come noto, rinnova il campione sottoposto ad indagine in modo ciclico; avviene quindi che una parte dei soggetti vengano intervistati, nello stesso trimestre, in due anni successivi. Questo permette di individuare i cambiamenti lavorativi eventualmente intervenuti nell'anno. E, quindi, la mobilità intersettoriale della forza lavoro italiana. Analizzando le risposte relative al  1988 ([7]) vediamo che soltanto il 60,3% di coloro che l'anno prima si dichiaravano dipendenti agricoli continua a svolgere la stessa attività.  Il 6,42% di essi si è messo “in proprio”, pur rimanendo nel settore, mentre il 5,1% ha ora un lavoro indipendente nell'industria (tipicamente nell'edilizia); al terziario è passato il 7,5% del campione, principalmente in attività dipendenti.  Alta è anche la quota dei disoccupati, sia di quelli palesi (3,6%) che, presumibilmente, degli occulti (più del 16% delle donne, ad un anno di distanza, dichiara di non svolgere più altre attività che non quelle inerenti la cura della casa).  Maggiore è la stabilità degli agricoltori indipendenti, che nel 71,5% dei casi continuano a svolgere lo stesso lavoro. Chi cambia si sposta ai servizi (2,3% indipendenti, 1,2% come dipendenti) o, pur restando in agricoltura, diventano braccianti (sono il 4,2%).  Altissima è poi la percentuale di coloro che si ritirano dal lavoro: ben l'8,5% degli indipendenti (la media dei ritiri negli altri settori è intorno al 2%) ed il 4,7% dei dipendenti.

I dipendenti industriali sono invece quelli che, dopo gli impiegati della Pubblica Amministrazione (praticamente immobili nel lavoro) mostrano la maggiore stabilità occupazionale: nel 77,8% dei casi continuano nell'impiego precedente. Quando cambiano, lo fanno per divenire dipendenti di una azienda commerciale o per entrare nello Stato. Scarsissimo (grazie anche all’ampio ricorso ad ammortizzatori sociali quali la CIG) il tasso di disoccupazione palese (0,8%) od occulta.  E' invece discreta la mobilità verso un lavoro indipendente: 2,6% . Comportamento assai meno stabile è individuabile tra i lavoratori indipendenti dell'industria, che fuggono verso il terziario. In totale lo spostamento interessa l'11,4% dei soggetti, di cui il 9% circa in attività indipendenti.  Il settore del commercio è, invece, stabile. Quasi il 79% degli operatori rimane nel proprio campo di attività; i dipendenti si muovono verso il pubblico impiego nel 5,2% dei casi, verso il credito (5,6%) e, soprattutto, verso l'industria (9,8%).

 

 

5. FLESSIBILI E INTERINALI

 

Seppure in Europa il lavoro a tempo parziale e di durata determinata costituiscano la fonte primaria di flessibilità del lavoro dipendente, esistono altre forme di prestazione atipica, la più importante delle quali è rappresentata dal cosiddetto lavoro interinale.  Si tratta di una prestazione contraddistinta dall’assenza del rapporto di dipendenza con l’azienda in cui si opera, sostituita dalla subordinazione nei confronti di un’impresa di lavoro temporaneo (tipicamente un’agenzia) che stipula un contratto con la manodopera, la retribuisce e quindi la “affitta” per brevi periodi ([8]). Ci troviamo di fronte, in sintesi, alla negazione del rapporto di lavoro dipendente classico, ma assai lontani anche dalla prestazione autonoma. Nonostante l’importanza attribuita sia a livello nazionale che comunitario  al lavoro interinale ([9]), va detto che esso costituisce, ovunque, una esigua frazione dell’occupazione complessiva (tabella 13).  Secondo le stime delle stesse agenzie,  infatti, i lavoratori mobilitati giornalmente in tutto il mondo sono soltanto tre milioni (il 50% dei quali nei soli Stati Uniti). Si calcola, inoltre, che ogni candidato che stipula un rapporto con un’agenzia riesca a lavorare (sempre in media) circa 20 giorni in un anno. Ciònonostante l'esistenza o meno del lavoro interinale può modificare radicalmente le culture dei soggetti che "ruotano" attorno al mercato del lavoro.

 

Tabella 13: Stime sul lavoro interinale nel mondo                                                

                                    (situazione al maggio 1994)                                                        

PAESE

Totale

agenzie interinali

Media giornaliera lavoratori temporanei (x 1.000)

n° di filiali o affiliate

Fatturato (miliardi di $)

Argentina

160

35

*

*

Australia

*

20

**550

*

Austria

400

8

**50

0,3

Belgio

93

30

531

1,2

Brasile

*

129

*

*

Canada

*

50

*

*

Antille Oland.

9

2

9

0,02

Danimarca

90

*

60

0,06

Francia

1100

300

5011

8,0

Germania

1800

100

2400

2,4

Irlanda

*

*

*

*

Giappone

*

**255

10250

10,0

Paesi Bassi

308

112

2125

2,5

Norvegia

65

4

102

0,13

Portogallo

*

3

300

*

Spagna

250

15

310

0,2

Sud Africa

*

25

*

*

Svezia

*

*

*

*

Svizzera

400

10

600

0,45

Regno Unito

4000

500

9000

11,0

USA

5500

1635

15000

30,5

LEGENDA:

* statistiche non reperibili

** solo associate nazionali

Fonte: Associazione internazionale delle Agenzie di lavoro temporaneo

 

 

 

In Europa le modalità con le quali si svolge il rapporto interinale e, soprattutto, le legislazioni nazionali in materia  sono estremamente differenziate. Seguendo l’impostazione di uno studioso autorevole come R. Blanpain (1993) possiamo dire che nel continente coesistono tre situazioni principali: regolamentazione, non regolamentazione, divieto. (figura 6).

 


Figura 6 : Tipi di legislazione sul lavoro interinale nell'Unione Europea.

 

 

 

 

 

Soltanto in Italia e Grecia, nonostante il dissenso espresso dal parlamento europeo, il ricorso al lavoro interinale continua ad essere vietato. Ciò avviene a causa dell’esistenza di un monopolio pubblico del collocamento, con conseguente divieto di intermediazione privata di manodopera. Ciò non significa, naturalmente, che negli anni più recenti non siamo apparsi in questi paesi proposte per legalizzare il lavoro interinale nè, soprattutto, che non si sia sviluppato, a seguito di deroghe legislative o nelle pieghe delle normative, un mercato del lavoro “quasi interinale” (si pensi, in Italia, al sub-appalto di lavoro di alta specializzazione, all’out-placement di manodopera eccedente e alle prestazioni a terzi rese dai soci e dipendenti di cooperative di servizi).  Viceversa, i paesi alle frontiere settentrionali dell’Europa (Danimarca, Irlanda e Regno Unito) permettono il lavoro interinale senza regolamentarlo espressamente. I soggetti interessati (agenzie, utenti e prestatori d’opera) si muovono  nell’ambito della legislazione generale esistente, che può essere garantista per il lavoratore (caso della Danimarca) o iper-liberista verso le politiche aziendali (caso della Gran Bretagna, ove il contratto temporaneo è considerato sui generis e soffre quindi la riduzione delle normali tutele legali [Hepple, 1993]).  In posizione intermedia si vengono a trovare tutte le altre nazioni, che dispongono di un corpo di normative, nate generalmente agli inizi degli anni settanta ([10]), specificamente dedicate al lavoro temporaneo e interinale. Tra questi emergono due indirizzi legislativi di un certo spessore, tanto che si può arrivare a parlare addirittura di modelli differenti: quello tedesco, in cui il lavoratore interinale viene assunto stabilmente dall’agenzia; quello francese, in cui il prestatore d’opera stipula con l’agenzia un contratto per la sola durata della “missione”.  Si tratta di due approcci entrambi con lati positivi e negativi, che trovano la loro giustificazione principale nei diversi assetti del mercato del lavoro, nelle tradizioni lavorative nazionali e nel sistema di relazioni industriali in atto.

 

6. CENNI CONCLUSIVI

 

Dalla breve analisi condotta sinora risulta evidente come sia estremamente difficile anche soltanto ipotizzare l'esistenza di alcune aziende (specialmente di servizi) senza i lavori atipici. Dal punto di vista imprenditoriale, infatti, la rapidità di reazione e la flessibilità verso le richieste del mercato divengono le variabili centrali del processo produttivo e possono segnare il declino o, viceversa, il successo aziendale. I lavori atipici (part-time, tempo determinato e prestazioni interinali) sono congeniali a tale logica. E ciò sia che si sviluppino come modificazioni dell’assetto nel gruppo centrale della manodopera aziendale, sia che essi provengano dal mercato del lavoro esterno all’azienda.  Ciò, naturalmente, non implica, di per sè, un processo di "imbarbarimento" in corso nel mondo del lavoro. Sarebbe errato associare meccanicamente valenze negative ai contratti a termine, al part-time e a altre forme non standard di prestazione.  Secondo varie rilevanze empiriche, infatti,  gli impieghi atipici (nelle particolari accezioni sviluppate nei diversi paesi) sembrano soddisfare precise esigenze di flessibilità che provengono anche dal versante del lavoro. ([11])  Ma non va neanche sottovalutato l’esistenza di un reale problema di fondo. E cioè che il lavoro atipico, nato magari come scelta individuale, possa divenire poi una "gabbia insormontabile", dalla quale il lavoratore non riesca ad uscire al mutare delle proprie esigenze personali. O, viceversa, che divenga una condizione imposta e duratura, unico sbocco occupazionale per i soggetti deboli del mercato.  Queste preoccupazioni, particolarmente sentite dai sindacati europei, sono se possibile ancora più accentuate in Italia. L’alto tasso di disoccupazione giovanile e l’elevata disponibilità al lavoro di quelli che le rilevazioni statistiche definiscono “soggetti in condizioni non professionali”, infatti, potrebbe risolversi non solo con la creazione di un mercato del lavoro atipico, ma anche (e di qui le preoccupazioni e resistenze) con la sostituzione massiccia di occupazione stabile con occupazione precaria.  


                                                R I F E R I M E N T I   B I B L I O G R A F I C I

 

 

Accornero, A. (1995), Ancora il lavoro. Conversazione con Patrizio Di Nicola, Ediesse, Roma.

 

Accornero, A (1994), Il mondo della produzione, Il Mulino, Bologna.

 

Atkinson J. (1986) "Employment Flexibility in Internal and External Labour Markets", in R. Dahrendorf, E. Kohler, F. Piotet (a cura di), New Forms of Work and Activity, Dublino, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions.

 

Aznar G., (1994), Lavorare meno per lavorare tutti, Bollati Boringhieri, Torino.

 

Bruni, M., De Luca, L., (1994), Flessibilità e disoccupazione: il caso Italia, Ediesse, Roma.

 

Cerved (1994), Movimprese. Variazioni annuali nell’anagrafe delle imprese italiane, Roma.

 

Chiesi A.M. (1990), "Un quadro di riferimento concettuale", in Democrazia e diritto, n. 1.

 

Dederichs, E., Kohler, E., (1993), Lavoro a tempo parziale nella Comunità europea. Aspetti sociali ed economici, Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, Dublino.

 

Department of Employment (1990), "Women in the labour market", Employment Gazette, n. 12.

 

Distributive Trade EDC (1988), Part time working in the distributive trades, Londra.

 

Emerson, M., (1991), Quale modello per l’Europa?, Il Mulino, Bologna.

 

Eurostat, (1987), EC employees survey 1985-86, Lussemburgo, EC Press.

 

Eurostat (1992), Indagine sulle forze di lavoro. Risultati 1990, Lussemburgo, EC Press.

 

Gallino, L. (a cura di, 1985), Il lavoro e il suo doppio, Bologna, Il Mulino.

 

Hepple, B., (1993), “United Kingdom”, in Blapain, R. (a cura di), Temporary Work and Labour Law, Kluwer, Deventer e Boston.

 

Isfol (1990), Rapporto Isfol 1990, Milano, Angeli.

 

Istat, (1994a), Occupazione e redditi da lavoro dipendente. Anni 1980-93, Collana d’informazione n. 20, Roma.

 

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Luciano A. (a cura di, 1989), Arti maggiori, Roma, NIS.

 

Nardone T.J. (1986),  "Part-time workers:  who are they ?", Monthly Labour Review, Vol. 109, n. 2

 

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Piore M.J., Sabel C.F. (1987), Le due vie dello sviluppo industriale. Produzione di massa e produzione flessibile, Torino, Isedi.

 

Piotet F. (1988), The Changing Face of Work, Dublino, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions.

 

Treu, T., (1993), “Italy”, in Blanpain, R. (a cura di), Temporary Work and Labour Law, Kluwer, Deventer e Boston.

 

 

 

 

 

 



[1]) L'importanza delle politiche del lavoro messe in atto dai governi sembra essere una delle variabili fondamentali nello sviluppo delle occupazioni atipiche.  Una recente ricerca della Fondazione Europea di Dublino nota che, mentre le misure di emergenza messe in atto per alleviare la disoccupazione giovanile tendono a divenire stabili, esse gradualmente contribuiscono alla modifica dell'immagine stessa dell'impiego, tramite la creazione di mansioni non standard con vari gradi di precarietà. (F. Piotet, 1988). Tale analisi sembra pienamente applicabilie alla realtà italiana. Infatti negli anni Ottanta una discreta percentuale di assunzioni è avvenuta per periodi determinati e soltanto grazie a leggi dello Stato. In particolare: i contratti di formazione lavoro (legge 863/84) hanno dato luogo, nel periodo 1984-89 a circa 1.800.000 assunzioni della durata media di 15-18 mesi; la legge sull'apprendistato (n.25/55), aggiornata tramite vari accordi, ha creato nello stesso periodo oltre 2.600.000 posti di lavoro temporaneo; la legge 67/88 sui lavori socialmente utili ha generato, nei primi 18 mesi, oltre 150.000 contratti di lavoro a termine (durata inferiore a 12 mesi) e part-time (un massimo di 80 ore mensili). (Per ulteriori dettagli si rimanda a: Isfol, 1990 e alle considerazioni sviluppate nei paragrafi successivi).

 

[2]) I risultati cui facciamo riferimento provengono da un’ampia ricerca svolta all’inizio degli anni novanta dalla Fondazione Europea di Dublino in undici stati dell’Unione (Dederichs & Kohler, 1993).

 

[3]) Va notato, per inciso, che differenziali retributivi di tal genere sono accettati, stando ad una indagine condotta nel 1985-86 dalla Comunità Europea nei dodici Paesi membri (Eurostat, 1987), con favore dal 56 % dei lavoratori dipendenti. Ma, al contempo, con grandi variazioni dovuti al Paese di residenza, al sesso (le donne sono meno favorevoli degli uomini) ed alla funzione svolta nell'organizzazione.

 

[4]) Si pensi, ad esempio, ai managers “in affitto”.

 

[5]) Questo avviene, va detto, quasi sempre per l’anomala ampiezza in queste aree dei lavori legati all’agricoltura.

 

[6]) Da notare che l'"r quadro aggiustato" è pari a 0,52.

 

[7]) L’Istat, avendo in più occasioni ristrutturato il campione adottato per le rilevazioni trimestrali, da alcuni anni non fornisce più i dati di “flusso” della manodopera.

 

[8])  Questa la procedura tedesca. In Francia le cose vanno in maniera differente, in quanto il lavoratore stabilisce un rapporto di durata variabile ma generalmente breve con l'agenzia, finalizzato allo svolgimento della "missione" presso un'azienda.

 

[9]) In Italia, ad esempio, sin dalla scorsa legislatura erano state presentate tre diverse proposte di legge per la regolamentazione del lavoro interinale, cui si è aggiunta, dopo l’accordo sulla politica dei redditi del luglio 1993, una di iniziativa governativa. Anche Ministro del lavoro del governo Berlusconi,  Mastella, ha presentato una sua ricetta per il lavoro interinale e lo stesso ha poi fatto il suo successore, T. Treu.  A livello del parlamento europeo il lavoro "in affitto" è oggetto di direttive che risalgono all’aprile del 1984.

 

[10]) Soltanto la Spagna ha liberalizzato il lavoro interinale molto di recente, sul finire del 1994.

 

[11]) Illuminante, in materia è l'ampissima documentazione statistica esistente nei paesi anglosassoni.(Cfr. T.J. Nardone, 1986; Eurostat, 1987; Distributive Trade EDC, 1988; Department of Employment, 1990).