LAVORI ATIPICI ED AZIENDE FLESSIBILI NEL TERZIARIO.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di  Patrizio Di Nicola

 

                                                      (Febbraio  1991)

Pubblicato su: Politica ed Economia

 

 

 


1. PREMESSA

 

La "terziarizzazione" dell'economia ha comportato, anche dal punto di vista del lavoro, modifiche profonde. E ciò sia in termini quantitativi che qualitativi. Il caso italiano sembra esemplare: nel periodo 1970-1988 l'occupazione dipendente nell'industria è calata del 15%; quella nei servizi è aumentata di oltre il 55% . I lavori autonomi terziari hanno registrato una crescita ancora maggiore: + 81,6% .  Ciò significa che su 100 occupati quasi 60 lavorano nei servizi (42 in quelli privati e 18 in quelli prestati dalla pubblica amministrazione) e soltanto  30  nel comparto industriale. Ed a volte in posizioni tipicamente "di servizio", come nel caso degli addetti alla qualità, al marketing od alla promozione dei prodotti.  Secondo quali direttrici è avvenuto tale aumento numerico di attività terziarie?  Una peculiarità delle società attuali sembra essere lo sviluppo di attività che mettono in crisi il modello di "lavoro subordinato standard".  Costruzione questa che, seppur recente, aveva finito per identificarsi nel lavoro "tout court" (L. Pero, 1990).  Molti dei nuovi lavori terziari, viceversa,  sono "atipici" rispetto a tale modello generale. Essi mancano, con varie articolazioni,  di alcune caratteristiche che hanno connotato il lavoro dipendente, quali la retribuzione legata alla disponibilità temporale del lavoratore e la continuità ed esclusività della prestazione.   I fattori che hanno contribuito allo sviluppo dei lavori atipici (Chiesi, 1990) sembrano essere principalmente cinque:

a) richiesta di flessibilità da parte di chi offre il lavoro;

b) riduzione del grado di tutela del lavoro dipendente (l'avanzata dei contratti di formazione e di quelli a tempo determinato ne sono un esempio); ([1])

c) la particolare modalità di "offerta" dei servizi, specialmente di quelli privati, che richiedono orari lavorativi non standard;

d) l'importanza del fattore umano nel successo aziendale (si pensi alle imprese di pubblicità, alle software house, alle organizzazioni di "engineering");

e) il fenomeno della plurioccupazione che, specialmente nei lavori autonomi del terziario, rappresenta oltre il 50% dell'occupazione.

Lo sviluppo dei lavori atipici è stato particolarmente evidente laddove hanno trovato posto categorie di lavoratori "deboli" sul mercato. Solo un esempio: sia i giovani in cerca di prima occupazione che, ancor di più, le donne, sono stati destinatari di lavori part-time, come dimostra la tabella che segue.

 

 

Tabella 1: Occupati part-time nel 1988 per sesso e classi di età.

(Valori percentuali)

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                      Media europea           Italia

                        Tempo    Part        Tempo    Part

                          pieno    time        pieno    time

 

MASCHI                68,1     18,2        68,3     37,8

  14-24 anni           9,7      5,7         7,8      7,0

  25-49 anni          42,8      6,4        43,4     16,3

  50-64 anni          14,9      3,5        16,0      9,9

 

FEMMINE               31,9     81,8        31,7     62,2

  14-24 anni           7,3      9,7         5,4      9,7

  25-49 anni          19,3     52,6        21,1     38,0

  50-64 anni           5,0     17,8         4,9      12,8

 

DONNE SPOSATE         17,9     63,6        20,3     45,4

  14-24 anni           1,3      2,3         0,7      2,2

  25-49 anni          13,1     45,9        15,8     31,9

  50-64 anni           3,4     14,5         3,6     10,3

 

VARIAZIONI

RISPETTO AL 1983      +2,4    +27,7        +0,2    +45,5 

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Fonte: Nostra elaborazione su dati Eurostat (1990).

 

Ma quanto la disponibilità di lavoro atipico è funzionale alle esigenze delle aziende terziarie?

 

2. L'IMPRESA FLESSIBILE

 

Le imprese sono state particolarmente rapide nell'utilizzare la perdita di rigidità del lavoro che ha caratterizzato gli anni Ottanta, nonchè ad adattarsi alle nuove condizioni strutturali del mercato del lavoro.  Si è così in breve tempo creato un mercato della domanda e dell'offerta di lavori "non standard", impensabile soltanto un decennio prima.  In questo contesto si afferma quella che è stata definita dall'Institute of Manpower Studies impresa flessibile (J. Atkinson, 1986).  Secondo tale analisi l'impresa moderna adatta e modifica il proprio "output" (sia in termini di volume che, soprattutto, in termini di coerenza con le richieste provenienti dall'utenza) sfruttando la flessibilità interna del mercato del lavoro;  il modello organizzativo su cui essa è basata è riportato nella figura 1.

Alla base del costrutto teorico  vi è una distinzione basilare tra i diversi aspetti della flessibilità.  E' possibile infatti distinguere tra flessibilità numerica, funzionale e di remunerazione.  La prima consiste fondamentalmente nel "calibrare" la quantità di occupati tenendo conto della situazione congiunturale della domanda. I metodi per ottenere la flessibilità numerica sono molti, ma tutti basati sull'uso di lavori atipici (a termine, part-time, ad obiettivo). L'impresa flessibile adotta quindi una organizzazione del lavoro che le permette di adoperare estensivamente i lavori non standard allo scopo di mantenere sempre il giusto numero di dipendenti, qualsiasi siano le fluttuazioni della domanda. 

La flessibilità funzionale, al contrario di quella numerica, si basa sulla adattabilità dei lavoratori per far fronte a modifiche qualitative delle richieste di mercato, oppure indotte dalla tecnologia o da cambiamenti nelle strategie aziendali. Tale forma di flessibilità dipende strettamente dalle abilità e dalla volontà cooperativa dei lavoratori. Il terzo aspetto della flessibilità, quello derivante dalle retribuzioni, può essere considerato "di supporto" ai primi due, in quanto in grado di differenziare tra di loro i lavoratori sulla base delle prestazioni individuali anzichè della qualifica. ([2])

L'impresa flessibile, secondo tale modello, è  costituita da un nucleo centrale ("core group") di lavoratori garantiti e tutelati che assicurano la flessibilità funzionale.  Per Atkinson (1986, pag. 14) essi sono generalmente maschi, lavorano a tempo pieno con un contratto di durata illimitata, sono portatori di professionalità considerate strategiche per l'azienda e non risultano immediatamente sostituibili in caso di defezione.  Attorno al nucleo centrale si snodano due anelli di forza lavoro definiti periferici ed esterni.  Il primo anello, che ha il compito di assicurare la flessibilità numerica, è costituito da dipendenti che svolgono lavori di routine, non critici dal punto di vista aziendale e quindi facilmente rimpiazzabili.  L'aggiustamento alle condizioni di mercato è assicurato all'azienda dal rapporto di lavoro di cui essi sono detentori: part-time, contratti a termine, job sharing.  Neanche a dirlo, si tratta principalmente di lavoratori giovani e di donne.  Il gruppo più esterno è anche il più eterogeneo: in esso possiamo trovare, ai due estremi, sia addetti alla pulizia che consulenti di altissimo livello. La caratteristica del gruppo è di essere detentori di abilità (o disabilità) professionali che l'azienda non intende possedere al proprio interno, ma di cui non può fare a meno. A secondo della tipologia del lavoro svolto (nonchè delle condizioni del mercato) gli "esterni" possono essere utilizzati per incrementare la flessibilità numerica o per supportare il "core".

Ai diversi tipi di lavoratori corrispondono anche diverse metodologie formative e di arricchimento delle conoscenze professionali: per i lavoratori centrali la formazione fa parte dell'attività lavorativa, per quelli periferici vige l' on job training, tipicamente svolto nell'azienda a spese della collettività; il gruppo esterno, infine, non ha alcun supporto formativo, anche se in alcuni casi la loro possibilità di lavoro è legata all'altissimo livello di know-how posseduto.

Il modello appena illustrato, tra i vari pregi, possiede quello dell'adattabilità alle diverse situazioni aziendali e nazionali.  Inoltre, sembra essere una delle rappresentazioni più aderenti alla struttura di alcune moderne aziende terziarie, specialmente di quelle di piccola-media grandezza dedicate ai servizi alla produzione e di rete.

3. IL MODELLO NELLA REALTA'

 

Illustrato il modello teorico di azienda flessibile, diviene indispensabile tentare di isolarne alcuni casi reali. Allo scopo utilizzeremo sia le descrizioni di due aziende terziarie indagate dall'Ires Lombardia  che un "case study" condotto su di una "micro" società del terziario avanzato.

 

a) Una azienda del settore fast-food.

Nel 1985 l' Ires ha svolto una ricerca (A.M. Chiesi-E. Garbelli, 1986) in due ristoranti Quick di Milano, gestiti da una società italo-belga. I due punti ristoro occupavano complessivamente 105 dipendenti, perlopiù giovani (età media 21-22 anni) e di sesso femminile (68%). Analizzando l'aspetto che qui ci interessa (cioè i rapporti di lavoro), è possibile focalizzare con precisione i diversi gruppi che alimentano la flessibilità. Il gruppo forte di lavoratori è composto dai soli supervisori (3-4 persone per sede), i quali hanno un lavoro "regolare" (full-time, 40 ore settimanali) distribuito su turni di 8 ore, così da assicurare la presenza nelle ore di apertura degli esercizi.  Tutti gli altri addetti hanno un rapporto part-time con l'azienda. Le ore lavorative contrattuali nell'arco della settimana variano dalle 20 alle 25, con turnazioni ottimizzate rispetto alle ore ed i giorni di maggior afflusso. Questi lavoratori sono quelli che assicurano la flessibilità numerica. L'alto grado di turn-over (50% annuo), se opportunamente sfruttato dall'azienda in unione al ricorso agli straordinari ([3]), sembrerebbe poter favorire ancor di più la flessibilità numerica.  La flessibilità funzionale è anch'essa individuabile abbastanza chiaramente: non esistono mansioni assegnate permanentemente (con la sola esclusione della supervisione). Tutti i lavoratori, nell'arco dei loro turni di lavoro, debbono svolgere le quattro mansioni basilari dell'attività. Tale strategia, chiaramente, è possibile soltanto grazie alla dequalificazione delle mansioni.

 

b) Il settore della consegna immediata.

Sempre nel 1985 l'Ires ha condotto un'altra ricerca (A.M. Chiesi, 1986), dedicata questa volta ai "Pony Express". Si trattava di un lavoro all'epoca emergente nei grandi centri urbani inteso a fornire un servizio alle aziende che hanno bisogno di comunicare e trasferire plichi e piccoli oggetti all'interno dell'area metropolitana. Attività d'importazione anglosassone, ha visto tra i motivi di diffusione sia il caotico traffico cittadino (agevolmente superabile dai giovani ciclomotorizzati) che la cronica inefficienza del servizio postale di stato. Al momento tale attività sembra essere, almeno in parte, insidiata dalla diffusione degli apparati fax che permettono la trasmissione di documentazione in modo più rapido e meno costoso.

L'azienda presa in esame ha un piccolo nucleo di lavoratori assunti  part-time con un contratto a tempo indeterminato; essi hanno il compito di raccogliere telefonicamente gli ordini, contrattarne i tempi di consegna e  trasmetterli poi ai collaboratori motorizzati. Questi ultimi  detengono con l'azienda un rapporto di lavoro semi-autonomo su base giornaliera ([4]). Ognuno di essi, pur potendo solo in parte decidere quando lavorare, può stabilire il come ed il quanto impegnarsi (cioè a quali chiamate dalla sala radio rispondere e quali strade percorrere). Guardando a tale organizzazione attraverso le lenti del modello dell'IMS notiamo che gli addetti alla centrale costituiscono il "core group" ed assicurano la flessibilità funzionale all'organizzazione. Una parte importante del loro mestiere  consiste infatti nell'ottimizzare i tempi di consegna, spronando ad accettare "la commessa" ai motociclisti più vicini al luogo di presa del plico e, viceversa, scoraggiando quelli più lontani o già impegnati.  La flessibilità numerica è garantita evidentemente dai collaboratori esterni. L'estrema semplicità del loro lavoro li rende facilmente rimpiazzabili; il detenere un rapporto autonomo accresce la flessibilità di cui gode l'azienda, che può avvalersi anche di una rudimentale forma di flessibilità retributiva insita nel metodo di pagamento della prestazione.

 

 

c) una piccola azienda del terziario avanzato.

L'azienda in esame opera nel campo dell'informatica e della telematica e vanta alcune installazioni di notevole contenuto tecnologico nel settore dei controlli di accesso computerizzati e della didattica (aule informatiche e simulatori di traffico aereo).  Il lavoro si svolge in maniera semi-artigianale, in quanto le diverse realizzazioni vengono personalizzate secondo le richieste dei committenti. La struttura aziendale è estremamente semplice: la figura centrale è rappresentata dall'amministratore unico, un tecnico che dopo una lunga esperienza di lavoro dipendente si è messo in proprio. Dotato di un enorme potenziale lavorativo (soprattutto in termini di polivalenza e resistenza fisica), spende circa 12 ore al giorno in ufficio e cura, oltre che la parte tecnico-progettuale e la costruzione degli apparati destinati alla vendita, anche i contatti con i clienti e l'amministrazione dell'azienda. Gli si affianca una segretaria assunta a tempo pieno con un contratto di formazione lavoro. Quando necessario anch'essa collabora alle attività di laboratorio dell'azienda, principalmente per la costruzione delle "schede elettroniche" necessarie per il funzionamento delle parti vendute. I due costituiscono il nucleo centrale della struttura aziendale. Vi sono poi due esperti analisti-programmatori che lavorano part-time ([5]) per l'azienda, a fronte di un rapporto di lavoro autonomo; la loro retribuzione è legata alla cessione dei diritti d'autore sui programmi prodotti. Completa l'organico un pensionato che svolge commissioni esterne ed aiuta in varie attività collaterali (falegnameria, magazzino, ecc.). L'azienda, in base alle necessità del momento, fa poi ricorso a  consulenti, programmatori ed operai montatori, con i quali viene instaurato un rapporto di lavoro "a commessa".

Anche in una struttura così semplice ([6]) emergono chiaramente gli elementi fondamentali della flessibilità: gli esterni assicurano quella numerica (e, al contempo, apportano un know-how che avrebbe costi proibitivi se posseduto all'interno); gli interni, con la loro polivalenza, assicurano all'azienda l'indispensabile rapidità di risposta agli stimoli provenienti dal mercato .

 

4. CONCLUSIONI

Dalla breve analisi condotta sinora risulta evidente come sia estremamente difficile anche soltanto ipotizzare l'esistenza di alcune aziende di servizi senza i lavori atipici. Dal punto di vista imprenditoriale, infatti, la rapidità di reazione e la flessibilità verso le richieste del mercato divengono le variabili centrali del processo produttivo e possono segnare il declino o, viceversa, il successo aziendale. I lavori atipici sono congeniali a tale logica.  Ciò, naturalmente, non significa che si assiste ad un "imbarbarimento" del mondo del lavoro. Sarebbe errato associare meccanicamente valenze negative ai contratti a termine, al part-time e a quant'altre forme anomale di prestazione.  Secondo varie rilevanze empiriche, infatti,  gli impieghi atipici sembrano soddisfare largamente precise esigenze di flessibilità che provengono anche dal versante del lavoro. ([7])  Ciò non toglie, d'altro canto, l'esistenza di un problema di fondo. E cioè che il lavoro atipico, nato magari come scelta individuale, divenga poi una "gabbia inviolabile", da cui il lavoratore non riesca ad uscire al mutare delle proprie esigenze personali. O, viceversa, che divenga una condizione imposta e duratura, unico sbocco occupazionale per i giovani e per le donne.


                  B I B L I O G R A F I A

 

 

 

 

Atkinson J. (1986) "Employment Flexibility in Internal and External Labour Markets", in R. Dahrendorf, E. Kohler, F. Piotet (a cura di), New Forms of Work and Activity, Dublino, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions.

 

Cerved (1989), Movimprese. Movimento anagrafico delle imprese italiane, n. 2.

 

Chiesi A.M. (1986), Il tempo di lavoro nel settore della consegna immediata, Ires Papers, n. 10.

 

Chiesi A.M. (1990), "Un quadro di riferimento concettuale", in Democrazia e diritto, n. 1.

 

Chiesi A.M., Garbelli E. (1986), Tempo di lavoro e relazioni di lavoro al fast-food. I contributi di due ricerche, Ires Papers, n. 9.

 

Department of Employment (1990), "Women in the labour market", Employment Gazette, n. 12.

 

Distributive Trade EDC (1988), Part time working in the distributive trades, Londra.

 

Eurostat, (1987), EC employees survey 1985-86, Lussemburo, EC Press.

 

Eurostat (1990), Indagine sulle forze di lavoro. Risultati 1988, Lussemburgo, EC Press.

 

Isfol (1990), Rapporto Isfol 1990, Milano, Angeli.

 

Luciano A. (a cura di)(1989), Arti maggiori, Roma, NIS.

 

Nardone T.J. (1986),  "Part-time workers:  who are they ?", Monthly Labour Review, Vol. 109, n. 2

 

Pero L. (1990), "L'impresa chiede nuovi orari", in Democrazia e diritto, n. 1.

 

Piotet F. (1988), The Changing Face of Work, Dublino, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions.

 

 



[1]) L'importanza delle politiche del lavoro messe in atto dai governi sembra essere una delle variabili fondamentali nello sviluppo delle occupazioni atipiche.  Una recente ricerca della Fondazione Europea di Dublino nota che, mentre le misure di emergenza messe in atto per alleviare la disoccupazione giovanile tendono a divenire stabili, esse gradualmente contribuiscono alla modifica dell'immagine stessa dell'impiego, tramite la creazione di mansioni non standard con vari gradi di precarietà. (F. Piotet, 1988). Tale analisi sembra pienamente applicabili alla realtà italiana. Infatti una discreta percentuale di recenti assunzioni è avvenuta per periodi determinati e soltanto grazie a leggi dello stato. In particolare: i contratti di formazione lavoro (legge 863/84) hanno dato luogo, nel periodo 1984-89 a circa 1.800.000 assunzioni della durata media di 15-18 mesi; la legge sull'apprendistato (n.25/55), aggiornata tramite vari accordi, ha creato nello stesso periodo oltre 2.600.000 posti di lavoro; la legge 67/88 sui lavori socialmente utili ha generato, in poco più di 18 mesi, oltre 150.000 contratti di lavoro a termine (durata inferiore a 12 mesi) e part-time (un massimo di 80 ore mensili). (Per ulteriori dettagli si rimanda a: Isfol, 1990).

 

 

[2]) Va notato, per inciso, che differenziali retributivi di tal genere sono, stando ad una indagine condotta nel 1985-86 dalla Comunità Europea nei dodici Paesi membri (Eurostat, 1987), accettati con favore dal 56 % dei lavoratori dipendenti. Ma, al contempo, con grandi variazioni dovuti al Paese di residenza, al sesso (le donne sono meno favorevoli degli uomini) ed alla funzione svolta nell'organizzazione.

 

[3]) Gli straordinati, fino al raggiungimento delle 40 ore settimanali, vengono retribuiti senza maggiorazioni

 

[4]) L'azienda, con un certo anticipo, prenota circa 100 motociclisti che costituiranno la forza-lavoro di una data giornata. Le caratteristiche per essere potenziali collaboratori sono estremamente semplici: basta avere un motorino e conoscere, anche approssimativamente, la città.

 

[5]) Il termine "part time" è qui inteso non nella sua accezione corrente (legato alla quantità di ore lavorate), quanto alla possibilità di collaborare contemporaneamente anche con altre aziende. Va notato, per inciso, che tale metodo di lavoro ha una discreta diffusione tra i "nuovi professionisti" del terziario. (A. Luciano, 1989)

 

[6]) Semplice ma non infrequente: basti ricordare che, alla fine del 1989, escludendo le imprese commerciali, erano operative in Italia oltre 2.158.000 aziende. Il 61,9% avevano la forma giuridica di ditta individuale ed un ulteriore 20% erano società di persone. (Cerved, 1990)

 

[7]) Illuminante, in materia è l'ampissima documentazione statistica esistente nei paesi anglosassoni.(Cfr. T.J. Nardone, 1986; Eurostat, 1987; Distributive Trade EDC, 1988; Department of Employment, 1990).