Tempo e tempi.
Come cambia un concetto.
(di Patrizio Di Nicola per Libera Età - Aprile 1995)
1. Non ci
pensiamo quasi mai, ma noi tutti viviamo immersi nel tempo. E non solo (o almeno non tanto) nel tempo storico, ma in
quello, immediato e familiare, scandito dai minuti e i secondi dei nostri
orologi, siano essi vecchi “cipolloni” da panciotto, moderni apparecchi
digitali precisi al centesimo di secondo o coloratissimi Swatch. Si tratta di
un tempo estraneo alle nostre esigenze vitali. Quelle, come avveniva centinaia
di anni fa, continuano ad essere scandite dalle stagioni, dai cicli lunari, dal
giorno e dalla notte. Il tempo che viviamo (e, in buona parte, ci viene
imposto) nelle società moderne è funzionale alle esigenze della produzione.
Tutti coloro che hanno approfondito l’argomento concordano: sostituire il tempo
“della Chiesa” con quello “del Mercante” ([1]) e, successivamente, il
tempo della prestazione pre-industriale con quello scandito dalle sirene delle
fabbriche è stata una lotta tutt’altro che semplice, anche se dal risultato
scontato. ([2]) La modernità chiedeva l’abolizione dei vecchi modi di lavorare:
il San Lunedì, giornata che gli artigiani dedicavano a “rimettersi in sesto”
dopo gli stravizi domenicali (per poi accellerare i ritmi nei giorni successivi
per stare al passo con il lavoro) era una pratica da condannare e da abolire
nel capitalismo nascente. Le vecchie pratiche furono sradicate un po' in nome
della razionalità, in parte con l’aiuto dei precetti religiosi, molto con la
repressione dei comportamenti degli individui. Così, abolito anche il ricordo
di un modo pre-industriale di gestire il tempo di lavoro, divenne possibile
cominciare a contrattarne i contenuti e la durata. La risposta degli operai
industriali ai tempi della produzione è consistita, principalmente, nella lotta
(sacrosanta) per la riduzione dell’orario di lavoro (passato, nel corso di
duecento anni, da 60 a 40, 39, addirittura 35 ore). I capitalisti hanno
controbilanciato chiedendo, in nome del massimo sfruttamento degli impianti
(apparentemente dei mezzi tecnici, quindi, non delle persone), prestazioni
tanto flessibili quanto anomale rispetto ai cicli biologici umani. E’ così nata
una intera generazione (capostipite di altre generazioni) di turnisti,
lavoratori notturni, impiegati del sabato e della domenica, ecc. Un gruppo di
persone sfalsate rispetto ai tempi della società; per dirla con R. Fontana, che
ha svolto una delle migliori ricerche sulle conseguenze sociali del turnismo,
si tratta di soggetti assai strani: “in casa sono presenti nelle ore
<sbagliate> e sono assenti quando gli altri avrebbero bisogno di loro”.([3])
2. E’ solo
negli anni più recenti che inizia ad avanzare una rivendicazione nuova sugli
orari: quella di ridurli ma, nello stesso tempo, anche di personalizzarli. Un’esigenza che è stata “lanciata”, almeno nelle
sue coordinate generali, da una scuola socio-filosofica francese ([4]) ed è subito entrata nel
dibattito politico e sindacale, non solo del nostro Paese ([5]). La personalizzazione degli orari, in effetti, risponde ad una
richiesta di flessibilità che, congeniale al capitaliamo moderno, proviene anche dal versante dell’offerta: sempre
più si incontrano giovani, donne e anche pensionati disposti a lavorare purchè
non venga loro richiesta una prestazione standard, rigida, industriale. Sono
loro, in fin dei conti, che costituiscono buona parte di quell’esercito di
circa 900 mila disoccupati (un terzo di tutti quelli esistenti in Italia) che,
alle rilevazioni trimestrali Istat delle forze di lavoro dichiarano di non essere in condizione professionale
ma, allo stesso tempo, di cercare lavoro.
E’ perfettamente lecito, quindi, pensare che in una società che si avvia
ad essere permanentemente attiva non
sia più possibile chiedere ai cittadini di lavorare per 30, 35 o 40 anni
ininterrottamente per 1.600 ore l’anno, impegnando sempre lo stesso arco di
tempo giornaliero. E, tra l’altro, la disoccupazione di massa e le ricorrenti
crisi industriali già hanno messo in crisi profonda questo paradigma. Si inizia
a lavorare sempre più tardi, si finisce spesso anzitempo, prepensionati. Magari
dopo aver subìto periodi lunghi di inattività forzata: cassa integrazione,
liste di mobilità, ecc. D’altra parte,
dato che le crisi non sono uguali (nè in durata nè in gravità) per tutti i
settori produttivi e per tutte le professioni vi è, contemporaneamente, chi
svolge orari molto più lunghi di quelli contrattuali. Sia sotto forma di
straordinari che di doppio lavoro o addirittura doppia professione. ([6]) Tutto, quindi, concorre a
far pensare che il lavoro “tipico” (cioè quello basato sugli orari “inventati”
dall’industrializzazione) sia vicino alla fine del proprio ciclo vitale.
3. Ma il
passaggio da un regime orario all’altro (dal vecchio al nuovo, se così si
preferisce) difficilmente potrà giungere a compimento se non si metterà mano
anche ai tempi della società. L’orario
dei servizi, ad esempio, dovrà adattarsi ad una popolazione variegata, per cui
l’orario di lavoro cambierà, si espanderà e si accorcerà a secondo delle
esigenze personali (forse in futuro) e (già adesso) della produzione. Ne
abbiamo alcuni esempi sotto gli occhi: l’orario dei negozi, nei periodi di
punta (a Natale, ad esempio) si espande a dismisura per permettere che il rito
dei pacchetti sotto l’abete abbia luogo; le fabbriche ove, per produrre il
modello di punta o l’oggetto più venduto, si introduce il turno notturno e
festivo, con conseguente via vai di parti che, nella logica del just in time, approdano allo
stabilimento a qualsiasi ora del giorno e della notte (e del resto gli
ecologisti giapponesi accusano proprio il just in time di aver contribuito
all’aumento dell’inquinamento da ossido di carbonio nelle loro città). Tutto
questo cambia la geografia sociale di quelle zone. I sincronismi sociali di cui
parla A.M. Chiesi ([7]) resistono tenacemente, ma
sembrano oggi in via di destabilizzazione, se non ancora in corso di
riprogettazione. Quando il processo sarà giunto a compimento, ci troveremo ad
abitare in una società diversa. Non necessariamente migliore, se la logica che starà
dietro ai nuovi regimi sociali degli orari sarà soltanto quella del profitto e
del mercato. Esiste sempre il rischio che i gruppi socialmente forti possano
rimodellare gli orari della società a loro vantaggio, obbligando i deboli a
subirne le conseguenze. Si tratta, quindi, di un problema di negoziazione e di
equità: permettere a tutti, al lavoratore tanto quanto al pensionato e alla
casalinga di trovare la propria collocazione all’interno di un sistema di orari
sociali multipli, in cui possano convivere sia le esigenze della produzione (e
della riproduzione) che quelle, spesso compresse, della socialità.
[1]) Il riferimento, ovvio, è al bei saggi contenuti in J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977.
[2]) Una rassegna esaustiva di letteratura in
argomento si trova in A. Accornero, Il
mondo della produzione, Bologna, Il Mulino, 1994 (in particolare alla
pagina 30 e seguenti).
[3]) R. Fontana, Vivere controtempo. Conseguenze sociali del lavoro a turni,
Bologna, Il Mulino, 1992, pag. 21.
[4]) A. Gorz, ad esempio, affermava sin dal 1988
che “la riduzione lineare del tempo di lavoro, col mantenimento di orari rigidi
ed uniformi, è la meno promettente e la meno efficace delle possibilità di
liberare tempo” , proponendo in alternativa la desincronizzazione degli
orari e dei periodi di lavoro. (A.
Gorz, Métamorphoses du travail,
Paris, Editions Galilée, 1988 [Trad. it:
Metamorfosi del lavoro. Critica
della ragione economica, Torino, Bollati Boringhieri, 1992]). Sulla sua
scia, pochi anni dopo, G. Aznar presenterà venti proposte intese a ridurre
l’orario di lavoro a parità di reddito e senza diminuzione della produttività:
un mix assai difficile da ottenere. (Cfr: G. Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti. Venti proposte, Torino, Bollati
Boringhieri, 1994).
[5]) Assai
di recente, ad esempio, un sindacalista attento alle mutazioni della società
come A. Lettieri (Cgil) ha notato che la riduzione dell’orario di lavoro come
rivendicazione sindacale va ripensata: dai minuti giornalieri (ed ore
settimanali) si deve passare a ragionare sui periodi di vita (e ciò implica
l’accettazione che dalla continuità della prestazione bisogna passare alla
discontinuità) e, anche, che la diminuzione d’orario a parità di salario non
deve più costituire un dogma per le organizzazioni dei lavoratori. (Cfr. A.
Lettieri, <Postfazione> a B. Ugolini, I
tempi del lavoro. Un viaggio nel pianeta degli orari, Milano, Rizzoli,
1995).
[6]) Si
veda, in argomento, la bella ricerca curata da L. Gallino, Il lavoro e il suo doppio, Bologna, Il Mulino, 1985.
[7]) Il riferimento, ovviamente, è a A.M. Chiesi, Sincronismi sociali. L’organizzazione
strategica della società come come problema sistemico e negoziale, Bologna,
Il Mulino, 1991. Ma anche Accornero
(vedi intervista su questo stesso numero) vede nei sincronismi il vero punto
cruciale da risolvere per dipanare la matassa dei regimi orari.