Recensione: Luciano Gallino, Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione, Einaudi, Torino, 1998, pagg. 257, Lire 26.000

 

Di Patrizio Di Nicola

 

Pubblicata su "Il diritto del mercato del lavoro"

 

 Il titolo è sicuramente ad effetto, e il testo è scritto con chiarezza, per giungere su un binario preferenziale ai politici, ai colleghi dell'accademia, ma soprattutto alle persone qualunque. L'ultimo libro del grande sociologo italiano affronta il problema della disoccupazione. Ma ancor di più  vuole mettere in discussione - a volte persino ridicolizzandolo - quello che l'autore definisce "PEC", il Pensiero Economicamente Corretto. Il PEC, che tracima da alcuni saggi economici e  dalle pagine di giornali, è composto di una serie di affermazioni - ripetute da esperti e decision maker - perentorie e che non ammettono dubbi (quali: l'occupazione aumenterà se ci sarà la ripresa economica, se il sistema diviene flessibile e i sindacati lasceranno alle aziende la possibilità di licenziare, se i giovani, anziché il posto fisso, aspirassero ai lavori atipici, ecc.), ma che l'autore cerca di smontare una ad una. Secondo Gallino, infatti, le idee correnti sulla disoccupazione e sul modo di combatterla non possono funzionare, in quanto partono da presupposti sbagliati.  L'analisi che ne segue - in pratica il primo terzo del libro - è estremamente efficace, anche se a tratti eccessivamente semplificata. Ha però il pregio di cogliere il conformismo economico diffuso anche in parte della ricerca, che spesso avanza per parole chiave cui viene attribuita una valenza quasi magica. Si pensi al concetto di globalizzazione, che, seppur in bocca a tutti,  è ancora in buona parte da spiegare, almeno nei suoi effetti a lungo termine sul mercato del lavoro.  Così, con una verve inattesa, Gallino tira colpi a destra e a manca, prendendo di mira molti degli argomenti all'ordine del giorno nell'agenda politica e della ricerca. I ritratti sono spesso gustosi e sempre arguti, come nel campionario che si propone di seguito:

·        Al mito della ripresa che genera occupazione l'autore oppone l'evidenza statistica italiana: in trenta anni il Pil è cresciuto del 100%, ma il numero degli occupati è aumentato soltanto del 2,1%, quindi di 400 mila unità. Ma nello spesso periodo i cittadini residenti sono aumentati di oltre 6 milioni;

·        L'idea che la tecnologia crei, sul lungo termine, più posti di lavoro di quanti ne distrugga era valida, afferma l'autore, in passato, ma non più ai giorni nostri. L'aumento di produttività dato dalle nuove macchine può generare un saldo occupazionale positivo soltanto se i mercati assorbono più merci. Ma in Italia le aziende operano su mercati maturi e in parte statici e l'esportazione in questi settori è tutt'altro che facile. Perciò "un paese che compra per la maggior parte una tecnologia progettata e sviluppata da altri, aumenta la produttività, vede quindi diminuire i posti di lavoro, ma non li vede ricreati da quella tecnologia" (pag. 17)

·        Il consiglio di fare "come gli americani", che sembrano essere riusciti a creare una job machine fenomenale, è basato su presupposti ingannevoli. Infatti da una parte l'aumento dei posti di lavoro è conseguenza diretta dell'aumento della popolazione (passata, tra il 1980 e il 1995 da 227,8 a 263,4 milioni di unità). Dall'altra la performance occupazionale americana è aiutata da un meccanismo statistico un po' disinvolto. Tra gli occupati, infatti, sono conteggiati: 6 milioni di studenti tra i 16 e 24 anni, che hanno pero' lavorato almeno un'ora nella settimana precedente la rilevazione (magari lavando la macchina del vicino o distribuendo i giornali prima di andare al college); 20 milioni di contingent workers, persone che lavorano saltuariamente, quando possono; 23 milioni di occupati part-time, i quali, in realtà, corrispondono a 12 milioni di posizioni lavorative full time. E come sovrastimano gli occupati - nota Gallino - le statistiche ufficiali made in Usa sottostimano i disoccupati, che, applicando i criteri europei, dovrebbero essere, anziché 5,3% della popolazione, oltre il 12%. Quindi un po’ più della media europea.

·         All'idea che lo stato sociale sia il maggior responsabile degli scarsi livelli occupazionali Gallino oppone alcuni "strani casi": l'Italia, con il 12,2% di disoccupati, spende per le prestazioni sociali il 25,1% del Pil, mentre l'Olanda, che ha un tasso di disoccupazione del 6,5, spende di più: il 29,8%. La Danimarca, paese ove la disoccupazione è ai minimi europei, getta nello stato sociale il 32,7% del Pil. All'opposto la Spagna, che investe nel welfare meno di noi, ha una disoccupazione superiore al 22%. Quindi "non sussiste (…) alcuna prova plausibile che meno stato sociale voglia dire maggiore occupazione". Forse è il contrario: il welfare non costituisce in fondo un fattore di produzione ?

 

Alla domanda "dove finiscono i posti di lavoro ?" è dedicata la parte centrale del volume. Gallino individua una serie di "buchi neri mangialavoro", che vanno dall'automazione ricorsiva (cioè quella delle macchine - ivi inclusi i software - sempre più sofisticate, che costruiscono, con il minimo contributo umano, nuove macchine, le quali ne costruiranno altre) sino alla reingegnerizzazione organizzativa, che snellisce le aziende sia portando fuori parti di produzione, sia terziarizzandone altre. In ogni caso, afferma Gallino, questi processi sono sempre supportati da consistenti tagli degli organici: ristrutturare senza licenziare non si può, come non è possibile licenziare senza la scusa di ripensare i processi.  Alle innovazioni nell'impresa fanno da complemento - sempre con il risultato di far svanire lavori - i processi di delocalizzazione delle produzioni verso le aree povere (facilitati anche dalla telematica), la terzomondizzazione delle aree sviluppate, ove cresce l'economia sommersa e alcuni mestieri sono ormai introvabili nel mercato ufficiale del lavoro e, infine, la finanziarizzazione del mondo, un processo che fa sì che le imprese trovino più redditizio operare sui mercati finanziari che non produrre beni e servizi per la vendita.

 

La terza e ultima parte del libro propone una serie di riflessioni per uscire dall'impasse occupazionale. In estrema sintesi Gallino parte dall'assunto che, in Italia, esiste una vera e propria "miniera di lavoro" che non viene sfruttata. Le aree di crescita occupazionale sono molteplici: la difesa del suolo e dei cittadini, i beni culturali, i trasporti, la formazione e la ricerca. La strada che Gallino individua, quindi, non è quella di "moltiplicare gli oggetti" da tenere in casa, in ufficio o addosso, ma bensì creare lavoro finalizzato al miglioramento della qualità della vita, anche rileggendo il ruolo della famiglia come datore di lavoro. Perché questa "miniera" possa davvero creare lavoro, è però indispensabile "allungare l'orizzonte temporale della politica" (pag. 155). Quindi i cittadini, alle elezioni, non dovrebbero premiare chi fa scelte contingenti, magari promettendo lavori improbabili a breve termine, ma coloro che presentano programmi e buone idee a lunga scadenza. Le forze politiche, dal canto loro, dovrebbero riuscire a creare una vision innovativa dello sviluppo, che in parte rinneghi anche le proprie ideologie: per la sinistra, ad esempio, sarà bene ripensare il ruolo della grande impresa, stimolando le aziende piccole a divenire grandi. La destra, viceversa, dovrà riconsiderare lo slogan "meno stato nell'economia": uno dei problemi italiani è proprio la mancanza di una vera politica industriale.

 

In definitiva il "libro dei sogni" di Luciano Gallino è sicuramente affascinante ma, come tutte le visioni a lunga scadenza, difficile da realizzare in un paese che, per sua cultura, è poco incline alla programmazione e sembra mare la risoluzione dei problemi giorno per giorno. Ad avviso di chi scrive l'autore trascura di affrontare almeno due grandi mali italiani, che ostacolano seriamente lo sviluppo occupazionale: da una parte il sistema creditizio, dall'altra la Pubblica Amministrazione. Le banche italiane (e in buona parte anche quelle europee) sono strutture estremamente conservative, poco portate ad investire nelle attività produttive. La richiesta di "solide garanzie", ad esempio, fa si che da noi difficilmente riescano a nascere imprese innovative, come ad esempio quelle di produzione del software. Eppure proprio la produzione di software richiede grandi investimenti: negli Usa, in questi giorni, la Microsoft ha messo all'opera 5000 programmatori per realizzare Windows 2000, la nuova versione del famoso sistema operativo.  E quale banca tradizionale avrebbe finanziato la Netscape, un'azienda nata, all'inizio, con la strategia di "regalare" il proprio software su Internet ? Se avessimo avuto, come in Usa e in Giappone, almeno i fondi pensione e il venture capital, forse la storia sarebbe stata differente. La Pubblica Amministrazione, infine, seppur trascurata nell'analisi di Gallino, ha un ruolo importante nell'espansione occupazionale. E ciò non tanto perché gestisce gli uffici di collocamento - che come nota Accornero per ironia della sorte sono stati chiamati della "massima occupazione" pur non riuscendo a trovare lavoro quasi a nessuno - ma in quanto rendere efficienti gli uffici, farli divenire davvero volani di sviluppo e  non, come spesso sono oggi, statiche fabbriche di complicazioni burocratiche, equivarrebbe a far crescere il PIL di almeno il 4-5 %, creando un ambiente favorevole per gli investimenti produttivi. Da questa impasse non si può che uscire in due modi: o rivoluzionare culturalmente la PA, operando altresì un drastico rinnovamento degli organici, oppure rendere meno invadente il ruolo della parte pubblica - sia nelle attività economiche che nella vita privata dei cittadini. Ma questo, forse è un altro libro.