MODIFICHE
DELL'ORARIO DI LAVORO
(Patrizio Di
Nicola, 1993)
Nel corso degli anni più
recenti i regimi orari nei posti di lavoro hanno subito modifiche
profonde. La flessibilizzazione e,
ancor di più, la diversificazione dei tempi, tra settori e aziende diverse, ma
anche all’interno di una stessa impresa, è un processo ancora in gestazione ma
che arriverà presto a una fase di maturità.
Già oggi, anche se non ci si fa più caso, abbiamo a disposizione, tutti
i giorni dell’anno, servizi che prima erano impensabili: i supermercati sono
aperti, come anche molti negozi, e non solo quelli che vendono generi di prima
necessità. I trasporti, urbani e non, sono sempre assicurati e così vorremmo,
oltre che far la spesa la Domenica, anche andare a visitare i musei nei giorni
di festa. La nostra automobile, poi,
forse è stata prodotta in un giorno di festa o nel cuore della notte. Le conseguenze che questo ha sulla vita
quotidiana di milioni di persone sono tutt’altro che univoche.
Il week end libero da
impegni lavorativi è una conquista recente per molti lavoratori. Nata negli
anni Trenta e adottata anche in Italia in vari settori industriali a partire
dal 1960, la settimana corta rappresentava un modo per recuperare le forze dopo
un periodo di lavoro reso intenso dalla produzione di massa taylor fordista e
si inseriva in un filone di rivendicazioni storiche - la riduzione del tempo di
lavoro- della classe operaia. Il week
end libero è durato pochissimo, attaccato quasi subito dell’avvento della
società post industriale: attualmente circa un lavoratore su quattro, nei paesi
dell’Unione Europea, lavora al sabato o alla Domenica; e a volte in entrambe le
giornate, come si vede dalla tabella 1 ([1]).
Tab. 1 - Lavoratori europei abitualmente impegnati nel week end (%,
1993)
PAESI |
Sabato |
Domenica |
Totale |
Grecia |
44,4 |
15,1 |
59,5 |
Spagna |
38,6 |
14,8 |
53,4 |
Italia |
41,6 |
8,1 |
49,7 |
Irlanda |
31,4 |
17,9 |
49,3 |
Danimarca |
27,0 |
19,8 |
46,8 |
Germania |
21,9 |
19,8 |
41,7 |
Portogallo |
28,9 |
12,0 |
40,9 |
Paesi Bassi |
25,7 |
13,6 |
39,3 |
Regno Unito |
23,9 |
11,8 |
35,7 |
Francia |
25,4 |
8,5 |
33,9 |
Lussemburgo |
20,2 |
9,7 |
29,9 |
Belgio |
18,3 |
9,3 |
27,6 |
UNIONE
EUROPEA |
28,2 |
11,0 |
39,2 |
L’indagine
multiscopo condotta dall’ISTAT nel 1988-89 riportava, per l’Italia, dati ancora più eclatanti, se si pensa che
la Domenica è, nella dottrina cattolica, il giorno dedicato al riposo: nella
mattina del giorno festivo erano normalmente impegnati in una qualche forma di
attività retribuita, almeno il 16% dei
lavoratori maschi e il 9% delle donne ([2]),
come si vede dalla figura che segue.
Figura 1: Lavoro retribuito
svolto alla Domenica. (Valori percentuali per fascia oraria)
Non sempre
lavorare al Sabato o alla Domenica denota la necessità di prestare un servizio
continuativo, come negli ospedali, o l’indispensabilità di alimentare impianti
che utilizzano tecnologie critiche, come nel caso della chimica. Sempre più
spesso l’effetto ricercato è l’ottimizzazione degli impianti, l’aumento della
produttività, la necessità di costruire palazzine o strade nei tempi previsti,
o semplicemente permettere ad alcuni di faro lo shopping. L’aumento dei giorni lavorativi, in molti
casi, viene scambiato con un minor orario settimanale. Così è avvenuto, ad
esempio, in vari contratti siglati in Italia nel 1995-96: all’Arcotronics, alla
RCM di Bologna, alla Bonfiglioli. In tutti questi casi si è scesi alle 33 ore
settimanali o meno, ma con un aumento dei turni e delle giornate
complessivamente lavorate nel corso dell’anno. I tessili, che in Italia hanno
per primi affrontato con creatività la richiesta di lavorare per più giorni,
sono arrivati, in vari casi (si pensi alla Filatura di Cividate) a valori
altissimi nell’utilizzo degli impianti (nel caso citato addirittura 347 giorni)
cui corrisponde pero’ un orario settimanale di 32 ore, pagate come 40. Si tratta di risultati che hanno soddisfatto
entrambe le parti, e sono state rese possibili, spesso, grazie all’impiego
delle tecnologie labour saving, che
aumentano la produttività individuale e collettiva. Si tratta di più che semplici esperimenti: ci si avvia verso la
normalità. Bruno Ravasio, utilizzando dati di fonte aziendale, ha dimostrato
come, in una tipica fabbrica tessile, passando da una settimana di sei giorni
lavorativi a una di sette il margine operativo lordo aumenti di oltre il 20%,
mentre l’utile prima delle imposte quasi raddoppia. Esistono, quindi, le
condizioni economiche “per una forte riduzione d’orario” ([3])
Sommovimenti
simili a quelli italiani sono in corso un po’ dappertutto nel mondo. Le nuove
tecnologie, come detto, permettono di
riconquistare facilmente le riduzioni d’orario con l’aumento della
produttività. Sappiamo ancora poco invece di quello che accade ai tempi di
vita, quando si deve riconfigurare la vita familiare e sociale attorno ad un
orario ridotto. E’ certo però che non per tutti meno orario coincide con
più tempo libero. E ciò non solo perchè, come spesso avviene, le ore liberate
vengono dedicate ad una seconda attività o addirittura a una seconda
professione. Il tempo è diverso a secondo del genere del fruitore. La
Fondazione Europea, in una ricerca svolta su un campione di donne è giunta alla
conclusione che chi lavora ad orario ridotto dedica a se’ stessa soltanto 45
minuti al giorno in più (15 minuti al riposo e 30 al tempo libero). Il resto se
ne va verso le attività di cura domestica.
([4]).
Un grande
esperimento di ingegneria sociale derivante dalla riduzione e diversificazione
degli orari di lavoro si sta svolgendo alla Volkswagen tedesca. Li’, come noto, anzichè licenziare migliaia
di lavoratori, si è scelta la strada della “fabbrica che respira”: una
riduzione del tempo di lavoro che, articolato su 156 moduli differenti, ha
portato ad un orario medio di 28,8 ore settimanali. E ciò a fronte di un calo
delle retribuzioni nella misura dell’11-12 %. Uno scambio conveniente, ma solo
in apparenza. Una ricerca condotta da un team italiano ([5]) ha messo in risalto come i
cambiamenti d’orario e la riduzione, seppur moderata, di risorse a
disposizione, hanno avuto effetti negativi per molte famiglie, per l’ambiente
sociale della fabbrica e per la comunità circostante. In fabbrica è aumentato
la pressione sui rendimenti individuali: in meno tempo bisogna fare lo stesso
lavoro di prima, e alla catena di montaggio il ritmo è più serrato. Tra
colleghi è difficile aiutarsi e ritagliarsi tempo per le piccole pause cui si
era abituati. In famiglia si passa più tempo, ma non è detto che questo sia
positivo. Per molte donne “avere il marito tra i piedi” durante lo svolgimento
delle faccende domestiche costituisce un problema. Per altri operai il tempo
libero è speso in solitudine: sono molte le donne che hanno iniziato a lavorare
per compensare i minori redditi. Anche
la struttura economica ha sofferto della riduzione delle retribuzioni: i
piccoli commercianti accusano perdite a volte consistenti. Ma gioiscono i
negozi specializzati nel fai-da-te, che hanno conquistato un gran numero di
clienti.
Quel che emerge
con maggior risalto dalla vicenda della casa automobilistica tedesca è la non
asetticità dei diversi modelli di riduzione di orario. Chi lavora meno ore al
giorno ha una vita tutto sommato uguale a prima: mantiene il proprio modello di
comportamento, al massimo dedica più tempo al riposo e alla vita famigliare. E
si lamenta anche di più della riduzione di stipendio. Chi invece ha più giorni liberi nel corso della settimana deve
riorganizzare il proprio tempo, riempiendo i giorni liberi con attività di
bricolage o spendendolo con la famiglia. Assai complessa è infine la situazione
di coloro che hanno avuto una riduzione concentrata su base mensile (3
settimane ad orario normale e nove giorni liberi consecutivi). In questo caso
il lavoratore (e la famiglia) deve reinventare le proprie strategie di impiego
del tempo. In nove giorni si può affrontare un’attività impegnativa, come
ridipingere l’appartamento o fare un viaggio. Ma questa possibilità viene a
volte sprecata, o si trasforma di nuovo in lavoro per chi possiede abilità da
spendere e necessità economiche.
Il tempo si è
diversificato per una quantità sempre maggiore di lavoratori. Si ha
l’impressione che ci si sia davvero
allontanati definitivamente dal paradigma, nato con l’industrializzazione e
adottato poi dai movimenti socialisti e sindacali di tutto il mondo, dell’esercito del lavoro. Il paragone con un’organizzazione rigida,
gerarchica e standardizzata come quella militare era tutt’altro che casuale e
ben si adattava, in fondo, alla fabbrica (ma anche all’ufficio) che sino a poco
tempo fa definivamo moderno. Quella, infatti era (o è) una costruzione sociale
che faceva della prestazione standardizzata o da standardizzare (a secondo che
si pensi al lavoro degli spalatori studiato da F.W. Taylor o, molto prima di
lui, alle riflessioni di A. Smith sulla fabbricazione degli spilli) la sua base
ineliminabile. E della contemporaneità
della presenza dei lavoratori in fabbrica la sua conseguenza più evidente:
“dove l’industria s’insedia essa fa cambiare le abitudini, e l’inesorabile
disciplinamento comincia appunto dalle scansioni temporali” ([6]). Di conseguenza, se questa stabilità viene meno, se gli orari di
lavoro perdono la loro rigidità, se si flessibilizzano, dobbiamo attenderci
mutamenti non soltanto circoscritti al luogo di lavoro. Se si tocca una cultura, gli effetti sono sistemici e
passano in fretta dal luogo di lavoro alla società..
[2]) ISTAT, Indagine
multiscopo. L’uso del tempo in Italia, Notiziario Istat, n. 4, dicembre
1990.
[3]) Bruno Ravasio, “La riduzione possibile”, in Rassegna Sindacale, n. 5, 27 febbraio
1996
[4]) European
Foundation, VPart Time Work, Rapporto BEST,
n. 8, 1995
[5]) Fabrizio Giulietti, Katia Gotnich, Stefano
palumbo, Il castello infranto.
Volkswagen: una risposta allo “sviluppo senza lavoro”, Svimservice, Bari,
1996
[6]) Aris Accornero, Il mondo della produzione, Il Mulino,
Bologna, 1994, pag. 67