Indagine
1996 sui lavoratori dipendenti veneti.
(di Patrizio Di Nicola, Sociologo, Università di Roma,
“La Sapienza”)
1.
Soddisfatti nel lavoro, tranquilli circa la sua
stabilità, razionali nelle aspettative,
hanno un rapporto travagliato con il sindacato e le Istituzioni e sono alla
ricerca di nuovi referenti politici forti. Questa, in sintesi, l’immagine dei
lavoratori dipendenti veneti tratteggiata da una ricerca svolta tra dicembre e
gennaio dalla Fondazione Corazzin di Venezia in collaborazione con IRES e CREL
regionali.
Per svolgerla, sono stati intervistati telefonicamente
800 addetti dell’industria e del terziario, in maggioranza (60%) di sesso
maschile. Oltre la metà aveva partecipato ad una analoga indagine svolta nel
1993; questo ha permesso ai ricercatori di sovrapporre e confrontare le due
“fotografie”, ottenendo così dati e comparazioni di enorme interesse.
Le sfere indagate sono tre: il lavoro, il rapporto con
il sindacato, i valori e le opzioni politiche.
2.
Per la maggioranza degli intervistati le condizioni di
lavoro sono rimaste stabili rispetto a tre anni prima, se non sono addirittura
migliorate. Soltanto il 16% dei lavoratori - una quota comunque consistente-
percepisce un peggioramento, dovuto più che alla retribuzione o agli orari, al
pesante aumento dei carichi di lavoro.
In periodo di crisi -agli intervistati era chiesto di comparare la
propria situazione lavorativa con quella di tre anni prima- , quindi, il lavoro
diviene più pesante in forza della sua intensità, a dimostrazione che difronte
alle difficoltà le imprese venete, a differenza di quelle di tante altre parti
del mondo, sono ricorse a forme “soft” di down-sizing.
“Lavorare di più, rimanere gli stessi”, sembra essere stata la parola d’ordine
di molti imprenditori della regione.
Assai più critica è invece la situazione economica. Se il 45% di lavoratori dichiara, rispetto
all’anno precedente, una sensazione di stabilità economica e il 13% un leggero
miglioramento, il rimanente - 4 persone su 10- lamenta invece un peggioramento
del proprio potere d’acquisto. La mappa del disagio mette ai primi posti quei
lavoratori che un tempo avremmo detto “forti”: le lamentele si concentrano nei
gruppi di età compresa tra i 40 e i 47 anni, occupati nel terziario e nel
settore pubblico, impiegati e dirigenti, dipendenti delle grandi aziende,
iscritti ai sindacati. E’ probabile che si tratti di un disagio relativo anzichè assoluto, una lagnanza che proviene da lavoratori che più di altri
erano abituati a vivere agiatamente, recuperando con il proprio lavoro gli
aumenti del costo della vita e forse qualcosa di più. Il senso di privazione, per loro, è tanto più pungente quanto
inaspettato. Accanto a ciò (e forse in
conseguenza di quanto detto), il rapporto stilato dai tre istituti di ricerca
evidenzia l’esistenza di una estesa propensione dei lavoratori veneti al miglioramento
ricercato tra i lavori anzichè nel lavoro. Circa un intervistato su quattro afferma di cercare un nuovo
impiego, uno su tre pensa che per migliorare la propria situazione non vi sia
altro mezzo che la mobilitazione individuale sul mercato del lavoro. Più
propensi all’exit sono i giovani, le
donne, i lavoratori con alti titoli di studio, quelli delle piccole imprese. In
pratica, l’identikit tipico lavoratore
non iscritto al sindacato. Gli iscritti, al contrario, cercano, per
dirla con le parole dell’economista Mancur Olson, i miglioramenti tramite la voice, la mobilitazione collettiva
guidata dalle organizzazioni di rappresentanza. Ma il lavoro - il rapporto lo mette in evidenza- pur se
rappresenta una dimensione importante nella vita degli individui, non è più
un’entità totalizzante, in grado da solo di fornire un’identità. Soltanto il 7%
degli intervistati pone il lavoro al primo gradino della propria scala di
valori; all'inverso il 36% ne ha una visione espressamente strumentale:
lavorare è soltanto un modo per mantenersi.
E questo approccio, naturalmente, aumenta per i lavoratori manuali e con
più basso titolo di studio, a dimostrazione della scarsa “umanità” del lavoro
per tutti quelli che non hanno l’attrezzatura culturale per “farsi valere”. Si
tratta di un aspetto che indica terreni nuovi di rivendicazione alle
organizzazioni sindacali: oggi più che ieri la formazione e la partecipazione
dei lavoratori ai processi di ristrutturazione delle aziende assumono per molti
una importanza centrale nel far ridiventare il lavoro un’attività gratificante
e non meramente penosa.
3.
La parte della ricerca dedicata al rapporto tra
lavoratori e sindacato conferma i risultati ottenuti in molte indagini
precedenti. Il tasso di
sindacalizzazione, rispetto al 1993, non si è modificato. Oltre un lavoratore
su tre aderisce ad una organizzazione, quasi sempre (92%) confederale. La
sociografia dell’iscritto è quella ormai nota: maschio, elevata anzianità
aziendale, ha un titolo di studio basso, lavora come operaio nella grande
industria o è un impiegato pubblico, politicamente è orientato nell’area
progressista. E’, insomma, la
descrizione dello “zoccolo duro” del sindacalismo confederale, che purtroppo,
anche in Veneto, conferma la difficoltà ad attrarre i nuovi soggetti che
popolano il mercato del lavoro. Si tratta di una situazione che preoccupa i
sindacalisti ed è oggetto delle discussioni di molti studiosi di relazioni
industriali: in assenza di fatti nuovi (ad esempio politiche sindacali
specificamente mirate ai giovani e alle alte professionalità) il fattore tempo
gioca contro le grandi organizzazioni di rappresentanza. Al sindacato i lavoratori veneti chiedono
cose sostanzialmente diverse rispetto a pochi anni fa: allora la maggiore
preoccupazione era la difesa dei livelli occupazionali. Ora, passata la fase
acuta della crisi, ci si aspetta soprattutto un maggiore impegno per la difesa
delle retribuzioni e, soprattutto, la lotta per l’equità fiscale (si veda la
tabella 1).
Tabella
1: Cosa dovrebbe fare il sindacato (valori percentuali)
|
1993 |
1996 |
Difesa
dell’occupazione |
61 |
39 |
Difesa
delle retribuzioni |
8 |
14 |
Ridurre
le tasse per i lavoratori |
31 |
47 |
Si tratta di richieste in cui si intrecciano più
dimensioni. Da una parte la caduta delle preoccupazioni occupazionali sembra in
parte giustificata in una forza lavoro che opera in regioni ove il substrato
economico ha risentito meno della disoccupazione; dall’altra i livelli record
di imposizione fiscale, ritenuti intollerabili e ingiusti, vengono visti dai
lavoratori come una specie di “vampiro” che drena inesorabilmente le risorse
conquistate per via contrattuale. Si spiega così, a nostro avviso, anche l’alto livello di aspettative che vengono
riposte nell’organizzazione sindacale: in un quadro politico in forte
mutamento, molti lavoratori chiedono al sindacato di impegnarsi per supplire
alle carenze di rappresentatività del quadro politico. Alla domanda se il sindacato debba
impegnarsi attivamente in politica rispondono positivamente il 55% degli
intervistati. Ma i modi ipotizzati dai ricercatori per tale impegno “spaccano”
il campione in due parti all’incirca uguali. Il 46% di chi risponde
positivamente alla domanda preferirebbe una partecipazione indiretta - sul
modello inglese e americano -, tramite l’appoggio esplicito ad una delle
formazioni presenti nella competizione elettorale. Il restante 54%, per contro,
sarebbe favorevole alla creazione ex-novo di una forza politica che rappresenti
direttamente i lavoratori nelle assemblee elettive. Ma con o senza rappresentanza parlamentare, le organizzazioni
sindacali rimangono, nell’opinione dei lavoratori, istituzioni importanti: il
63% è certo che, senza sindacati, le cose in Italia andrebbero peggio. Soltanto
il 9% la pensa inversamente. Si conferma, così, l’ampia area di consenso che
circonda il sindacalismo confederale, che va ben oltre il mero numero degli
iscritti. Anzi, come affermano molti, in un mondo del lavoro radicalmente
mutato, il tasso di sindacalizzazione non sembra più costituire una misurazione attendibile della
penetrazione sindacale tra i lavoratori dipendenti. Questo non significa, però,
che il sindacato si trovi ai vertici della considerazione degli intervistati.
Rispondendo ad una domanda sul grado di fiducia riposta nelle diverse
istituzioni, i lavoratori attribuiscono ai sindacati soltanto il settimo posto,
dopo le forze dell’ordine, la magistratura, la scuola, la chiesa e,
addirittura, dopo le banche e le organizzazioni imprenditoriali. E’ un giudizio duro, condiviso con poche
differenze anche dai lavoratori iscritti.
Passando dai livelli macro a quelli micro, le
richieste dei lavoratori si incentrano principalmente sulla formazione (28%)
-considerata, anche alla luce della estrema propensione a cambiare lavoro, una
variabile strategica -, sulla tutela della salute (27%) e sulla adattabilità
dell’orario di lavoro alle proprie specifiche esigenza, richiesta oggi dal 22%
degli intervistati (erano il 15% nel 1993). Diminuisce invece, nel triennio
considerato, l’interesse alla partecipazione: questa opzione è indicata dal 23%
dei lavoratori veneti, contro il 29 %
del 1993.
4.
Una apposita sezione del questionario era dedicata
alla collocazione politica degli intervistati. Anzichè tentare di misurare,
come fanno abitualmente gli istituti di sondaggi, i risultati che si
otterrebbero in ipotetiche elezioni, i ricercatori hanno privilegiato gli
aspetti dell’autocollocazione nello spazio politico in un continuum
destra-sinistra e la “vicinanza” ad ogni singolo partito attualmente presente
in parlamento. I risultati, quindi, vanno letti come adesioni valoriali anzichè
come propensione di voto.
Tabella 2: L’autocollocazione politica (valori
percentuali)
1993 1996
|
Campione di lavoratori |
Insieme della popolazione |
Campione di lavoratori |
Insieme della popolazione |
Destra/
Centro-Destra |
14 |
21 |
21 |
29 |
Centro |
12 |
13 |
13 |
20 |
Centro-Sinistra |
16 |
20 |
20 |
15 |
Sinistra |
24 |
21 |
21 |
8 |
Non
si colloca |
34 |
25 |
25 |
28 |
Come si vede dalla tabella 2, tra il 1993 e il 1996
diminuisce il numero di coloro che non si riconoscono nelle definizioni dello
spazio politico identificate dal binomio destra/sinistra, rimane stabile
l’identificazione con l’area progressista (sinistra e centro-sinistra), mentre
aumenta dal 14 al 21% la quota di lavoratori che si posiziona esplicitamente
nell’area di destra. Ciònonostante i lavoratori dipendenti veneti sono molto
più orientati a sinistra che non i loro concittadini, come dimostra la
comparazione condotta utilizzando i
risultati ottenuti da I. Diamanti in un sondaggio regionale nel 1995. Non è certo una novità, ma un risultato che
conferma ricerche analoghe svolte in altre regioni italiane. Anche la domanda circa la vicinanza ideale ai diversi partiti non
riserva sorprese, almeno se si considera che lo studio si è svolto in una
regione ove la crisi politica degli ultimi anni ha disgregato la DC, partito
che non solo aveva la maggioranza dei consensi, ma anche un ampio retroterra
culturale. Un po’ “orfani” di appartenenze, i lavoratori dipendenti intervistati
simpatizzano per le formazioni che esprimono “valori forti”: il 33% si dichiara
vicino alle posizioni dei Verdi, il 29% alla Lega, il 28% al PDS, il 21% ad
Alleanza Nazionale, il 17% ai neo comunisti di Bertinotti, mentre soltanto il
18% si identifica con il partito-azienda di Berlusconi. Ma si tratta, come detto, di affinità. Non è
detto che, al momento delle elezioni, si votino proprio quelle formazioni.