La “strana”
flessibilità del mercato del lavoro italiano.
(di
Patrizio Di Nicola)
1. Premessa
Che il mercato del lavoro italiano sia malato di
eccessiva rigidità viene riaffermato, con argomentazioni più o meno raffinate,
con discreta regolarità. Due le principali
correnti di pensiero. Da una parte vi è chi si avventa contro la rigidità
nell’uscita dal mercato del lavoro - in altre parole la difficoltà, per le
aziende, di licenziare i lavoratori di cui per qualche motivo non hanno più
bisogno - individuando in questo la “madre di tutte le rigidità” e, anche,
dell’alto tasso di disoccupazione. In
un mercato nel quale il lavoratore è iperprotetto dalle uscite involontarie è,
per un disoccupato, difficilissimo entrare: questo il succo del
ragionamento. Un esempio di tale linea
di pensiero ci viene dall’economista R. Brunetta, che già nel 1994 affermava
che: “ la solidarietà vale solo per gli occupati, per non far loro perdere il
posto e non per quelli che non riescono ad entrare nel mercato del lavoro” (Brunetta,
1994, pag. 78). Posizione, questa, condivisa dagli industriali, che però
rifiutano l’etichetta di “barbari” tagliatori di teste - e chissà perché, poi:
negli Usa, come ha dimostrato l’anno scorso Newsweek, la spietatezza del management nel ridurre gli organici viene
premiata sia dagli azionisti che dallo Stock
exchange. Da tale accusa ci si deve
difendere e, così, nascono affermazione del tipo: “la flessibilità necessaria
non è tanto quella di licenziare, quanto quella di assumere. Oggi le assunzioni
sono solo a tempo indeterminato: certo esistono molte eccezioni ammesse (...)
ma tutte queste eccezioni sono altrettanti rischi per l’impresa che, se non
segue le procedure fissate e se ha bisogno del personale temporaneo per periodi
più lunghi, si vede costretta a trasformare in definitive le assunzioni
temporanee” (Cipolletta, 1997).
Sul versante opposto vi sono invece coloro che
pensano che la vera rigidità non sia negli istituti che tutelano il lavoratore
dai licenziamenti - che in fin dei conti neanche sono tanto difficili nella
grande maggioranza delle aziende italiane con meno di 15 dipendenti. Il vero
problema è sistemico e attiene al particolare “modello di mercato del lavoro
italiano”. Lavorare 8 ore al giorno per
5 giorni alla settimana - come fanno la gran parte degli occupati -
concentrerebbe il poco lavoro disponibile su di un gruppo di “privilegiati”,
che si tengono stretti il loro “orario pieno”. Se lo redistribuissero - questa
l’argomentazione che viene portata - ad esempio lavorando per meno ore, a
part-time, oppure per meno anni, con contratti a tempo determinato - il mercato
del lavoro sarebbe meno rigido e riuscirebbe forse ad accogliere tutti. Di
questo è convinto, ad esempio, G. Mazzetti, per il quale la proposta di
redistribuire il lavoro “ha effettivamente senso, e puo’ riuscire ad imporsi
come obiettivo generalmente condiviso, solo se si riesce a dimostrare che le
società economicamente mature hanno raggiunto uno stadio al di là del quale la
possibilità di attuare uno sviluppo che passi attraverso una significativa
espansione del lavoro è definitivamente
preclusa” (Mazzetti, 1997, pag. 18). Critica invece la posizione di A. Accornero, che nel suo libro più recente
prende in considerazione - e con molti spunti critici - la riduzione
dell’orario solo come mezzo per difendere i posti che ci sono, lasciando
intendere che nella lotta alla disoccupazione ci vuole ben altro: “il miglior
modo di combattere la disoccupazione è quello di creare nuova occupazione, la
via più sicura è quella di favorire la nascita di nuove imprese” (Accornero,
1997, pag. 171) .
Le equazioni scarsa
flessibilità del mercato del lavoro=alta disoccupazione e mercato del lavoro italiano=alta rigidità,
sono talmente entrate nella percezione corrente che chi le propone non si sente
neanche più in dovere di argomentarle e dimostrarle. Non vi è libro, articolo o presa di posizione di decision makers
o giornalisti economici che non parta dal “presupposto della italica rigidità”.
Non tutti, naturalmente, danno per scontata la rigidità. P. Ichino, ad esempio, pur essendo convinto
che “esiste un limite oltre il quale la sicurezza conquistata da una parte dei
lavoratori diventa inamovibilità, impedendo una migliore allocazione delle
risorse umane” e proponendo, quale soluzione, la diminuzione delle tutele nel
lavoro a favore di quelle nel mercato (Ichino, 1997) basa le sue argomentazioni
su un lavoro teorico sviluppato da due economisti dell’Ocse, D. Grubb e W.
Wells. Questi, in uno studio del 1993, prendendo in considerazione varie
grandezze che caratterizzano il mercato del lavoro, giunsero alla conclusione
che era possibile ottenere un “indice di rigidità” dei mercati del lavoro, in
cui l’Italia, assieme ad altri paesi mediterranei, si trovava ai primi posti.
Nonostante queste eminenti eccezioni pochi, sinora,
hanno tentato di dimostrare la validità dell’assunto da cui partono molti
ragionamenti: il mercato del lavoro italiano è davvero poco flessibile ? E come si misura tale rigidità ? Con quale
attrezzatura teorica ? Non vi e’ dubbio che se, come fanno gli economisti
dell’Ocse, si prendono alcune variabili classiche, come la disciplina dei
licenziamenti, oppure l’esistenza o meno del lavoro interinale o, ancora e
soprattutto, la quota di lavoro part-time, la scarsa flessibilità italiana
risulta lampante. Infatti: il nostro Paese ha costruito notevoli barriere
legali ai licenziamenti senza giusta causa; all’epoca dello studio di Grubb e
Wells ogni forma di lavoro interinale o di intermediazione di manodopera era
vietata; infine il part-time è diffuso pochissimo. Tutto, quindi, pare
coincidere.
Ma se guardiamo, anziché alle regole, anche ai soggetti che popolano il mercato
del lavoro, vediamo che esiste, in Italia, uno stock di flessibilità a volte trascurato: si tratta del lavoro
autonomo, di quello sommerso e della microimpresa. I lavoratori che alimentano
questo mercato del lavoro parallelo sono scarsamente garantiti e ancor meno
assistiti dai meccanismi di welfare e
costituiscono per le aziende - specialmente quelle di media dimensione - una
“massa di manovra” indispensabile per ottenere la flessibilità numerica e
salariale che viene invece negata dalle leggi e dagli accordi sindacali che
regolano il lavoro dei dipendenti.
La tesi che cercheremo di sostenere in questo saggio
parte proprio dal rifiuto dell’”assunto della rigidità”. Anzi lo inverte: a
nostro avviso il mercato del lavoro in Italia - nonostante le leggi e le
istituzioni che lo regolano - è tutt’altro che rigido. Esiste - questa
l’ipotesi - uno “strano” modello di flessibilità, fatto di ricorso a più
fattispecie di prestazioni atipiche, che vanno dal lavoro autonomo nelle sue
varie forme sino a quello sommerso. Alle aziende vengono di fatto offerte due
possibilità non alternative tra di loro: ricorrere al lavoro tipico, tutelato
rigidamente e del quale è oggettivamente difficile disfarsi; oppure affittare
prestazioni professionali poco o nulla tutelate e a volte a prezzi competitivi.
E’ ipotizzabile - questo il corollario dell’ipotesi - che le imprese ricorrano
alla prima soluzione (il lavoro tipico) con estrema parsimonia, solo quando
bisogna “rinforzare” il core group,
cioè quella coorte di lavoratori la cui esistenza in azienda è strategica per
garantire la flessibilità funzionale, il rispetto degli standard, la qualità
del prodotto. Negli altri casi sarà
invece conveniente reclutare dal “mercato delle prestazioni atipiche”. Il
quale, per essere efficiente, deve essere anche sufficientemente vasto[1].
2. Licenziare ?
Al fondo della supposta rigidità del mercato del
lavoro vi è una indiscutibile verità: nel nostro sistema il livello delle
protezioni assicurate al nucleo centrale della manodopera (quella assunta con
contratti a tempo indeterminato e per lavorare ad orario pieno) sono maggiori
che non in altri Paesi industrializzati (Ichino, 1996). Emblematica, ad
esempio, è la tutela contro i licenziamenti, e ancor di più l’interpretazione
giurisprudenziale delle norme (Romagnoli, 1995) [2].
Seguendo logiche perfettamente
comprensibili in un paese cattolico, il licenziamento, individuale o
collettivo, senza giusta causa si risolve generalmente
nell’eliminazione del torto subito dal lavoratore (e quindi, in giudizio, si
conclude con la riassunzione) laddove, in nazioni innervate da differenti
filosofie, il torto viene compensato economicamente [3].
Il ricorso ai tribunali, in questi ultimi casi, serve a definire secondo equità
l’importo del rimborso, non certo ad eliminare il provvedimento. Ma questa
regola si applica davvero a tutti ?
E’ proprio Pietro Ichino, nel suo libro Il
lavoro e il mercato, che dimostra come esista in Italia una quota
importante di lavoratori, addirittura la maggioranza, ai quali non si applicano
le protezioni forti destinate al nucleo centrale della forza lavoro (tabella 1)[4].
Tabella 1: I lavoratori e i licenziamenti
Totale garantiti |
9,4 |
di
cui: |
|
- Dipendenti pubblici |
3,6 |
- Dipendenti aziende >15 dip. |
5,8 |
|
|
Forze di lavoro |
23,6 |
|
|
Totale NON garantiti |
14,2 |
di cui: |
|
- disoccupati |
2,6 |
- in aziende <15 dip. |
3,2 |
- lavoratori irregolari |
2,7 |
- lavoratori autonomi |
5,7 |
Fonte:
P. Ichino, 1996. (Valori espressi in milioni di unità)
Quindi, su un totale di 23 milioni di lavoratori,
quelli davvero destinatari delle tutele forti sono solo 9,4 milioni. Inoltre ai
soggetti individuati da Ichino ne andrebbero aggiunti altri ancora. Infatti:
a)
L’Istat
(1997, pag. 49) stima che nel 1996 l’occupazione irregolare - quindi senza
garanzie contro il licenziamento e senza tutele assicurative - che nella
tabella precedente e’ quantificata in 2,7 milioni di unità, coinvolgeva
4.975.000 lavoratori. Naturalmente non si tratta esclusivamente di disoccupati
o sottoccupati che lavorano nel settore informale[5]:
spesso sono persone che accettano lavori non garantiti solo come seconde
attività e godono, da qualche altra parte, di tutte le tutele. Basti pensare ai
lavori extra dei dipendenti pubblici.
b) Poco difesi contro i
licenziamenti pur lavorando in grandi aziende - se non altro in quanto la loro
data di dismissione, come per i robot umanoidi protagonisti del film Blade Runner, è scritta sin dall’inizio
- sono anche i titolari di contratti di lavoro a termine. Erano, nel 1996,
1.064.000 persone (Istat, 1997, pag. 51) e sono destinati ad aumentare.
Un’inchiesta giornalistica recente mostra che nei primi mesi del 1997 solo il
41,5% dei contratti di lavoro stipulati erano a tempo indeterminato. Per gli
altri la stabilità dell’impiego durava mediamente non più di 4 mesi e,
nell’8,7% dei casi, vi si sommava anche una durata ridotta, non superiore alle
20 ore settimanali. (Mincuzzi e Peruzzi, 1997)[6]
c)
Secondo
l’istituto statistico della Commissione Europea il tasso di uscita annuale dal
lavoro dipendente è, in Italia, del
12,9% a fronte di una media europea del 16,5. Un valore che ci posiziona al
disopra della Germania e del Belgio e assai vicini a Francia, Irlanda e Grecia.[7]
d) B. Contini ed altri,
analizzando i flussi dei posti lavoro e dei lavoratori nel periodo 1985-91
sostengono che il turnover nel settore privato dell’economia è stato pari al
20% annuo. Un valore che “si pone ad
un livello più elevato di altri paesi europei, come la Germania, e allo stesso
livello degli Stati Uniti” (Contini et ali, 1996, Vol. I, pag. 155).
Appare ben strano, allora, che un paese con un
mercato del lavoro davvero tanto rigido, raffigurato normalmente come
imbrigliato in una rete di leggi e regolamenti che rendono il lavoratore
inamovibile, possano esistere una maggioranza di lavoratori non garantiti
contro i licenziamenti, vi siano oltre un milione di dipendenti con contratto a
termine (e altrettanti collaboratori coordinati e continuativi, anch’essi con
contratti di breve durata) e, infine, ogni anno un lavoratore ogni cinque cambi
posto di lavoro. Insomma pare aver ragione l’Agenzia del Lavoro del Veneto,
laddove nota che:
“le tendenze recenti indicano che il mercato del lavoro - nonostante l’insistenza sulle rigidità della regolamentazione dei rapporti contrattuali - sperimenti già oggi forme di flessibilità contrattuale in misura tutt’altro che marginale, principalmente nelle aree a maggiore dinamismo occupazionale e a forte concentrazione industriale”. (Agenzia Lavoro del Veneto, 1997, pag. 221)
Rimane invece incontestabile l’esistenza di una
fascia di lavoratori “tipici”, che lavorano nelle aziende medie e grandi del
settore industriale e nei servizi alle imprese, iper-garantiti contro i
licenziamenti, ben tutelati dal sistema di welfare e “coccolati” dalle loro
organizzazioni sindacali. Ma la loro consistenza numerica è in costante
riduzione e, soltanto con molte difficoltà possono davvero essere ritenuti responsabili della presunta rigidità di un
intero mercato del lavoro. Tra l’altro, con ogni probabilità, essi
costituiscono quel core group di
lavoratori la cui presenza stabile in impresa è di fondamentale importanza al fine
di garantire all’azienda conoscenze, skills competitivi, prontezza di risposta
alle domande qualitative del mercato. Sono gruppi, insomma, che nessun manager
licenzierebbe a cuor leggero, proprio come Henry Ford, pur avendo bisogno di
operai senza abilità per la sua catena di montaggio, non licenziava i meccanici provetti, ma li promuoveva capi
reparto.
3. Lavorare a
tempo parziale
Un’argomentazione utilizzata per sostenere la tesi
della scarsa flessibilità del mercato del lavoro in Italia è la ridotta quota
di lavoratori part-time. Essi costituiscono da noi, al contrario che in altre
nazioni, una piccola percentuale della forza lavoro, poco più del 6% a fronte
di una media europea quasi tripla (tabella 2). Si tratta di un fenomeno
attribuito, come vedremo in seguito, a varie cause, ma che non possiamo evitare
di trovare quantomeno strano. Infatti la contrattazione, cui è demandata la
determinazione della percentuale di ricorso al part-time in azienda fissa
margini decisamente superiori. Secondo Treu (1993) la soglia stabilita negli accordi nazionali oscilla tipicamente
tra il 10 e il 15% degli occupati.
Perché allora le aziende non sfruttano appieno le opportunità di cui già
dispongono ? In via induttiva, dovremmo ipotizzare che: a) o i sindacati in
azienda non rispettano le norme che essi stessi fissano nei contratti
nazionali, imponendo quindi quote molto al di sotto di quelle già decise;
oppure: b) le aziende sono poco interessate a questo strumento, almeno se
applicato al nucleo stabile della manodopera.
Tabella 2. Il part-time in Europa (Percentuali su totale degli occupati)
Paese |
Maschi |
Fem-mine |
Totale |
Austria |
2,9 |
27,0 |
13,3 |
Belgio |
3,1 |
33,4 |
15,4 |
Danimarca |
10,8 |
36,1 |
22,5 |
Finlandia |
6,7 |
15,1 |
11,0 |
Francia |
5,1 |
29,4 |
16,2 |
Germania |
3,1 |
33,8 |
16,4 |
Gran Bretagna |
7,2 |
43,6 |
24,5 |
Grecia |
2,2 |
5,5 |
3,4 |
Irlanda |
6,0 |
22,8 |
13,3 |
Italia |
2,4 |
12,1 |
6,1 |
Paesi Bassi |
16,5 |
67,0 |
37,4 |
Portogallo |
1,6 |
7,6 |
4,4 |
Spagna |
2,1 |
16,3 |
7,1 |
Svezia |
8,9 |
43,7 |
26,4 |
Media Europea |
4,9 |
32,0 |
16,7 |
Fonte: Istat, 1997, pag. 52
Se, con una operazione un po’ semplicistica,
utilizzassimo la quota di lavoratori a tempo parziale come stimatore del grado
di rigidità del mercato del lavoro in Europa non potremmo che concludere
affermando l’esistenza di una configurazione “a più fasce” dei mercati del
lavoro: da una parte vi sono le nazioni dell’area mediterranea, contraddistinte
da un mercato del lavoro rigido; dall’altra i Paesi del nord, “campioni” della
flessibilità. Tra questi due estremi si situano le restanti nazioni del centro
Europa. Ma nella diffusione del lavoro
a tempo parziale (e soprattutto nelle differenze esistenti tra i diversi paesi)
vi sono più spiegazioni e non è detto che quella regolatoria sia la più adatta
a gettare luce sul fenomeno. Dederichs e Kohler (1993) in uno studio per la
Fondazione europea attribuiscono ad esempio alla femminilizzazione del mercato
del lavoro le differenze nazionali nel part-time:
“Sostanzialmente, nei paesi ad alta incidenza dell’occupazione femminile anche la quota dei dipendenti a tempo parziale è elevata. (...) Inversamente, la quota dei dipendenti a tempo parziale in paesi quali Irlanda, Italia e Spagna è relativamente modesta in quanto in tali paesi anche l’incidenza dell’occupazione femminile è relativamente scarsa” (pag. 56)
Figura 1: Femminilizzazione del mercato del lavoro
vs part-time
Come si vede dalla figura sopra, la regressione in
effetti fornisce una buona valenza esplicativa, nel senso che effettivamente
esiste una relazione lineare tra le due variabili (r2=0,46). Ma, al
contempo, esistono eccezioni di non piccolo peso. Come spiegare infatti il caso
dei Paesi Bassi, ove nonostante che il part-time interessi il 32% dei
lavoratori, la quota di femminilizzazione del mercato del lavoro è al di sotto
dei valori portoghesi (ove per converso il part-time è inferiore al 4%)?
E’ intuibile che la spiegazione dei due studiosi
della Fondazione Europea, pur aggiungendo un tassello al puzzle, non può essere
considerata esaustiva. E’ sufficiente infatti analizzare anche superficialmente
la struttura del mercato del lavoro nei diversi paesi per rendersi conto che
esistono differenze non soltanto nel grado di partecipazione della manodopera
femminile ma, anche, nella distribuzione intersettoriale dell’occupazione e,
soprattutto, nell’importanza assunta dal lavoro autonomo (tabella 3).
Tabella 3: Il lavoro autonomo in Europa nel 1992.
|
Quota di lavoratori indipen-denti |
Belgio |
18,9 |
Danimarca |
11,4 |
Germania |
11,0 |
Grecia |
47,7 |
Spagna |
26,3 |
Francia |
15,7 |
Irlanda |
25,1 |
Italia |
28,2 |
Olanda |
11,9 |
Portogallo |
28,8 |
Regno Unito |
13,4 |
Lussemburgo |
11,0 |
Media europea |
18,5 |
Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat
Anche qui, con una semplice regressione lineare è
facile dimostrare che esiste una relazione inversa tra ricorso al part-time e
quota di lavoro autonomo. Tanto più l’uno è sviluppato, tanto meno sarà diffuso
l’altro (figura 2). Quindi, se
attribuissimo al part-time il ruolo di “eminente” flessibilizzatore del mercato
del lavoro dovremmo, per correttezza scientifica, affermare che la maggior
diffusione del lavoro autonomo ha l’effetto opposto. Il che, sinceramente, pare
difficile da sostenere. Più logico, invece è considerare i diversi aspetti del
lavoro - il ricorso al part-time e al lavoro autonomo - come strumenti diversi
ma senza dubbio concordanti tramite cui le aziende flessibilizzano il loro
agire organizzativo. La loro maggiore o minore disponibilità - che si
concretizza nel maggior o minore ricorso ad essi - è giustificato dalle diverse
legislazioni sociali, dalle attitudini delle imprese e dalle stesse tradizioni
culturali dei diversi paesi.
Figura 2: Relazione tra lavoro part-time e lavoro autonomo in 13 paesi europei (valori percentuali)
Va infine detto che è tutt’altro che assodato -
nonostante le statistiche - che il part-time nel nostro paese sia davvero cosi’
poco diffuso. Così l’Istat in materia:
“mentre in alcuni paesi (tra cui l’Italia) la consistenza dell’occupazione part-time viene determinata sulla base della percezione che gli individui hanno della loro condizione lavorativa, in altri viene utilizzato un criterio oggettivo, legato al numero di ore abitualmente lavorate (non più di 30 ore settimanali in alcuni paesi o 35 in altri). Se, ad esempio, in Italia venisse adottato il secondo criterio, la quota di lavoro a tempo parziale raddoppierebbe, per l’inclusione in questa categoria degli insegnanti, che certo non vengono considerati lavoratori part-time” (Istat, 1997, pag. 53)
Se teniamo conto dell’avvertenza appena detta,
vengono a cadere, in quanto destituite di qualsiasi fondamento matematico, le
grandi disfide sulla flessibilità e il part-time che hanno riempito i giornali
economici negli ultimi tempi: il re era nudo, ma nessuno se ne avvedeva.
L’Italia non è nuova a “discordanze definitorie” che
creano un’immagine distorta del nostro mercato del lavoro. Si pensi ad esempio
al tasso di disoccupazione, che viene calcolato in tre modi differenti, più o
meno in accordo con l’Eurostat. Oppure al
fatto che, nel numero dei disoccupati, vengono considerati anche i
soggetti in condizione non professionale (studenti, pensionati, casalinghe) che
cercano lavoro. In questo modo la percentuale della disoccupazione cresce del
30% circa, anche se si ottengono - questo il lato positivo - una serie di
informazioni di grande valore per chi studia il mercato del lavoro, sulla
propensione al lavoro di fasce di popolazione che altrove sono invece
considerati come non appartenenti alle forze di lavoro. Che le statistiche
siano leggibili in molti modi, a volte paradossalmente diversi, lo dimostra
anche l’esercizio condotto da R. Faini, G. Galli e F. Rossi (1996) i quali,
rielaborando il tasso ufficiale di disoccupazione alla luce delle disponibilità
oggettive al lavoro, arrivano a definirne addirittura 8 diversi, oscillanti tra
un tragico 22,7% e la piena occupazione (0,7%).
Quanto detto sinora consiglia di mettere da parte la
diffusione del part-time come indicatore privilegiato della maggiore o minore
flessibilità del mercato del lavoro. Al
suo posto, questa la nostra proposta, in Italia (e probabilmente nei paesi
dell’area mediterranea) potrebbe essere utilizzata la quota di lavoro autonomo.
4. Lavorare per sé
L’enorme sviluppo in Italia
dell'occupazione "in proprio" è dovuta a più cause: l’ampio tessuto
di piccole aziende e di un’imprenditorialità diffusa, tradizionale in varie
aree del paese (Priore & Sabel, 1987); la possibilità, specialmente nei
servizi, di iniziare attività commerciali e produttive pur disponendo di "budget"
limitati o addirittura inesistenti; la particolare struttura del sistema
fiscale italiano, che per decenni ha lasciato ai lavoratori indipendenti ampie
possibilità di "erosione" rendendo così attraente il lavoro autonomo;
l’alto costo del “contratto assicurativo” stipulato dai lavoratori dipendenti,
che come afferma Ichino (1996) è di stimolo al passaggio nei ranghi di chi
lavora in proprio. Infine, la richiesta di prestazioni atipiche e flessibili da
parte delle imprese maggiori.
Per le aziende la
disponibilità di varie forme di lavoro autonomo ha rappresentato una
opportunità importante per garantirsi la flessibilità numerica e anche quella
retributiva che da sempre vanno reclamando. Tutti i settori produttivi, anche
quelli classici, hanno fatto ampio ricorso a queste forme esterne di
flessibilità. Nell’industria, ad esempio, l'occupazione dipendente, stabile o
in leggera crescita durante gli anni settanta, è andata diminuendo dopo il
1980, con una perdita superiore alle 128.000 unità per anno. Diminuzione che è
poi accelerata ulteriormente a partire dal 1990. I settori più colpiti dalla
riduzione occupazionale sono stati quello delle costruzioni (-170.000 posti di
lavoro tra il 1980 ed il 1988), della produzione dei mezzi di trasporto,
passati da 446.500 addetti a 341.100, delle industrie elettriche (-108.000
unità) e di quelle del legno (ridottosi del 20%). L'occupazione indipendente,
al contrario, è aumentata, rispetto al 1970, di circa il 23,5% e il settore che
ha avuto il maggior incremento del lavoro indipendente è quello delle
costruzioni, lo stesso ove maggiormente si è ridotta l’occupazione dipendente.
La tendenza all’aumento del
lavoro autonomo è confermata anche se osserviamo il fenomeno ricorrendo ai dati
delle dichiarazioni dei redditi anziché a quelli Istat (tabella 4). Nel arco di
soli cinque anni, tra il 1987 e il 1992, il numero complessivo di contribuenti
con reddito da lavoro indipendente è aumentato del 7,1%. Gli aumenti maggiori (rispettivamente il 51
e l’82%) si sono avuti tra i percettori di redditi da collaborazioni coordinate
e continuative e da lavoro autonomo saltuario. Sono queste le fattispecie
emergenti nel mercato del lavoro: prestazioni che hanno poco a vedere con le
professioni liberali o con l’imprenditorialità. Il loro rapporto funzionale con
l’impresa, se non fosse per il ridotto livello di protezione sociale, ben poco
si distinguerebbe da quello dei lavoratori dipendenti. E’ una quota di
manodopera (quasi 1,2 milioni di lavoratori nel 1992, certamente molti di più
oggi) in grado di assicurare alle aziende la flessibilità di cui hanno
bisogno. Anche salariale: dai dati delle dichiarazioni dei redditi
relativi al 1992 risulta che un imprenditore con un lavoratore alle dipendenze
dichiarava quasi 51 milioni di spese per le retribuzioni. Nello stesso anno un
collaboratore coordinato e continuativo costava all’impresa appena 18
milioni.
Tabella 4: L’evoluzione dei redditi di lavoro autonomo e d’impresa
|
1987 |
1992 |
Diff. |
% |
|
|
|
|
|
Lavoratori
autonomi |
4.045.943 |
4.331.804 |
285.861 |
7,1 |
di
cui: |
|
|
|
|
Imprenditori |
2.691.478 |
2.494.792 |
-196.686 |
-7,3 |
Professionisti |
622.926 |
649.105 |
26.179 |
4,2 |
Collaboratori Coordinati |
464.931 |
703.592 |
238.661 |
51,3 |
Lavoratori saltuari |
266.608 |
484.315 |
217.707 |
81,7 |
Fonte: nostra elaborazione su
dati Ministero delle Finanze, 1991 e 1996
Che nel lavoro autonomo non vi sia soltanto una
tendenza alla “fuga dal lavoro dipendente” o una riscoperta delle vocazioni
imprenditoriali pare essere una tesi più che sostenibile: chi non trova sul
mercato un lavoro dipendente spesso “si inventa un’attività”. Altre volte
passare tra i ranghi dei collaboratori è l’unico modo per non rimanere
stritolati dalle operazioni di downsizing: è noto che molte imprese - grandi e
piccole - incentivano l’uscita dei dipendenti offrendo, a chi si mette in
proprio, quote anche consistenti di lavoro in out-sourcing. A volte con il carisma dell’ufficialità
contrattuale, come avvenuto nel 1995 alla Telecom Italia, nel cui contratto fu
prevista la cessione ai dipendenti dei negozi sociali InSip, quelli che vendono
prodotti e servizi dell’azienda.
Tutto ciò contribuisce a creare quel modello di
flessibilità originale - forse anche “strana” - che non si riscontra in altri Paesi, basato sulla possibilità,
per le aziende di maggiori dimensioni, di far ricorso alle prestazioni esterne
da parte di micro-imprenditori, di lavoratori autonomi e parasubordinati. E’
l’esistenza massiccia di questi soggetti nel nostro sistema produttivo che
contribuisce a rendere flessibile il mercato del lavoro italiano.
Al di là delle affermazioni, però, per dimostrare
quanto sopra dovremo, anzitutto, accertarci che:
n l’esistenza di lavoratori in
imprese di dimensioni piccolissime e il lavoro autonomo “atipico” costituisce
davvero, per le dimensioni che assume, un mercato del lavoro periferico e
flessibile;
n che i lavoratori in questo
mercato hanno caratteristiche diverse dai professionisti classici: sono
giovani, svolgono secondi lavori, ecc;
n che le aziende fanno ampio
ricorso a tali soggetti per flessibilizzare i loro processi produttivi e per
sopperire alle rigidità sistemiche;
Va detto sin d’ora che non tutti i punti precedenti
potranno in questa sede venire approfonditi con il livello di dettaglio
necessario. I dati più utili allo scopo
di caratterizzare il lavoro autonomo nelle sue diverse forme, infatti, sono
quelli relativi alle dichiarazioni dei redditi e, dall’anno scorso e
limitatamente all’universo dei collaboratori coordinati e continuativi, le
informazioni in possesso dell’INPS relative agli iscritti al fondo
pensionistico detto “del 10%”. Entrambe queste fonti, pero’, sono limitate. Gli
enti che le gestiscono sono poco propensi, sia per attitudine che per una
stringente - e forse anche eccessiva - aderenza alle normative sulla tutela
della privacy, a permettere elaborazioni sui file - seppur aggregati e privi
delle identificazioni personali - che potrebbero aiutare il ricercatore nel suo
compito[8].
Pur con tali limitazioni, comunque, i dati fiscali e
contributivi rimangono pur sempre fonti di enorme importanza, che è bene sfruttare
quanto più possibile.
6.
L’anomalo lavoro autonomo
italiano
Nel 1987 risultavano, al Ministero delle Finanze, 4.181.911 contribuenti che
dichiaravano di possedere redditi da lavoro autonomo o d’impresa. I lavoratori dipendenti e pensionati che
avevano presentato un modello 101 o 102 erano invece 20.661.320. Di questi
oltre un milione (precisamente 1.179.349)
dichiaravano di aver ottenuto, nel corso dell’anno precedente, anche qualche
altra forma di reddito. In oltre settecentomila casi si trattava di lavoro
autonomo in varie forme, per i restanti 400 mila di redditi d’impresa. Quasi sei lavoratori dipendenti su cento, in
definitiva, erano titolari di un secondo reddito - e quindi un lavoro - extra-dipendente. Si tratta, è bene
sottolinearlo, di attività perfettamente legali, che non ricadono, almeno sotto
il profilo fiscale, nell’area del lavoro nero. Oltre un quarto di questi doppi
lavori si caratterizza giuridicamente come collaborazioni coordinate e
continuative e un quinto era composto di lavori autonomi saltuari. Quel che sembra pero’ più interessante è
che, per i redditi da lavoro autonomo, i secondi lavori dichiarati equivalgono
quelli svolti in maniera esclusiva (tabella 5)
Nel 1992 la situazione si evolve nel senso di una
maggiore incidenza, nell’universo del lavoro autonomo, dei secondi lavori (che
passano dal 28 al 31 % del totale), ma anche per una massiccia avanzata del
“lavoro autonomo atipico”. I contribuenti che dichiarano redditi d’impresa diminuiscono in totale di circa il 7%, mentre
aumenta il numero degli “imprenditori part-time” che associano all’impresa un
lavoro dipendente. I professionisti “puri” aumentano, ma soltanto del 4%. Le forme atipiche di lavoro autonomo, al
contrario, fanno registrare un’incremento davvero notevole: i collaboratori e
consulenti saltuari aumentano di quasi 250 mila unità (+69%), come anche i
lavoratori coordinati (+47%). Le
imprese, insomma, hanno a disposizione nel 1992, solo nell’area del lavoro
autonomo, 2.047.511 lavoratori flessibili -
circa mezzo milione in più rispetto al 1987. Si tratta di soggetti disposti ad
accettare contratti di lavoro non convenzionali sia per la durata che per le
protezioni sociali.
Si tratta di uno “stock” di flessibilità da non
disprezzare, che va ad aggiungersi ai 4.975.000 lavoratori in nero stimati
dall’Istat e ai 1.064.000 dipendenti con contratto a termine.
Tabella 5: Composizione del lavoro autonomo nel 1987
e nel 1992 [9]
1987 1992
|
Con
reddito di lavoro dipendente |
Lavoratori
autonomi “puri” |
Totale |
Con
reddito di lavoro dipendente |
Lavoratori
autonomi “puri” |
Totale |
Compilano
il quadro E1/A |
65.163 |
77.097 |
142.260 |
|
|
|
Compilano
il quadro E1/B |
227.464 |
253.202 |
480.666 |
283.375 |
365.730 |
649.105 |
Compilano
il quadro E2 |
249.050 |
272.808 |
521.858 |
343.950 |
423.531 |
767.481 |
Compilano il quadro F |
80.506 |
538.827 |
619.333 |
111.494 |
620.115 |
731.609 |
Compilano
il quadro G |
348.115 |
1.724.030 |
2.072.145 |
302.277 |
1.460.906 |
1.763.183 |
Compilano
il quadro L |
209.051 |
136.598 |
345.649 |
348.482 |
234.402 |
582.884 |
Totale |
1.179.349 |
3.002.562 |
4.181.911 |
1.389.578 |
3.104.684 |
4.494.262 |
|
|
|
|
|
|
|
Valori
% |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Compilano
il quadro E1/A |
45,81 |
54,19 |
100,00 |
|
|
|
Compilano
il quadro E1/B |
47,32 |
52,68 |
100,00 |
43,66 |
56,34 |
100,00 |
Compilano
il quadro E2 |
47,72 |
52,28 |
100,00 |
44,82 |
55,18 |
100,00 |
Compilano il quadro F |
13,00 |
87,00 |
100,00 |
15,24 |
84,76 |
100,00 |
Compilano
il quadro G |
16,80 |
83,20 |
100,00 |
17,14 |
82,86 |
100,00 |
Compilano
il quadro L |
60,48 |
39,52 |
100,00 |
59,79 |
40,21 |
100,00 |
Totale |
28,20 |
71,80 |
100,00 |
30,92 |
69,08 |
100,00 |
Che questi soggetti non siano al “top” nella
graduatoria sociale dei lavori lo dimostra anche una breve analisi sui loro
redditi. Come si vede dalla tabella 6 che segue, il reddito da lavoro autonomo
associato al lavoro dipendente aggiunge, in media, pochissimo ai redditi dei
soggetti, che in ogni caso non riescono ad eguagliare i “veri” professionisti.
Nel 1992, pur tenendo conto dell’alta evasione fiscale dei professionisti
liberali, un commercialista dichiarava di guadagnare 75 milioni, un consulente
del lavoro 57, un ingegnere 55, un agente di borsa 54. Valori, quindi, ben al
di sopra di quanto fosse possibile “racimolare” come professionista “atipico”,
che svolge la sua opera con contratti di lavoro autonomo saltuari o
continuativi. Nel 1992 il reddito di lavoro autonomo creato dai lavoratori
dipendenti ammontava ad oltre 3.200 miliardi: tenendo conto del reddito medio
dei lavoratori autonomi, questo equivale a circa 123 mila professionisti
“equivalenti” aggiuntivi .
I settori in cui massima è la concentrazione di
lavoro autonomo atipico sono tutti nel terziario. I dipendenti della sanità e
dell’istruzione dichiarano mediamente oltre un milione di reddito extra
generato per addetto, mentre gli impiegati pubblici, quelli specializzati in
vari tipi di servizi alle imprese e i dipendenti impegnati nel terzo settore
hanno tutti redditi medi aggiuntivi attorno alle 500 mila lire annue. Assai distaccati sono invece i dipendenti
dell’industria e del commercio, che racimolano mediamente tra le 150 e le 250
mila lire di lavoro autonomo.
Alla corsa all’integrazione del reddito tramite il
lavoro autonomo non sfuggono, naturalmente, i pensionati. I quasi 8 milioni di
titolari di pensione che risultavano al Ministero delle Finanze nel 1992
generavano un reddito di lavoro autonomo di 1200 miliardi (nonché altri 723
miliardi di redditi d’impresa), con un reddito equivalente a quello di 46 mila
professionisti. I più attivi nell’offrirsi sul mercato del lavoro autonomo
atipico sono i più scolarizzati, quelli
nelle fascie di età compresi tra i 40 e i 60 anni (figura 3) e, infine, i separati e i divorziati, che
probabilmente sono anche più giovani e istruiti e, essendo rimasti soli, hanno
più tempo da dedicare al lavoro.
Dal quadro appena tratteggiato emerge con sempre
maggior forza quella che costituisce l’anomalia italiana del mercato del
lavoro. Da una parte esistono milioni di inoccupati “selettivi”, non
disponibili cioè ad accettare un lavoro qualsiasi, ma al contempo propensi a
svolgere lavoretti poco impegnativi o gratificanti. Dall’altra parte esiste una
quota non indifferente di lavoratori dipendenti e pensionati, i cui redditi
principali sono, almeno se guardiamo
agli standard europei - e ciò anche a causa dell’imposizione fiscale - ben al di sotto delle medie europee. La coesistenza dei due fenomeni genera una
fioritura di lavori autonomi (e non necessariamente altamente
professionalizzati) svolti come attività secondaria, a volte nell’economia
sommersa, ma spesso anche all’interno delle regole fiscali contributive. Questa
massa di lavoro flessibile è disponibile alle imprese, ed è da queste
utilizzata per aumentare la possibilità di adattarsi in tempo reale ai
mutamenti del mercato delle merci.
Tabella 6: Redditi medi per categoria (importi in
milioni di lire)
|
1985 |
1992 |
Variazione (%) |
Lavoratori dipendenti senza altri redditi |
15,89 |
20,83 |
+31,12 |
Lavoratori autonomi senza altri redditi |
15,95 |
25,57 |
+60,35 |
Percettori esclusivamente di redditi diversi |
5,24 |
6,83 |
+30,29 |
Lavoratori dipendenti con redditi di lav. autonomo |
14,84 |
24,99 |
+68,45 |
Lavoratori dipendenti con redditi occasionali |
16,34 |
21,75 |
+33,12 |
Figura 3: Redditi medi di lavoro autonomo dei
pensionati. Anno 1992
7.
Il lavoro coordinato
La riforma pensionistica del 1995 ha introdotto,
seppur in maniera all’inizio un po’ caotica, una nuova forma di copertura
assicurativa per quei professionisti che non disponevano di una cassa pensioni
o della tutela di un ordine professionale e le cui prestazioni erano soggette a
ritenuta alla fonte da parte del datore di lavoro. A questi soggetti viene oggi
chiesto di iscriversi ad un apposito fondo al quale va versato il 10%
dell’importo pattuito per ogni attività svolta. Alla data del 31 marzo 1997,
secondo gli scarni dati diffusi dall’Inps, risultavano iscritti poco meno di
1.039.000 lavoratori, in grandissima
maggioranza (904.953) titolari esclusivamente di rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa.
In ottemperanza alle norme di legge, al fondo debbono iscriversi anche i
lavoratori dipendenti o i pensionati - che quindi avrebbero già diritto a un
trattamento pensionistico per altra via - nel momento in cui instaurano un
rapporto professionale non occasionale con un soggetto economico. In pratica,
per richiamarci alle tabelle presentate in precedenza, gli oltre 900 mila
collaboratori altro non sono che coloro i quali, in sede fiscale, dichiarano i
loro redditi compilando il modello E-sezione II del modello 740.
Una prima considerazione è evidentemente sul loro
loro numero, che rispetto all’ultimo dato ufficiale disponibile (la
dichiarazione dei redditi 1992) è aumentato ulteriormente, passando da 767.000 a 905.000, con un incremento pari al
18%. E’ però sensazione diffusa, almeno tra gli addetti ai lavori, che il numero dei collaboratori fosse ancora
più alto. Sarebbe stata proprio la riforma del 95, che di fatto fa gravare sui
datore di lavoro un onere aggiuntivo pari al 6,7% (pari a 2/3 del 10%), a
spingere molti, specialmente coloro che svolgono un primo lavoro “regolare” (e
sono quindi coperti da un sistema pensionistico) ad accettare di convertire i
rapporti di collaborazione coordinati in rapporti occasionali. Oppure
stipulando, laddove possibile - si pensi a chi opera nel settore della
produzione culturale - contratti per cessione di know how o di diritti di
autore, ottenendo in tali modi l’esenzione dal versamento al fondo del 10%.
Ma è possibile caratterizzare meglio il “popolo del
10%” ? Purtroppo, al momento, su di loro disponiamo di pochissime informazioni.
Sappiamo (tabella 7) che sono oltre un milione, per la metà giovani fino a 40
anni e in larga maggioranza hanno contratti di lavoro coordinato. Abbiamo però
anche la loro distribuzione su base regionale. E’ proprio quest’ultima
informazione, che permette una seppur limitata analisi statistica, che
utilizzeremo per le nostre elaborazioni.
Tabella 7: Gli iscritti al fondo del 10%
Tipologia di
iscrizione |
|
Collaboratori |
904.953 |
Collaboratori e professionisti |
18.883 |
Professionisti |
115.129 |
Distribuzione
per classi di età |
|
Fino a 30 anni |
20,6% |
Da 30 a 40 anni |
29,1% |
Da 40 a 50 anni |
22,7% |
Da 50 a 60 anni |
19,0% |
Oltre 60 anni |
8,6% |
Il numero dei collaboratori è, come logico,
fortemente correlato con l’indice di sviluppo economico delle diverse regioni.
Maggiore è il numero delle unità locali esistenti, maggiore sarà anche il
numero dei collaboratori legati alle imprese. Assolutamente non significativa,
al contrario, è la relazione con la densità di impresa e i tassi di attività,
il che farebbe presagire che, al fine di spiegare la maggiore presenza di
collaboratori non conta l’esistenza di una struttura diffusa di piccole
imprese, quanto invece la dimensione media delle unità locali. Infatti, come
mostra la figura che segue, sono proprie le regioni in cui esistono aziende di
maggiori dimensioni quelle ove più si concentrano i collaboratori iscritti al
fondo del 10%. Come spiegare questo andamento ? Non pensiamo di essere lontani
dal vero affermando che sono le imprese medio-grandi quelle che ricercano la
maggiore flessibilità operativa (probabilmente avendone strutturalmente
meno). Tramite i professionisti atipici
riescono ad ottenere le professionalità utili al momento giusto e per il tempo
necessario - e tutto ciò mantenendo la piena legalità fiscale e contributiva.
Per le aziende più piccole, invece, probabilmente risulta più conveniente
rischiare eventuali sanzioni e ricorrere, anziché ai collaboratori regolari,
alla vasta area del lavoro sommerso e irregolare. Se ciò venisse
confermato, per inciso, verrebbe anche ad essere vanificata, almeno in
parte, la speranza di far emergere il lavoro sommerso mettendo a disposizione
delle imprese strumenti alternativi, come ad esempio il lavoro interinale.
Figura 4: Relazione esistente tra dimensione
d’impresa e ricorso al lavoro coordinato
8. Cenni
conclusivi
In conclusione di questo studio ci sembra di poter
sostenere che l’assunto della rigidità del mercato del lavoro italiano,
tradizionalmente affermata basandosi sulla esistenza di una normativa che rende
estremamente difficile per le aziende le operazioni di downsizing e
giustificata poi statisticamente con la ridotta quota di lavoro part-time,
sembra essere tutt’altro che resistente ad un’analisi non superficiale. Questo,
naturalmente, non inficia alla radice la visione “classica”, secondo cui le
Nazioni con basse percentuali di part-time hanno anche mercati del lavoro
rigidi, ma ne circoscrive i contorni: nel caso italiano la flessibilità della
prestazione lavorativa è ottenuta per altre strade. E’ l’ampia disponibilità di
lavoro autonomo e parasubordinato, spesso svolto come seconda attività, che
fornisce alle aziende il bacino di lavoratori flessibili di cui hanno bisogno.
E’, senza dubbio, un modello di flessibilità con
forti anomalie, in quanto contribuisce a generare un comportamento amorale, in
cui le aziende trovano conveniente rilasciare lavoro dipendente - tutelato e
costoso - per sostituirlo con prestazioni di lavoro indipendente atipico. I
lavoratori, dal canto loro, si sentono nel pieno diritto di coprire più
posizioni lavorative, cambiando ruolo con la stessa facilità con la quale si
cambia cravatta. Ciònonostante il meccanismo, se osservato sotto il profilo dei
risultati, fornisce senz’altro ottimi performances. Il mercato del lavoro atipico riesce a costituirsi davvero come
un modello di flessibilità (figura 5) che, come indicato nella figura che
segue, coinvolge in maniera sistemica 8 milioni di persone, circa il 36 % delle
forze di lavoro italiane. In questa coorte ciascuna azienda - come in un enorme
supermercato - è in grado di trovare quel che cerca. Vi sarà chi vi trova alte
professionalità e specializzazioni pregiate, altri vi scoveranno giovani
brillanti da provare per periodi di tempo medio-lunghi prima di procederne
all’assunzione. Altri ancora pescheranno sugli immaginari banchi di quel
particolare mercato manodopera a basso costo, magari immigrati illegali da
sottopagare o giovani studenti cui affidare i lavori durante le feste
comandate.
Naturalmente tutto ciò, se da una parte riequilibra
le rigidità del sistema, ha anche costi notevoli. Aziende abituate a far
ricorso ad un siffatto mercato del lavoro difficilmente troveranno conveniente
tornare ad assumere se non hanno la garanzia di poter poi disfarsi della
manodopera senza eccessivi problemi. Inoltre, l’esistenza di lavoratori per
così dire “a costi differenziati” crea un gap a favore delle aziende più
spregiudicate e più abili nel muoversi nelle pieghe del mercato del
lavoro. Una parte di colpe,
naturalmente, sta anche sul versante del lavoro: chi è tutelato troppo troverà
conveniente offrirsi per secondi lavori flessibili, essendo certo di non
rischiare nulla o quasi. E così facendo spinge ancora più verso il basso chi
tutelato non lo è per nulla.
Vie di uscita se ne vedono poche, se è vero che
anche un istituto di ricerca vicino alla Cgil afferma tristemente che “finchè
non si risolve il problema delle basse retribuzioni tentare di arginare il
secondo lavoro ha le stesse chance di impedire ai contadini andini, in regime
di proibizionismo, di coltivare la coca” (Birindelli, 1997). Essendo quanto
auspicato da Birindelli - l’aumento generalizzato delle retribuzioni -
difficile da ottenere almeno quanto la riduzione generalizzata dell’orario di
lavoro a parità di retribuzione, probabilmente la soluzione per riportare il
mercato del lavoro italiano a un modello “più normale” sta nel ridurre per via
legislativa la convenienza per le aziende a far ricorso al lavoro autonomo
atipico. Ciò passa per due strade tra loro congruenti. Da una parte
l’estensione di alcune garanzie - come ad esempio il compenso minimo e una
protezione assicurativa adeguata- sinora esclusivo appannaggio del lavoro
dipendente anche ai lavoratori parasubordinati e ai professionisti occasionali.
Dall’altra la riduzione dei carichi fiscali sul lavoro dipendente e
l’incentivazione delle prestazioni flessibili, magari tramite la nascita di
appositi fondi di riequilibrio del mercato del lavoro.
Figura 5: Morfologia del mercato del lavoro
flessibile in Italia
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Agenzia del Lavoro del Veneto, (1997), Il mercato del lavoro nel Veneto. Rapporto 1997, Milano, Franco Angeli.
Birindelli, L. (1997), “Mezzo tempo, un tempo e mezzo”, in Rassegna Sindacale, n. 30, 5 Agosto 1997.
Brunetta, R. (1994), La fine della società dei salariati, Venezia, Marsilio.
Cipolletta, I. (1997), “L’anatema sui licenziamenti”, Il Sole 24 Ore, 11 luglio 1997
Contini, B. et ali (1996), “La mobilità del lavoro in Italia (1985-91)”, in Galli g. (a cura di, 1996), La mobilità della società italiana, Vol. I, Roma, SIPI.
Dederichs, E., Kohler, E., (1993), Lavoro a tempo parziale nella Comunità europea. Aspetti sociali ed economici, Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, Dublino.
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Ichino, P. (1996), Il lavoro e il mercato, Milano, Mondadori.
Istat (1997), Rapporto sull’Italia. Edizione 1997, Bologna, Il Mulino.
Mazzetti, G. (1997), Quel pane da spartire. Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro, Bologna, Il Mulino.
Meldolesi, L. (1997), “Un lavoratore su due ha un reddito sommerso”, in Affari e Finanza - La Repubblica, 23 giugno 1997, pag. 8
Mincuzzi, A., Peruzzi M., (1997), “Il posto fisso cede il passo alle assunzioni a termine”, in Il Sole 24 Ore del Lunedì, 15 Settembre 1997
Priore R., Sabel C. (1987), Le due vie dello sviluppo industriale, Torino, Isedi
Romagnoli, U. (1995), Il lavoro in Italia, Bologna, Il Mulino.
Treu, T., (1993), “Italy”, in Blanpain, R. (a
cura di), Temporary Work and Labour Law,
Deventer e Boston, Kluwer.
[1] Per tentare di dimostrare la nostra ipotesi faremo ricorso a una base statistica un po’ anomala e anche difficile da armonizzare, che unisce dati provenienti dagli istituti di statistica, dall’INPS e dalle dichiarazione dei redditi delle persone fisiche. Per una nota sulla base dati si veda l’appendice curata da Marco Clauiano.
[2] Va detto che sulla rigidità delle normative non tutti sono d’accordo. P. Sestito, (1996), ad esempio, conclude un suo bel lavoro affermando che: “nonostante alcuni sviluppi recenti, le rigidità istituzionali non paiono essere superate, ma piuttosto aggirate in larga misura, da una serie di meccanismi derogatorii. “
[3] Questo sistema, per inciso, si applica anche in Italia, ma solo nelle aziende con meno di 15 addetti
[4] La tabella è ricavata dai dati riportati dall’autore alle pagine 14 e seguenti.
[5] Capita anche che l’azienda stessa sia “fantasma”: Luca Meldolesi (1997) su Affari e Finanza ricorda che nel comune di Aversa le piccole imprese calzaturiere che risultano al censimento sono appena 18, mentre un’analisi territoriale ne rileva almeno 120-150. E che a Capodimonte, cittadina nota in tutto il mondo per le sue ceramiche, questo tipo di manifattura si è estinta. Almeno ufficialmente: in realtà - come possono testimoniare turisti italiani e stranieri - le circa settanta microimprese assicurano un flusso produttivo e una distribuzione di tutto rispetto.
[6] L’elaborazione è stata condotta su un campione di 36 province e per un totale di 936.139 assunzioni risultanti alle Agenzie regionali per l’impiego e alle Direzioni provinciali del lavoro.
[7] Il dato è riportato in Istat (1997, pag. 55) e si riferisce al periodo 1994-95 ed esclude il settore pubblico e quello agricolo.
[8] Per un ulteriore approfondimento sulla base dati impiegata e sui limiti delle fonti si rimanda all’appendice.
[9] Per la lettura della tabella va tenuto conto di quanto segue:
- il quadro E1 si riferisce al lavoro autonomo propriamente detto (esercizio di arti e professioni). Tale quadro era suddiviso, nel 1987, in due parti, A e B, che differivano soltanto per la maniera di calcolo del reddito;
- il quadro E2 si riferisce agli altri redditi di lavoro autonomo e comprende, essenzialmente, le collaborazioni coordinate e continuative e le cessioni di know how e di diritti d’autore;
- il quadro F si riferisce ai redditi derivanti dall’esercizio di imprese in regime di contabilità ordinaria;
- il quadro G si riferisce ai redditi derivanti dall’esercizio di imprese in regime di contabilità forfetaria;
- il quadro L è residuale ed include tutte le altre forme di lavoro autonomo svolte saltuariamente.