La “strana” flessibilità del mercato del lavoro italiano.

 

(di Patrizio Di Nicola)

 

 

1.   Premessa

 

Che il mercato del lavoro italiano sia malato di eccessiva rigidità viene riaffermato, con argomentazioni più o meno raffinate, con discreta regolarità.  Due le principali correnti di pensiero. Da una parte vi è chi si avventa contro la rigidità nell’uscita dal mercato del lavoro - in altre parole la difficoltà, per le aziende, di licenziare i lavoratori di cui per qualche motivo non hanno più bisogno - individuando in questo la “madre di tutte le rigidità” e, anche, dell’alto tasso di disoccupazione.  In un mercato nel quale il lavoratore è iperprotetto dalle uscite involontarie è, per un disoccupato, difficilissimo entrare: questo il succo del ragionamento.  Un esempio di tale linea di pensiero ci viene dall’economista R. Brunetta, che già nel 1994 affermava che: “ la solidarietà vale solo per gli occupati, per non far loro perdere il posto e non per quelli che non riescono ad entrare nel mercato del lavoro” (Brunetta, 1994, pag. 78). Posizione, questa, condivisa dagli industriali, che però rifiutano l’etichetta di “barbari” tagliatori di teste - e chissà perché, poi: negli Usa, come ha dimostrato l’anno scorso Newsweek,  la spietatezza del management nel ridurre gli organici viene premiata sia dagli azionisti che dallo Stock exchange.  Da tale accusa ci si deve difendere e, così, nascono affermazione del tipo: “la flessibilità necessaria non è tanto quella di licenziare, quanto quella di assumere. Oggi le assunzioni sono solo a tempo indeterminato: certo esistono molte eccezioni ammesse (...) ma tutte queste eccezioni sono altrettanti rischi per l’impresa che, se non segue le procedure fissate e se ha bisogno del personale temporaneo per periodi più lunghi, si vede costretta a trasformare in definitive le assunzioni temporanee” (Cipolletta, 1997). 

Sul versante opposto vi sono invece coloro che pensano che la vera rigidità non sia negli istituti che tutelano il lavoratore dai licenziamenti - che in fin dei conti neanche sono tanto difficili nella grande maggioranza delle aziende italiane con meno di 15 dipendenti. Il vero problema è sistemico e attiene al particolare “modello di mercato del lavoro italiano”.  Lavorare 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana - come fanno la gran parte degli occupati - concentrerebbe il poco lavoro disponibile su di un gruppo di “privilegiati”, che si tengono stretti il loro “orario pieno”. Se lo redistribuissero - questa l’argomentazione che viene portata - ad esempio lavorando per meno ore, a part-time, oppure per meno anni, con contratti a tempo determinato - il mercato del lavoro sarebbe meno rigido e riuscirebbe forse ad accogliere tutti. Di questo è convinto, ad esempio, G. Mazzetti, per il quale la proposta di redistribuire il lavoro “ha effettivamente senso, e puo’ riuscire ad imporsi come obiettivo generalmente condiviso, solo se si riesce a dimostrare che le società economicamente mature hanno raggiunto uno stadio al di là del quale la possibilità di attuare uno sviluppo che passi attraverso una significativa espansione del lavoro è definitivamente preclusa” (Mazzetti, 1997, pag. 18). Critica invece la posizione di  A. Accornero, che nel suo libro più recente prende in considerazione - e con molti spunti critici - la riduzione dell’orario solo come mezzo per difendere i posti che ci sono, lasciando intendere che nella lotta alla disoccupazione ci vuole ben altro: “il miglior modo di combattere la disoccupazione è quello di creare nuova occupazione, la via più sicura è quella di favorire la nascita di nuove imprese” (Accornero, 1997, pag. 171) .

 

Le equazioni scarsa flessibilità del mercato del lavoro=alta disoccupazione e mercato del lavoro italiano=alta rigidità, sono talmente entrate nella percezione corrente che chi le propone non si sente neanche più in dovere di argomentarle e dimostrarle.  Non vi è libro, articolo o presa di posizione di decision makers o giornalisti economici che non parta dal “presupposto della italica rigidità”. Non tutti, naturalmente, danno per scontata la rigidità.  P. Ichino, ad esempio, pur essendo convinto che “esiste un limite oltre il quale la sicurezza conquistata da una parte dei lavoratori diventa inamovibilità, impedendo una migliore allocazione delle risorse umane” e proponendo, quale soluzione, la diminuzione delle tutele nel lavoro a favore di quelle nel mercato (Ichino, 1997) basa le sue argomentazioni su un lavoro teorico sviluppato da due economisti dell’Ocse, D. Grubb e W. Wells. Questi, in uno studio del 1993, prendendo in considerazione varie grandezze che caratterizzano il mercato del lavoro, giunsero alla conclusione che era possibile ottenere un “indice di rigidità” dei mercati del lavoro, in cui l’Italia, assieme ad altri paesi mediterranei, si trovava ai primi posti.

Nonostante queste eminenti eccezioni pochi, sinora, hanno tentato di dimostrare la validità dell’assunto da cui partono molti ragionamenti: il mercato del lavoro italiano è davvero poco flessibile ?  E come si misura tale rigidità ? Con quale attrezzatura teorica ? Non vi e’ dubbio che se, come fanno gli economisti dell’Ocse, si prendono alcune variabili classiche, come la disciplina dei licenziamenti, oppure l’esistenza o meno del lavoro interinale o, ancora e soprattutto, la quota di lavoro part-time, la scarsa flessibilità italiana risulta lampante. Infatti: il nostro Paese ha costruito notevoli barriere legali ai licenziamenti senza giusta causa; all’epoca dello studio di Grubb e Wells ogni forma di lavoro interinale o di intermediazione di manodopera era vietata; infine il part-time è diffuso pochissimo. Tutto, quindi, pare coincidere. 

Ma se guardiamo, anziché alle regole,  anche ai soggetti che popolano il mercato del lavoro, vediamo che esiste, in Italia, uno stock di flessibilità a volte trascurato: si tratta del lavoro autonomo, di quello sommerso e della microimpresa. I lavoratori che alimentano questo mercato del lavoro parallelo sono scarsamente garantiti e ancor meno assistiti dai meccanismi di welfare e costituiscono per le aziende - specialmente quelle di media dimensione - una “massa di manovra” indispensabile per ottenere la flessibilità numerica e salariale che viene invece negata dalle leggi e dagli accordi sindacali che regolano il lavoro dei dipendenti.

La tesi che cercheremo di sostenere in questo saggio parte proprio dal rifiuto dell’”assunto della rigidità”. Anzi lo inverte: a nostro avviso il mercato del lavoro in Italia - nonostante le leggi e le istituzioni che lo regolano - è tutt’altro che rigido. Esiste - questa l’ipotesi - uno “strano” modello di flessibilità, fatto di ricorso a più fattispecie di prestazioni atipiche, che vanno dal lavoro autonomo nelle sue varie forme sino a quello sommerso. Alle aziende vengono di fatto offerte due possibilità non alternative tra di loro: ricorrere al lavoro tipico, tutelato rigidamente e del quale è oggettivamente difficile disfarsi; oppure affittare prestazioni professionali poco o nulla tutelate e a volte a prezzi competitivi. E’ ipotizzabile - questo il corollario dell’ipotesi - che le imprese ricorrano alla prima soluzione (il lavoro tipico) con estrema parsimonia, solo quando bisogna “rinforzare” il core group, cioè quella coorte di lavoratori la cui esistenza in azienda è strategica per garantire la flessibilità funzionale, il rispetto degli standard, la qualità del prodotto.  Negli altri casi sarà invece conveniente reclutare dal “mercato delle prestazioni atipiche”. Il quale, per essere efficiente, deve essere anche sufficientemente vasto[1].

 

2.  Licenziare ?

 

Al fondo della supposta rigidità del mercato del lavoro vi è una indiscutibile verità: nel nostro sistema il livello delle protezioni assicurate al nucleo centrale della manodopera (quella assunta con contratti a tempo indeterminato e per lavorare ad orario pieno) sono maggiori che non in altri Paesi industrializzati (Ichino, 1996). Emblematica, ad esempio, è la tutela contro i licenziamenti, e ancor di più l’interpretazione giurisprudenziale delle norme (Romagnoli, 1995) [2]. Seguendo logiche perfettamente  comprensibili in un paese cattolico, il licenziamento, individuale o collettivo, senza giusta  causa si risolve generalmente nell’eliminazione del torto subito dal lavoratore (e quindi, in giudizio, si conclude con la riassunzione) laddove, in nazioni innervate da differenti filosofie, il torto viene compensato economicamente [3]. Il ricorso ai tribunali, in questi ultimi casi, serve a definire secondo equità l’importo del rimborso, non certo ad eliminare il provvedimento. Ma questa regola si applica davvero a tutti ? E’ proprio Pietro Ichino, nel suo libro Il lavoro e il mercato, che dimostra come esista in Italia una quota importante di lavoratori, addirittura la maggioranza, ai quali non si applicano le protezioni forti destinate al nucleo centrale della forza lavoro (tabella 1)[4].

 

 

Tabella 1: I lavoratori e i licenziamenti

 

Totale garantiti

9,4

di cui:

 

 - Dipendenti pubblici

3,6

 - Dipendenti aziende >15 dip.

5,8

 

 

Forze di lavoro

23,6

 

 

Totale NON garantiti

14,2

 di cui:

 

 - disoccupati

2,6

 - in aziende <15 dip.

3,2

 - lavoratori irregolari

2,7

 - lavoratori autonomi

5,7

 

Fonte: P. Ichino, 1996. (Valori espressi in milioni di unità)

 

 

Quindi, su un totale di 23 milioni di lavoratori, quelli davvero destinatari delle tutele forti sono solo 9,4 milioni. Inoltre ai soggetti individuati da Ichino ne andrebbero aggiunti altri ancora. Infatti:

 

a)   L’Istat (1997, pag. 49) stima che nel 1996 l’occupazione irregolare - quindi senza garanzie contro il licenziamento e senza tutele assicurative - che nella tabella precedente e’ quantificata in 2,7 milioni di unità, coinvolgeva 4.975.000 lavoratori. Naturalmente non si tratta esclusivamente di disoccupati o sottoccupati che lavorano nel settore informale[5]: spesso sono persone che accettano lavori non garantiti solo come seconde attività e godono, da qualche altra parte, di tutte le tutele. Basti pensare ai lavori extra dei dipendenti pubblici. 

b)  Poco difesi contro i licenziamenti pur lavorando in grandi aziende - se non altro in quanto la loro data di dismissione, come per i robot umanoidi protagonisti del film Blade Runner, è scritta sin dall’inizio - sono anche i titolari di contratti di lavoro a termine. Erano, nel 1996, 1.064.000 persone (Istat, 1997, pag. 51) e sono destinati ad aumentare. Un’inchiesta giornalistica recente mostra che nei primi mesi del 1997 solo il 41,5% dei contratti di lavoro stipulati erano a tempo indeterminato. Per gli altri la stabilità dell’impiego durava mediamente non più di 4 mesi e, nell’8,7% dei casi, vi si sommava anche una durata ridotta, non superiore alle 20 ore settimanali. (Mincuzzi e Peruzzi, 1997)[6]

c)   Secondo l’istituto statistico della Commissione Europea il tasso di uscita annuale dal lavoro dipendente è, in Italia,  del 12,9% a fronte di una media europea del 16,5. Un valore che ci posiziona al disopra della Germania e del Belgio e assai vicini a Francia, Irlanda e Grecia.[7]

d)  B. Contini ed altri, analizzando i flussi dei posti lavoro e dei lavoratori nel periodo 1985-91 sostengono che il turnover nel settore privato dell’economia è stato pari al 20% annuo.   Un valore che “si pone ad un livello più elevato di altri paesi europei, come la Germania, e allo stesso livello degli Stati Uniti” (Contini et ali, 1996, Vol. I, pag. 155).

 

Appare ben strano, allora, che un paese con un mercato del lavoro davvero tanto rigido, raffigurato normalmente come imbrigliato in una rete di leggi e regolamenti che rendono il lavoratore inamovibile, possano esistere una maggioranza di lavoratori non garantiti contro i licenziamenti, vi siano oltre un milione di dipendenti con contratto a termine (e altrettanti collaboratori coordinati e continuativi, anch’essi con contratti di breve durata) e, infine, ogni anno un lavoratore ogni cinque cambi posto di lavoro. Insomma pare aver ragione l’Agenzia del Lavoro del Veneto, laddove nota che:

“le tendenze recenti indicano che il mercato del lavoro - nonostante l’insistenza sulle rigidità della regolamentazione dei rapporti contrattuali - sperimenti già oggi forme di flessibilità contrattuale in misura tutt’altro che marginale, principalmente nelle aree a maggiore dinamismo occupazionale e a forte concentrazione industriale”. (Agenzia Lavoro del Veneto, 1997, pag. 221)

Rimane invece incontestabile l’esistenza di una fascia di lavoratori “tipici”, che lavorano nelle aziende medie e grandi del settore industriale e nei servizi alle imprese, iper-garantiti contro i licenziamenti, ben tutelati dal sistema di welfare e “coccolati” dalle loro organizzazioni sindacali. Ma la loro consistenza numerica è in costante riduzione e, soltanto con molte difficoltà possono davvero essere ritenuti  responsabili della presunta rigidità di un intero mercato del lavoro. Tra l’altro, con ogni probabilità, essi costituiscono quel core group di lavoratori la cui presenza stabile in impresa è di fondamentale importanza al fine di garantire all’azienda conoscenze, skills competitivi, prontezza di risposta alle domande qualitative del mercato. Sono gruppi, insomma, che nessun manager licenzierebbe a cuor leggero, proprio come Henry Ford, pur avendo bisogno di operai senza abilità per la sua catena di montaggio,  non licenziava i meccanici provetti, ma li promuoveva capi reparto.

 

 

3. Lavorare a tempo parziale

 

Un’argomentazione utilizzata per sostenere la tesi della scarsa flessibilità del mercato del lavoro in Italia è la ridotta quota di lavoratori part-time. Essi costituiscono da noi, al contrario che in altre nazioni, una piccola percentuale della forza lavoro, poco più del 6% a fronte di una media europea quasi tripla (tabella 2). Si tratta di un fenomeno attribuito, come vedremo in seguito, a varie cause, ma che non possiamo evitare di trovare quantomeno strano. Infatti la contrattazione, cui è demandata la determinazione della percentuale di ricorso al part-time in azienda fissa margini decisamente superiori. Secondo Treu (1993) la soglia stabilita  negli accordi nazionali oscilla tipicamente tra il 10 e il 15% degli occupati.  Perché allora le aziende non sfruttano appieno le opportunità di cui già dispongono ? In via induttiva, dovremmo ipotizzare che: a) o i sindacati in azienda non rispettano le norme che essi stessi fissano nei contratti nazionali, imponendo quindi quote molto al di sotto di quelle già decise; oppure: b) le aziende sono poco interessate a questo strumento, almeno se applicato al nucleo stabile della manodopera.

 

Tabella 2. Il part-time in Europa (Percentuali su totale degli occupati)

 

                              

Paese

Maschi

Fem-mine

Totale

Austria

2,9

27,0

13,3

Belgio

3,1

33,4

15,4

Danimarca

10,8

36,1

22,5

Finlandia

6,7

15,1

11,0

Francia

5,1

29,4

16,2

Germania

3,1

33,8

16,4

Gran Bretagna

7,2

43,6

24,5

Grecia

2,2

5,5

3,4

Irlanda

6,0

22,8

13,3

Italia

2,4

12,1

6,1

Paesi Bassi

16,5

67,0

37,4

Portogallo

1,6

7,6

4,4

Spagna

2,1

16,3

7,1

Svezia

8,9

43,7

26,4

Media Europea

4,9

32,0

16,7

Fonte: Istat, 1997, pag. 52

 

 

Se, con una operazione un po’ semplicistica, utilizzassimo la quota di lavoratori a tempo parziale come stimatore del grado di rigidità del mercato del lavoro in Europa non potremmo che concludere affermando l’esistenza di una configurazione “a più fasce” dei mercati del lavoro: da una parte vi sono le nazioni dell’area mediterranea, contraddistinte da un mercato del lavoro rigido; dall’altra i Paesi del nord, “campioni” della flessibilità. Tra questi due estremi si situano le restanti nazioni del centro Europa. Ma  nella diffusione del lavoro a tempo parziale (e soprattutto nelle differenze esistenti tra i diversi paesi) vi sono più spiegazioni e non è detto che quella regolatoria sia la più adatta a gettare luce sul fenomeno. Dederichs e Kohler (1993) in uno studio per la Fondazione europea attribuiscono ad esempio alla femminilizzazione del mercato del lavoro le differenze nazionali nel part-time:

 

“Sostanzialmente, nei paesi ad alta incidenza dell’occupazione femminile anche la quota dei dipendenti a tempo parziale è elevata.  (...) Inversamente, la quota dei dipendenti a tempo parziale in paesi quali Irlanda, Italia e Spagna è relativamente modesta in quanto in tali paesi anche l’incidenza dell’occupazione femminile è relativamente scarsa” (pag. 56)

 


Figura 1: Femminilizzazione del mercato del lavoro vs part-time

 

 

 

Come si vede dalla figura sopra, la regressione in effetti fornisce una buona valenza esplicativa, nel senso che effettivamente esiste una relazione lineare tra le due variabili (r2=0,46). Ma, al contempo, esistono eccezioni di non piccolo peso. Come spiegare infatti il caso dei Paesi Bassi, ove nonostante che il part-time interessi il 32% dei lavoratori, la quota di femminilizzazione del mercato del lavoro è al di sotto dei valori portoghesi (ove per converso il part-time è inferiore al 4%)?

E’ intuibile che la spiegazione dei due studiosi della Fondazione Europea, pur aggiungendo un tassello al puzzle, non può essere considerata esaustiva. E’ sufficiente infatti analizzare anche superficialmente la struttura del mercato del lavoro nei diversi paesi per rendersi conto che esistono differenze non soltanto nel grado di partecipazione della manodopera femminile ma, anche, nella distribuzione intersettoriale dell’occupazione e, soprattutto, nell’importanza assunta dal lavoro autonomo (tabella 3).

 

Tabella 3: Il lavoro autonomo in Europa nel 1992.

 

Quota di lavoratori indipen-denti

Belgio

18,9

Danimarca

11,4

Germania

11,0

Grecia

47,7

Spagna

26,3

Francia

15,7

Irlanda

25,1

Italia

28,2

Olanda

11,9

Portogallo

28,8

Regno Unito

13,4

Lussemburgo

11,0

Media europea

18,5

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat

 

Anche qui, con una semplice regressione lineare è facile dimostrare che esiste una relazione inversa tra ricorso al part-time e quota di lavoro autonomo. Tanto più l’uno è sviluppato, tanto meno sarà diffuso l’altro (figura 2).  Quindi, se attribuissimo al part-time il ruolo di “eminente” flessibilizzatore del mercato del lavoro dovremmo, per correttezza scientifica, affermare che la maggior diffusione del lavoro autonomo ha l’effetto opposto. Il che, sinceramente, pare difficile da sostenere. Più logico, invece è considerare i diversi aspetti del lavoro - il ricorso al part-time e al lavoro autonomo - come strumenti diversi ma senza dubbio concordanti tramite cui le aziende flessibilizzano il loro agire organizzativo. La loro maggiore o minore disponibilità - che si concretizza nel maggior o minore ricorso ad essi - è giustificato dalle diverse legislazioni sociali, dalle attitudini delle imprese e dalle stesse tradizioni culturali dei diversi paesi.

 

Figura 2: Relazione tra lavoro part-time e lavoro autonomo in 13 paesi europei (valori percentuali)

 

 

 

Va infine detto che è tutt’altro che assodato - nonostante le statistiche - che il part-time nel nostro paese sia davvero cosi’ poco diffuso. Così l’Istat in materia:

“mentre in alcuni paesi (tra cui l’Italia) la consistenza dell’occupazione part-time viene determinata sulla base della percezione che gli individui hanno della loro condizione lavorativa, in altri viene utilizzato un criterio oggettivo, legato al numero di ore abitualmente lavorate (non più di 30 ore settimanali in alcuni paesi o 35 in altri). Se, ad esempio, in Italia venisse adottato il secondo criterio, la quota di lavoro a tempo parziale raddoppierebbe, per l’inclusione in questa categoria degli insegnanti, che certo non vengono considerati lavoratori part-time” (Istat, 1997, pag. 53)

 

Se teniamo conto dell’avvertenza appena detta, vengono a cadere, in quanto destituite di qualsiasi fondamento matematico, le grandi disfide sulla flessibilità e il part-time che hanno riempito i giornali economici negli ultimi tempi: il re era nudo, ma nessuno se ne avvedeva.

L’Italia non è nuova a “discordanze definitorie” che creano un’immagine distorta del nostro mercato del lavoro. Si pensi ad esempio al tasso di disoccupazione, che viene calcolato in tre modi differenti, più o meno in accordo con l’Eurostat. Oppure al  fatto che, nel numero dei disoccupati, vengono considerati anche i soggetti in condizione non professionale (studenti, pensionati, casalinghe) che cercano lavoro. In questo modo la percentuale della disoccupazione cresce del 30% circa, anche se si ottengono - questo il lato positivo - una serie di informazioni di grande valore per chi studia il mercato del lavoro, sulla propensione al lavoro di fasce di popolazione che altrove sono invece considerati come non appartenenti alle forze di lavoro. Che le statistiche siano leggibili in molti modi, a volte paradossalmente diversi, lo dimostra anche l’esercizio condotto da R. Faini, G. Galli e F. Rossi (1996) i quali, rielaborando il tasso ufficiale di disoccupazione alla luce delle disponibilità oggettive al lavoro, arrivano a definirne addirittura 8 diversi, oscillanti tra un tragico 22,7% e la piena occupazione (0,7%).

 

Quanto detto sinora consiglia di mettere da parte la diffusione del part-time come indicatore privilegiato della maggiore o minore flessibilità del mercato del lavoro.  Al suo posto, questa la nostra proposta, in Italia (e probabilmente nei paesi dell’area mediterranea) potrebbe essere utilizzata la quota di lavoro autonomo.

 

 

 

4.     Lavorare per sé

 

L’enorme sviluppo in Italia dell'occupazione "in proprio" è dovuta a più cause: l’ampio tessuto di piccole aziende e di un’imprenditorialità diffusa, tradizionale in varie aree del paese (Priore & Sabel, 1987); la possibilità, specialmente nei servizi, di iniziare attività commerciali e produttive  pur disponendo di "budget" limitati o addirittura inesistenti; la particolare struttura del sistema fiscale italiano, che per decenni ha lasciato ai lavoratori indipendenti ampie possibilità di "erosione" rendendo così attraente il lavoro autonomo; l’alto costo del “contratto assicurativo” stipulato dai lavoratori dipendenti, che come afferma Ichino (1996) è di stimolo al passaggio nei ranghi di chi lavora in proprio. Infine, la richiesta di prestazioni atipiche e flessibili da parte delle imprese maggiori.

Per le aziende la disponibilità di varie forme di lavoro autonomo ha rappresentato una opportunità importante per garantirsi la flessibilità numerica e anche quella retributiva che da sempre vanno reclamando. Tutti i settori produttivi, anche quelli classici, hanno fatto ampio ricorso a queste forme esterne di flessibilità. Nell’industria, ad esempio, l'occupazione dipendente, stabile o in leggera crescita durante gli anni settanta, è andata diminuendo dopo il 1980, con una perdita superiore alle 128.000 unità per anno. Diminuzione che è poi accelerata ulteriormente a partire dal 1990. I settori più colpiti dalla riduzione occupazionale sono stati quello delle costruzioni (-170.000 posti di lavoro tra il 1980 ed il 1988), della produzione dei mezzi di trasporto, passati da 446.500 addetti a 341.100, delle industrie elettriche (-108.000 unità) e di quelle del legno (ridottosi del 20%). L'occupazione indipendente, al contrario, è aumentata, rispetto al 1970, di circa il 23,5% e il settore che ha avuto il maggior incremento del lavoro indipendente è quello delle costruzioni, lo stesso ove maggiormente si è ridotta l’occupazione dipendente.

 

La tendenza all’aumento del lavoro autonomo è confermata anche se osserviamo il fenomeno ricorrendo ai dati delle dichiarazioni dei redditi anziché a quelli Istat (tabella 4). Nel arco di soli cinque anni, tra il 1987 e il 1992, il numero complessivo di contribuenti con reddito da lavoro indipendente è aumentato del 7,1%.  Gli aumenti maggiori (rispettivamente il 51 e l’82%) si sono avuti tra i percettori di redditi da collaborazioni coordinate e continuative e da lavoro autonomo saltuario. Sono queste le fattispecie emergenti nel mercato del lavoro: prestazioni che hanno poco a vedere con le professioni liberali o con l’imprenditorialità. Il loro rapporto funzionale con l’impresa, se non fosse per il ridotto livello di protezione sociale, ben poco si distinguerebbe da quello dei lavoratori dipendenti. E’ una quota di manodopera (quasi 1,2 milioni di lavoratori nel 1992, certamente molti di più oggi) in grado di assicurare alle aziende la flessibilità di cui hanno bisogno.  Anche salariale:  dai dati delle dichiarazioni dei redditi relativi al 1992 risulta che un imprenditore con un lavoratore alle dipendenze dichiarava quasi 51 milioni di spese per le retribuzioni. Nello stesso anno un collaboratore coordinato e continuativo costava all’impresa appena 18 milioni. 

 


Tabella 4: L’evoluzione dei redditi di lavoro autonomo e d’impresa

 

1987

1992

Diff.

%

 

 

 

 

 

Lavoratori autonomi

4.045.943

4.331.804

285.861

7,1

di cui:

 

 

 

 

Imprenditori

2.691.478

2.494.792

-196.686

-7,3

Professionisti

622.926

649.105

26.179

4,2

Collaboratori Coordinati

464.931

703.592

238.661

51,3

Lavoratori saltuari

266.608

484.315

217.707

81,7

Fonte: nostra elaborazione su dati Ministero delle Finanze, 1991 e 1996

 

 

Che nel lavoro autonomo non vi sia soltanto una tendenza alla “fuga dal lavoro dipendente” o una riscoperta delle vocazioni imprenditoriali pare essere una tesi più che sostenibile: chi non trova sul mercato un lavoro dipendente spesso “si inventa un’attività”. Altre volte passare tra i ranghi dei collaboratori è l’unico modo per non rimanere stritolati dalle operazioni di downsizing: è noto che molte imprese - grandi e piccole - incentivano l’uscita dei dipendenti offrendo, a chi si mette in proprio, quote anche consistenti di lavoro in out-sourcing.  A volte con il carisma dell’ufficialità contrattuale, come avvenuto nel 1995 alla Telecom Italia, nel cui contratto fu prevista la cessione ai dipendenti dei negozi sociali InSip, quelli che vendono prodotti e servizi dell’azienda.

Tutto ciò contribuisce a creare quel modello di flessibilità originale - forse anche “strana” -  che non si riscontra in altri Paesi, basato sulla possibilità, per le aziende di maggiori dimensioni, di far ricorso alle prestazioni esterne da parte di micro-imprenditori, di lavoratori autonomi e parasubordinati. E’ l’esistenza massiccia di questi soggetti nel nostro sistema produttivo che contribuisce a rendere flessibile il mercato del lavoro italiano.

Al di là delle affermazioni, però, per dimostrare quanto sopra dovremo, anzitutto, accertarci che:

n    l’esistenza di lavoratori in imprese di dimensioni piccolissime e il lavoro autonomo “atipico” costituisce davvero, per le dimensioni che assume, un mercato del lavoro periferico e flessibile;

n    che i lavoratori in questo mercato hanno caratteristiche diverse dai professionisti classici: sono giovani, svolgono secondi lavori, ecc;

n    che le aziende fanno ampio ricorso a tali soggetti per flessibilizzare i loro processi produttivi e per sopperire alle rigidità sistemiche;

 

Va detto sin d’ora che non tutti i punti precedenti potranno in questa sede venire approfonditi con il livello di dettaglio necessario.  I dati più utili allo scopo di caratterizzare il lavoro autonomo nelle sue diverse forme, infatti, sono quelli relativi alle dichiarazioni dei redditi e, dall’anno scorso e limitatamente all’universo dei collaboratori coordinati e continuativi, le informazioni in possesso dell’INPS relative agli iscritti al fondo pensionistico detto “del 10%”. Entrambe queste fonti, pero’, sono limitate. Gli enti che le gestiscono sono poco propensi, sia per attitudine che per una stringente - e forse anche eccessiva - aderenza alle normative sulla tutela della privacy, a permettere elaborazioni sui file - seppur aggregati e privi delle identificazioni personali - che potrebbero aiutare il ricercatore nel suo compito[8].

Pur con tali limitazioni, comunque, i dati fiscali e contributivi rimangono pur sempre fonti di enorme importanza, che è bene sfruttare quanto più possibile.

 

 

6.   L’anomalo lavoro autonomo italiano

 

Nel 1987 risultavano, al Ministero delle Finanze, 4.181.911 contribuenti che dichiaravano di possedere redditi da lavoro autonomo o d’impresa.   I lavoratori dipendenti e pensionati che avevano presentato un modello 101 o 102 erano invece 20.661.320. Di questi oltre un milione (precisamente 1.179.349) dichiaravano di aver ottenuto, nel corso dell’anno precedente, anche qualche altra forma di reddito. In oltre settecentomila casi si trattava di lavoro autonomo in varie forme, per i restanti 400 mila di redditi d’impresa.  Quasi sei lavoratori dipendenti su cento, in definitiva, erano titolari di un secondo reddito - e quindi un lavoro -  extra-dipendente. Si tratta, è bene sottolinearlo, di attività perfettamente legali, che non ricadono, almeno sotto il profilo fiscale, nell’area del lavoro nero. Oltre un quarto di questi doppi lavori si caratterizza giuridicamente come collaborazioni coordinate e continuative e un quinto era composto di lavori autonomi saltuari.  Quel che sembra pero’ più interessante è che, per i redditi da lavoro autonomo, i secondi lavori dichiarati equivalgono quelli svolti in maniera esclusiva (tabella 5)

Nel 1992 la situazione si evolve nel senso di una maggiore incidenza, nell’universo del lavoro autonomo, dei secondi lavori (che passano dal 28 al 31 % del totale), ma anche per una massiccia avanzata del “lavoro autonomo atipico”. I contribuenti che dichiarano redditi d’impresa  diminuiscono in totale di circa il 7%, mentre aumenta il numero degli “imprenditori part-time” che associano all’impresa un lavoro dipendente. I professionisti “puri” aumentano, ma soltanto del 4%.  Le forme atipiche di lavoro autonomo, al contrario, fanno registrare un’incremento davvero notevole: i collaboratori e consulenti saltuari aumentano di quasi 250 mila unità (+69%), come anche i lavoratori coordinati (+47%).  Le imprese, insomma, hanno a disposizione nel 1992, solo nell’area del lavoro autonomo, 2.047.511 lavoratori flessibili - circa mezzo milione in più rispetto al 1987. Si tratta di soggetti disposti ad accettare contratti di lavoro non convenzionali sia per la durata che per le protezioni sociali.

 

Si tratta di uno “stock” di flessibilità da non disprezzare, che va ad aggiungersi ai 4.975.000 lavoratori in nero stimati dall’Istat e ai 1.064.000 dipendenti con contratto a termine.


Tabella 5: Composizione del lavoro autonomo nel 1987 e nel 1992 [9]

 

                                   1987                                                   1992   

 

Con reddito di lavoro dipendente

Lavoratori autonomi “puri”

Totale

Con reddito di lavoro dipendente

Lavoratori autonomi “puri”

Totale

Compilano il quadro E1/A

65.163

77.097

142.260

 

 

 

Compilano il quadro E1/B

227.464

253.202

480.666

283.375

365.730

649.105

Compilano il quadro E2

249.050

272.808

521.858

343.950

423.531

767.481

Compilano il quadro F

80.506

538.827

619.333

111.494

620.115

731.609

Compilano il quadro G

348.115

1.724.030

2.072.145

302.277

1.460.906

1.763.183

Compilano il quadro L

 

209.051

136.598

345.649

348.482

234.402

582.884

Totale

1.179.349

3.002.562

4.181.911

1.389.578

3.104.684

4.494.262

 

 

 

 

 

 

 

Valori %

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Compilano il quadro E1/A

45,81

54,19

100,00

 

 

 

Compilano il quadro E1/B

47,32

52,68

100,00

43,66

56,34

100,00

Compilano il quadro E2

47,72

52,28

100,00

44,82

55,18

100,00

Compilano il quadro F

13,00

87,00

100,00

15,24

84,76

100,00

Compilano il quadro G

16,80

83,20

100,00

17,14

82,86

100,00

Compilano il quadro L

 

60,48

39,52

100,00

59,79

40,21

100,00

Totale

28,20

71,80

100,00

30,92

69,08

100,00

Che questi soggetti non siano al “top” nella graduatoria sociale dei lavori lo dimostra anche una breve analisi sui loro redditi. Come si vede dalla tabella 6 che segue, il reddito da lavoro autonomo associato al lavoro dipendente aggiunge, in media, pochissimo ai redditi dei soggetti, che in ogni caso non riescono ad eguagliare i “veri” professionisti. Nel 1992, pur tenendo conto dell’alta evasione fiscale dei professionisti liberali, un commercialista dichiarava di guadagnare 75 milioni, un consulente del lavoro 57, un ingegnere 55, un agente di borsa 54. Valori, quindi, ben al di sopra di quanto fosse possibile “racimolare” come professionista “atipico”, che svolge la sua opera con contratti di lavoro autonomo saltuari o continuativi. Nel 1992 il reddito di lavoro autonomo creato dai lavoratori dipendenti ammontava ad oltre 3.200 miliardi: tenendo conto del reddito medio dei lavoratori autonomi, questo equivale a circa 123 mila professionisti “equivalenti” aggiuntivi .

I settori in cui massima è la concentrazione di lavoro autonomo atipico sono tutti nel terziario. I dipendenti della sanità e dell’istruzione dichiarano mediamente oltre un milione di reddito extra generato per addetto, mentre gli impiegati pubblici, quelli specializzati in vari tipi di servizi alle imprese e i dipendenti impegnati nel terzo settore hanno tutti redditi medi aggiuntivi attorno alle 500 mila lire annue.  Assai distaccati sono invece i dipendenti dell’industria e del commercio, che racimolano mediamente tra le 150 e le 250 mila lire di lavoro autonomo.

Alla corsa all’integrazione del reddito tramite il lavoro autonomo non sfuggono, naturalmente, i pensionati. I quasi 8 milioni di titolari di pensione che risultavano al Ministero delle Finanze nel 1992 generavano un reddito di lavoro autonomo di 1200 miliardi (nonché altri 723 miliardi di redditi d’impresa), con un reddito equivalente a quello di 46 mila professionisti. I più attivi nell’offrirsi sul mercato del lavoro autonomo atipico sono i più scolarizzati, quelli  nelle fascie di età compresi tra i 40 e i 60 anni (figura 3)  e, infine, i separati e i divorziati, che probabilmente sono anche più giovani e istruiti e, essendo rimasti soli, hanno più tempo da dedicare al lavoro.

 

Dal quadro appena tratteggiato emerge con sempre maggior forza quella che costituisce l’anomalia italiana del mercato del lavoro. Da una parte esistono milioni di inoccupati “selettivi”, non disponibili cioè ad accettare un lavoro qualsiasi, ma al contempo propensi a svolgere lavoretti poco impegnativi o gratificanti. Dall’altra parte esiste una quota non indifferente di lavoratori dipendenti e pensionati, i cui redditi principali sono, almeno se guardiamo  agli standard europei - e ciò anche a causa dell’imposizione fiscale -  ben al di sotto delle medie europee.  La coesistenza dei due fenomeni genera una fioritura di lavori autonomi (e non necessariamente altamente professionalizzati) svolti come attività secondaria, a volte nell’economia sommersa, ma spesso anche all’interno delle regole fiscali contributive. Questa massa di lavoro flessibile è disponibile alle imprese, ed è da queste utilizzata per aumentare la possibilità di adattarsi in tempo reale ai mutamenti del mercato delle merci.

 

 

Tabella 6: Redditi medi per categoria (importi in milioni di lire)

 

 

1985

1992

Variazione

(%)

Lavoratori dipendenti senza altri redditi

15,89

20,83

+31,12

Lavoratori autonomi senza altri redditi

15,95

25,57

+60,35

Percettori esclusivamente di redditi diversi

5,24

6,83

+30,29

Lavoratori dipendenti con redditi di lav. autonomo

14,84

24,99

+68,45

Lavoratori dipendenti con redditi occasionali

16,34

21,75

+33,12

 

 

 


Figura 3: Redditi medi di lavoro autonomo dei pensionati. Anno 1992

 

 

7.   Il lavoro coordinato

 

La riforma pensionistica del 1995 ha introdotto, seppur in maniera all’inizio un po’ caotica, una nuova forma di copertura assicurativa per quei professionisti che non disponevano di una cassa pensioni o della tutela di un ordine professionale e le cui prestazioni erano soggette a ritenuta alla fonte da parte del datore di lavoro. A questi soggetti viene oggi chiesto di iscriversi ad un apposito fondo al quale va versato il 10% dell’importo pattuito per ogni attività svolta. Alla data del 31 marzo 1997, secondo gli scarni dati diffusi dall’Inps, risultavano iscritti poco meno di 1.039.000 lavoratori, in grandissima  maggioranza (904.953) titolari esclusivamente di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.  In ottemperanza alle norme di legge, al fondo debbono iscriversi anche i lavoratori dipendenti o i pensionati - che quindi avrebbero già diritto a un trattamento pensionistico per altra via - nel momento in cui instaurano un rapporto professionale non occasionale con un soggetto economico. In pratica, per richiamarci alle tabelle presentate in precedenza, gli oltre 900 mila collaboratori altro non sono che coloro i quali, in sede fiscale, dichiarano i loro redditi compilando il modello E-sezione II del modello 740.

Una prima considerazione è evidentemente sul loro loro numero, che rispetto all’ultimo dato ufficiale disponibile (la dichiarazione dei redditi 1992) è aumentato ulteriormente, passando da  767.000 a 905.000, con un incremento pari al 18%. E’ però sensazione diffusa, almeno tra gli addetti ai lavori,  che il numero dei collaboratori fosse ancora più alto. Sarebbe stata proprio la riforma del 95, che di fatto fa gravare sui datore di lavoro un onere aggiuntivo pari al 6,7% (pari a 2/3 del 10%), a spingere molti, specialmente coloro che svolgono un primo lavoro “regolare” (e sono quindi coperti da un sistema pensionistico) ad accettare di convertire i rapporti di collaborazione coordinati in rapporti occasionali. Oppure stipulando, laddove possibile - si pensi a chi opera nel settore della produzione culturale - contratti per cessione di know how o di diritti di autore, ottenendo in tali modi l’esenzione dal versamento al fondo del 10%.

Ma è possibile caratterizzare meglio il “popolo del 10%” ? Purtroppo, al momento, su di loro disponiamo di pochissime informazioni. Sappiamo (tabella 7) che sono oltre un milione, per la metà giovani fino a 40 anni e in larga maggioranza hanno contratti di lavoro coordinato. Abbiamo però anche la loro distribuzione su base regionale. E’ proprio quest’ultima informazione, che permette una seppur limitata analisi statistica, che utilizzeremo per le nostre elaborazioni.

 


Tabella 7: Gli iscritti al fondo del 10%

 

Tipologia di iscrizione

 

Collaboratori

904.953

Collaboratori e professionisti

18.883

Professionisti

115.129

Distribuzione per classi di età

 

Fino a 30 anni

20,6%

Da 30 a 40 anni

29,1%

Da 40 a 50 anni

22,7%

Da 50 a 60 anni

19,0%

Oltre 60 anni

8,6%

 

 

Il numero dei collaboratori è, come logico, fortemente correlato con l’indice di sviluppo economico delle diverse regioni. Maggiore è il numero delle unità locali esistenti, maggiore sarà anche il numero dei collaboratori legati alle imprese. Assolutamente non significativa, al contrario, è la relazione con la densità di impresa e i tassi di attività, il che farebbe presagire che, al fine di spiegare la maggiore presenza di collaboratori non conta l’esistenza di una struttura diffusa di piccole imprese, quanto invece la dimensione media delle unità locali. Infatti, come mostra la figura che segue, sono proprie le regioni in cui esistono aziende di maggiori dimensioni quelle ove più si concentrano i collaboratori iscritti al fondo del 10%. Come spiegare questo andamento ? Non pensiamo di essere lontani dal vero affermando che sono le imprese medio-grandi quelle che ricercano la maggiore flessibilità operativa (probabilmente avendone strutturalmente meno).  Tramite i professionisti atipici riescono ad ottenere le professionalità utili al momento giusto e per il tempo necessario - e tutto ciò mantenendo la piena legalità fiscale e contributiva. Per le aziende più piccole, invece, probabilmente risulta più conveniente rischiare eventuali sanzioni e ricorrere, anziché ai collaboratori regolari, alla vasta area del lavoro sommerso e irregolare.   Se ciò venisse  confermato, per inciso, verrebbe anche ad essere vanificata, almeno in parte, la speranza di far emergere il lavoro sommerso mettendo a disposizione delle imprese strumenti alternativi, come ad esempio il lavoro interinale.

 

 

Figura 4: Relazione esistente tra dimensione d’impresa e ricorso al lavoro coordinato

 

 

 

 

8. Cenni conclusivi

 

In conclusione di questo studio ci sembra di poter sostenere che l’assunto della rigidità del mercato del lavoro italiano, tradizionalmente affermata basandosi sulla esistenza di una normativa che rende estremamente difficile per le aziende le operazioni di downsizing e giustificata poi statisticamente con la ridotta quota di lavoro part-time, sembra essere tutt’altro che resistente ad un’analisi non superficiale. Questo, naturalmente, non inficia alla radice la visione “classica”, secondo cui le Nazioni con basse percentuali di part-time hanno anche mercati del lavoro rigidi, ma ne circoscrive i contorni: nel caso italiano la flessibilità della prestazione lavorativa è ottenuta per altre strade. E’ l’ampia disponibilità di lavoro autonomo e parasubordinato, spesso svolto come seconda attività, che fornisce alle aziende il bacino di lavoratori flessibili di cui hanno bisogno.

E’, senza dubbio, un modello di flessibilità con forti anomalie, in quanto contribuisce a generare un comportamento amorale, in cui le aziende trovano conveniente rilasciare lavoro dipendente - tutelato e costoso - per sostituirlo con prestazioni di lavoro indipendente atipico. I lavoratori, dal canto loro, si sentono nel pieno diritto di coprire più posizioni lavorative, cambiando ruolo con la stessa facilità con la quale si cambia cravatta. Ciònonostante il meccanismo, se osservato sotto il profilo dei risultati, fornisce senz’altro ottimi performances.  Il mercato del lavoro atipico riesce a costituirsi davvero come un modello di flessibilità (figura 5) che, come indicato nella figura che segue, coinvolge in maniera sistemica 8 milioni di persone, circa il 36 % delle forze di lavoro italiane. In questa coorte ciascuna azienda - come in un enorme supermercato - è in grado di trovare quel che cerca. Vi sarà chi vi trova alte professionalità e specializzazioni pregiate, altri vi scoveranno giovani brillanti da provare per periodi di tempo medio-lunghi prima di procederne all’assunzione. Altri ancora pescheranno sugli immaginari banchi di quel particolare mercato manodopera a basso costo, magari immigrati illegali da sottopagare o giovani studenti cui affidare i lavori durante le feste comandate.

Naturalmente tutto ciò, se da una parte riequilibra le rigidità del sistema, ha anche costi notevoli. Aziende abituate a far ricorso ad un siffatto mercato del lavoro difficilmente troveranno conveniente tornare ad assumere se non hanno la garanzia di poter poi disfarsi della manodopera senza eccessivi problemi. Inoltre, l’esistenza di lavoratori per così dire “a costi differenziati” crea un gap a favore delle aziende più spregiudicate e più abili nel muoversi nelle pieghe del mercato del lavoro.  Una parte di colpe, naturalmente, sta anche sul versante del lavoro: chi è tutelato troppo troverà conveniente offrirsi per secondi lavori flessibili, essendo certo di non rischiare nulla o quasi. E così facendo spinge ancora più verso il basso chi tutelato non lo è per nulla. 

Vie di uscita se ne vedono poche, se è vero che anche un istituto di ricerca vicino alla Cgil afferma tristemente che “finchè non si risolve il problema delle basse retribuzioni tentare di arginare il secondo lavoro ha le stesse chance di impedire ai contadini andini, in regime di proibizionismo, di coltivare la coca” (Birindelli, 1997). Essendo quanto auspicato da Birindelli - l’aumento generalizzato delle retribuzioni - difficile da ottenere almeno quanto la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di retribuzione, probabilmente la soluzione per riportare il mercato del lavoro italiano a un modello “più normale” sta nel ridurre per via legislativa la convenienza per le aziende a far ricorso al lavoro autonomo atipico. Ciò passa per due strade tra loro congruenti. Da una parte l’estensione di alcune garanzie - come ad esempio il compenso minimo e una protezione assicurativa adeguata- sinora esclusivo appannaggio del lavoro dipendente anche ai lavoratori parasubordinati e ai professionisti occasionali. Dall’altra la riduzione dei carichi fiscali sul lavoro dipendente e l’incentivazione delle prestazioni flessibili, magari tramite la nascita di appositi fondi di riequilibrio del mercato del lavoro.


Figura 5: Morfologia del mercato del lavoro flessibile in Italia

 

 

 

 

 

 


 

 

 


 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

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Birindelli, L. (1997), “Mezzo tempo, un tempo e mezzo”, in Rassegna Sindacale, n. 30, 5 Agosto 1997.

 

Brunetta, R. (1994), La fine della società dei salariati, Venezia, Marsilio.

 

Cipolletta, I. (1997), “L’anatema sui licenziamenti”, Il Sole 24 Ore, 11 luglio 1997

 

Contini, B. et ali (1996), “La mobilità del lavoro in Italia (1985-91)”, in Galli g. (a cura di, 1996), La mobilità della società italiana, Vol. I, Roma, SIPI.

 

Dederichs, E., Kohler, E., (1993), Lavoro a tempo parziale nella Comunità europea. Aspetti sociali ed economici, Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, Dublino.

 

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Ichino, P. (1996), Il lavoro e il mercato, Milano, Mondadori.

 

Istat (1997), Rapporto sull’Italia. Edizione 1997, Bologna, Il Mulino.

 

Mazzetti, G. (1997), Quel pane da spartire. Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro, Bologna, Il Mulino.

 

Meldolesi, L. (1997), “Un lavoratore su due ha un reddito sommerso”, in Affari e Finanza - La Repubblica, 23 giugno 1997, pag. 8

 

Mincuzzi, A., Peruzzi M., (1997), “Il posto fisso cede il passo alle assunzioni a termine”, in Il Sole 24 Ore del Lunedì, 15 Settembre 1997

 

Priore R., Sabel C. (1987), Le due vie dello sviluppo industriale, Torino, Isedi

 

Romagnoli, U. (1995), Il lavoro in Italia, Bologna, Il Mulino.

 

Treu, T., (1993), “Italy”, in Blanpain, R. (a cura di), Temporary Work and Labour Law, Deventer e Boston, Kluwer.

 

 



[1] Per tentare di dimostrare la nostra ipotesi faremo ricorso a una base statistica un po’ anomala e anche difficile da armonizzare, che unisce dati provenienti dagli istituti di statistica, dall’INPS e dalle dichiarazione dei redditi delle persone fisiche. Per una nota sulla base dati si veda l’appendice curata da Marco Clauiano.

[2] Va detto che sulla rigidità delle normative non tutti sono d’accordo. P. Sestito, (1996), ad esempio, conclude un suo bel lavoro affermando che: “nonostante alcuni sviluppi recenti, le rigidità istituzionali non paiono essere superate, ma piuttosto aggirate in larga misura, da una serie di meccanismi derogatorii. “

 

[3] Questo sistema, per inciso, si applica anche in Italia, ma solo nelle aziende con meno di 15 addetti

[4] La tabella è ricavata dai dati riportati dall’autore alle pagine 14 e seguenti.

[5]  Capita anche che l’azienda stessa sia “fantasma”: Luca Meldolesi (1997) su Affari e Finanza ricorda che nel comune di Aversa le piccole imprese calzaturiere che risultano al censimento sono appena 18, mentre un’analisi territoriale ne rileva almeno 120-150.  E che a Capodimonte, cittadina nota in tutto il mondo per le sue ceramiche, questo tipo di manifattura si è estinta. Almeno ufficialmente: in realtà - come possono testimoniare turisti italiani e stranieri - le circa settanta microimprese assicurano un flusso produttivo e una distribuzione di tutto rispetto.

[6] L’elaborazione è stata condotta su un campione di 36 province e per un totale di 936.139 assunzioni risultanti alle Agenzie regionali per l’impiego e alle Direzioni provinciali del lavoro.

[7] Il dato è riportato in Istat (1997, pag. 55) e si riferisce al periodo 1994-95 ed esclude il settore pubblico e quello agricolo.

[8] Per un ulteriore approfondimento sulla base dati impiegata e sui limiti delle fonti si rimanda all’appendice.

[9] Per la lettura della tabella va tenuto conto di quanto segue:

- il quadro E1 si riferisce al lavoro autonomo propriamente detto (esercizio di arti e professioni). Tale quadro era suddiviso, nel 1987, in due parti, A e B, che differivano soltanto per la maniera di calcolo del reddito;

- il quadro E2 si riferisce agli altri redditi di lavoro autonomo e comprende, essenzialmente, le collaborazioni coordinate e continuative e le cessioni di know how e di diritti d’autore;

- il quadro F si riferisce ai redditi derivanti dall’esercizio di imprese in regime di contabilità ordinaria;

- il quadro G si riferisce ai redditi derivanti dall’esercizio di imprese in regime di contabilità forfetaria;

- il quadro L è residuale ed include tutte le altre forme di lavoro autonomo svolte saltuariamente.