LA
SODDISFAZIONE NEL LAVORO INDUSTRIALE: VERIFICA EMPIRICA DELL'ATTUALITA' DEGLI
STUDI DI HENRI DE MAN
(Patrizio
Di Nicola, 1993)
Pubblicato
su Economia e Lavoro
1.
All'inizio degli anni '50
parte della sociologia americana si dedicò allo studio delle tematiche
attinenti la soddisfazione nel lavoro industriale. ([1]) I risultati di tali studi furono, negli anni
seguenti, sottoposti a varie critiche.
Tra i punti più discussi vi è stata la visione ottimistica che alcune di
essi sottendevano, secondo cui l'uomo soddisfatto, lavorando in armonia con
l'azienda, produce di più. A questo va
aggiunto che la scarsa chiarezza circa gli elementi che intervenivano nella
formazione del "morale complessivo" del lavoratore portò alla
creazione di indici di misurazione della soddisfazione relativamente
semplicistici, destinati a fallire, in tutto od in parte, alla verifica
empirica.
L'aver abbandonato tale
campo di indagine, però, non significa certo che la problematica della
soddisfazione nel lavoro abbia trovato soluzione.
Con il presente studio ci
proponiamo di riaffrontare la materia, vedendo come essa è stata trattata in
una ricerca poco conosciuta che, pubblicata in Italia nel 1931, è ormai
pressochè introvabile: La gioia nel lavoro, di Henri De Man. A tal fine
utilizzeremo i dati empirici che il De Man, pur raccogliendo tramite una serie
di interviste, si rifiutò di sistematizzare.
2.
Henri De Man, sociologo
belga che ebbe una certa notorietà nell'Italia degli anni Trenta grazie ad un
precedente libro, ([2]) svolse
la ricerca tra il 1924 ed il 1926; soggetti dell'inchiesta furono gli studenti
dell'Accademia del Lavoro di Francoforte sul Meno. L'Accademia era all'epoca una specie di scuola per "quadri
sindacali", frequentata principalmente da lavoratori che sarebbero poi
andati a dirigere le organizzazioni del movimento operaio e del partito
socialista.
A questo campione De Man
chiese di descrivere i sentimenti che provavano verso il proprio lavoro. Furono
raccolte, in tal modo, 78 interviste, che sarebbe più giusto definire
"storie di vita lavorativa".
Esse toccano un pò tutti i problemi tipici dell'operaio dell'industria,
le sue insoddisfazioni, la sua "alienazione latente". Vi è, ad esempio, il rimpianto per un lavoro
"artigiano" (o, per lo meno, più consono ad i propri ritmi vitali)
che si è dovuto abbandonare, come nella testimonianza che segue, di un ex
fabbro in proprio:
"Ero
particolarmente fiero quando riuscivo in una riparazione difficile che esigeva
riflessione e minuziosità, quando avevo fatto bene una buona martellatura, e
quando arrivavo a ferrare da solo un cavallo con tutte le regole dell'arte.
(...) La grande azienda mi ha dato fin da principio un senso di malessere che
non mi ha lasciato più." ([3])
Altri invece mettono in
relazione la gioia nel lavoro con il persistere di metodi lavorativi
pre-industriali. E' il caso di un minatore che mestamente afferma:
"Tempo
fa si facevano le perforazioni a mano, (con l'aiuto del punteruolo e del
mazzuolo). Il lavoro si faceva con un certo ritmo e spesso si accompagnava col
canto. Gli operai incaricati di questi lavori avevano una certa fierezza
professionale ed erano molto ricercati dai capi di azienda. Oggi la macchina è penetrata anche in questa
parte del lavoro." ([4])
Ma non per tutti la
fabbrica è necessariamente penosa.
Interessante in tal senso è la testimonianza di un operaio socialista,
membro del sindacato e del consiglio di azienda che, allorquando la direzione
introdusse il taylorismo, fu destinato allo studio dei tempi:
"E'
già un anno che ci lavoro e vi ho provato per la prima volta qualche cosa che
rassomiglia alla gioia nel lavoro, poichè sapevo che dipendeva molto da me se i
miei colleghi potevano guadagnare del denaro." ([5])
il cruccio di questo
lavoratore, semmai, è che i colleghi non apprezzano le sue "buone
intenzioni" e lo osteggiano:
"Si
può spingere tant'oltre l'ideologia della lotta di classe da disconoscere la
necessità vitale della razionalizzazione del lavoro e del perfezionamento della
tecnica ?" ([6])
Sulla base di queste 78
testimonianze, ordinatamente raccolte nella prima metà del libro, De Man
costruisce una interpretazione complessiva del lavoro nella fabbrica moderna.
3.
L'analisi del sociologo
belga parte dall'assunto che, benchè possa sembrare che vi sia "uno stato
di equilibrio instabile, di tensione, tra fattori dei quali taluni sono
favorevoli ed altri sfavorevoli alla gioia nel lavoro" ([7]), la
realtà è ben diversa, in quanto gli elementi favorevoli non esistono.
Sono presenti, invece, quelli contrari. Infatti:
"Ogni
lavoratore tende verso la gioia nel lavoro, come ogni uomo tende verso la
felicità. La gioia nel lavoro non pretende affatto di venir 'favorita', la sola
cosa che importa è che non le siano frapposti ostacoli." ([8])
Per De Man, quindi, la
ricerca della soddisfazione è un bisogno primario del lavoratore, che
scaturisce da alcuni "istinti" non "spiegabili con
l'organizzazione tecnica o sociale del lavoro". ([9]) Si tratta, evidentemente, di un dato
immutabile dell'uomo, che si estrinseca in un complicato insieme di azione,
costruttività, curiosità, stima di sè e combattività, da analizzare individualmente,
soggetto per soggetto.
La gioia nel lavoro,
comunque, non nasce solo da tali "moventi istintivi elementari" ([10]), ma
dovrebbe essere stimolata anche dalla consapevolezza di svolgere un'attività
socialmente utile. Le testimonianze
raccolte, però, non confermano tale ipotesi.
Ciò, a parere di De Man, costituirà un grande ostacolo per i riformatori
sociali in quanto, anche in un futuro socialista, "bisognerà che
l'individuo e il gruppo trovino nella organizzazione interna della fabbrica le
soddisfazioni di ordine istintivo che richiede la loro sensibilità". ([11])
Da quanto finora esposto
risultano evidenti le notevoli difficoltà che De Man dovette superare per la
formulazione delle sue ipotesi guida, marginalmente mutuate dalla psicologia e,
in larga parte, dal pensiero dei socialisti utopisti dell'Ottocento.
Assai più compiuta è la
terza parte del libro, dedicata alla disamina degli ostacoli che si oppongono
al raggiungimento della gioia nel lavoro.
Qui De Man assume un atteggiamento sociologico sorprendentemente
moderno, individuando ostacoli di tre tipi:
- di ordine tecnico
(lavoro frammentario e ripetuto, fatica, cattiva organizzazione aziendale);
- sociali interni
all'azienda (condizioni di lavoro, ingiustizia salariale, metodi autoritari
di direzione);
- sociali esterni
all'azienda (appartenenza ad una classe inferiore, insicurezza
dell'esistenza, disistima verso il lavoro manuale). ([12])
La trattazione che ne
segue è precisa ed in alcuni casi addirittura puntigliosa. L'immagine dei lavoratori di fabbrica che ne
scaturisce è quella di un proletariato condannato ad un lavoro alienante e mal
pagato, relegato alla periferia estrema della società opulenta. Come spiegare, allora, che un'alta
percentuale (addirittura il 60 %) di intervistati afferma di provare gioia e
soddisfazione nel proprio lavoro ?
La risposta di De Man è
semplice: il lavoro è ormai così tanto degradato che basta poco ad
interromperne la pena ed a far provare al lavoratore un sentimento differente, quasi
di felicità. Ma non è detto che
sempre sarà così; anzi, una "evoluzione è in corso sotto l'influsso del
perfezionamento della tecnica, dell'incremento della volontà di potenza della
classe operaia e dell'affinamento nei suoi 'padroni' della coscienza sociale".
([13])
Grazie a ciò "il
proletariato vede crescere il senso di rispetto che egli deve a sè stesso, la
coscienza della sua dignità umana ed il bisogno di essere fiero del lavoro che
compie". ([14])
4.
Quanto detto finora, pur
ricalcando fedelmente le conclusioni cui giunge De Man, non rende certo
giustizia della problematicità con la quale l'autore si pone difronte
all'oggetto della sua indagine.
Per De Man le 78
interviste non costituiscono che un punto di partenza, su cui edificare un
impianto teorico utilizzando non i metodi delle scienze sociali, ma bensì
quelli della speculazione logica. Il
rifiuto delle tecniche statistiche, quantitative, è dichiarato fin dall'inizio:
"per vederci chiaro bisogna cogliere la fisionomia particolare di ogni
caso individuale e, per arrivare a concludere, bisogna caratterizzare e non
contare". ([15])
Secondo De Man, quindi, i
78 lavoratori non costituiscono un "campione", ma un insieme di casi
personali, analizzabili tutt'al più psicologicamente. I motivi di questa scelta possono essere ricercati nella scarsa
rappresentatività del gruppo indagato: si tratta infatti di giovani, quasi
esclusivamente maschi, impegnati sindacalmente.
Nonostante ciò, a noi
pare che un'analisi quantitativa sia ugualmente da tentare. E non per
"contare", come giustamente sconsiglia De Man, ma con altri
scopi. Innanzi tutto per verificare se
questo "campione particolare" esprime atteggiamenti verso il lavoro
che possano essere generalizzati; in secondo luogo per tentare di capire se e
quanto le loro aspettative siano ancor oggi, a più di sessanta anni di
distanza, patrimonio delle classi lavoratrici.
Naturalmente, l'operaio
degli anni Ottanta non è lo stesso che aveva difronte De Man; le modifiche, sia
negli stili di vita che nel modo di lavorare, sono stati enormi ed autorizzano
a supporre che ben pochi siano i punti di contatto. Ciononostante l'elaborazione quantitativa che ci accingiamo a
presentare non è una semplice operazione di "archeologia
sociologica". Anzi, ci è parso
oltremodo doveroso riprendere in mano questa ricerca che, forse per la prima
volta, affrontò le tematiche della pena e della gioia (la soddisfazione,
diremmo oggi) nel lavoro manuale attraverso la viva voce degli
interessati. Semmai, stupisce che
nessuno abbia avuto finora la curiosità necessaria per "spulciare" i
dati che le 78 interviste contengono.
Per compiere questa
post-elaborazione abbiamo sistematizzato le interviste originarie, costruendo
un questionario "virtuale" (con relative tabelle di decodifica delle risposte)
che prendeva in considerazione dieci variabili: età, sesso, lavoro attuale e
precedente, livello professionale, contenuto tecnologico della mansione,
iscrizione al sindacato e al partito socialista, sentimento verso il lavoro e
cause della soddisfazione/insoddisfazione. Come si vedrà nel seguito, non tutti
gli indicatori sono stati poi utilizzati, in parte a causa dell'alto numero di
"mancate risposte" ad alcune domande ([16]), in
parte perchè le elaborazioni condotte hanno dimostrato l'esistenza, in alcuni
casi, di una forte autocorrelazione tra variabili. In particolare si è notato
che esistevano poche differenze tra atteggiamento verso il lavoro e,
rispettivamente, professione, grado tecnologico della mansione e livello di
qualificazione posseduta. Si è quindi privilegiata l'analisi su quest'ultima
grandezza, che, in fin dei conti era in grado di fornire "spiegare"
degli andamenti della variabile dipendente (la soddisfazione nel lavoro) in
maniera assai puntuale e convincente.
5.
Come abbiamo accennato,
il campione è sbilanciato per alcune caratteristiche: le donne sono appena il
6% e l'età è generalmente bassa (mediamente 30 anni i maschi e 26 le
femmine). La tabella 1 fornisce la
distribuzione percentuale del campione secondo qualifica e sesso.
Tabella
1: Composizione del campione
Maschi Femmine Totale
Non Qualificati 8 (10,9%) 1
(20%) 9 (11,5%)
Semi Qualificati 17 (23,3%) 2 (40%) 19 (24,4%)
Qualificati 46
(63,0%) 2 (40%) 48 (61,5%)
N.R. 2 (2,7%) - 2 (2,6%)
Totale
73 (100%) 5 (100%) 78
(100%)
---------------------------------------------------------
La distribuzione per
lavoro svolto ci fornisce altre utili informazioni: mentre le donne in
maggioranza svolgono compiti esecutivi ed impiegatizi (80%), sono ben 57
(quindi il 78% del campione) i maschi adibiti a mansioni operaie, con vari
gradi di professionalità. Se passiamo
ad analizzare i dati attinenti il sentimento verso il proprio lavoro, otteniamo
i risultati indicati nella figura 1.
FIGURA 1
Come possiamo vedere,
coloro che escludono la possibilità che il proprio lavoro sia solo ed
unicamente penoso sono la grande maggioranza. Addirittura, come accennato in
precedenza, il 60% dei maschi lo ritiene fonte di soddisfazione. Abbiamo detto
della spiegazione che De Man fornisce di questo fenomeno, legato, a suo avviso,
ad una serie di istinti elementari che portano invariabilmente il lavoratore
alla ricerca della gioia ed al superamento degli ostacoli al suo
raggiungimento. Tale argomentazione,
chiaramente, non può convincerci a pieno.
6.
Una ricercatrice
francese, Jacqueline Frisch-Gauthier, in un saggio dedicato agli studi
sociologici sulla soddisfazione nel lavoro ha notato che l'uso di termini quali
"gioia" e "pena" sono ormai troppo datati, in quanto
collegati alla figura del lavoratore professionale, "per il quale il lavoro
creativo è di per sè stesso un fine, a scapito degli altri aspetti della sua
esistenza". ([17]) Le ricerche che nel secondo dopoguerra hanno
indagato il "morale" dei lavoratori (cioè quel complesso insieme di
adattamento, motivazione, soddisfazione) hanno invece chiarito che "il
lavoro è anche, se non principalmente, un mezzo per vivere e rendersi
accessibili altre fonti di soddisfazioni". ([18])
Secondo tali studi, ([19]) la
soddisfazione o meno del lavoratore viene a dipendere dal livello e dalla
gerarchia dei bisogni che lo animano.
Naturalmente, il livello dei bisogni varia con gli individui, a secondo
delle esperienze personali e collettive.
Si possono in tal modo spiegare i casi, altrimenti incomprensibili, di
lavoratori specializzati e ben remunerati che esprimono grandi insoddisfazioni
e viceversa.
Ma le cause che possono portare all'insoddisfazione o
meno non si esauriscono, evidentemente, con i bisogni economici, anche se
questi sono i primi che si cerca di soddisfare. Secondo la Frisch-Gauthier, una
volta raggiunto l'obiettivo economico che ci si prefigge (e che dipende
soprattutto da una autolimitazione cosciente delle aspirazioni), si
passa alla ricerca della soddisfazione in altri campi, professionali e
sociali. Il processo non è comunque a
senso unico: qualora il tenore di vita raggiunto è minacciato, è probabile un
ritorno nell'insoddisfazione:
"Gli
individui o i gruppi tendono a valorizzare i bisogni che essi cercano di
soddisfare nel momento presente, a scapito di quelli che li precedono
nell'ordine normale di urgenza, ma che sono già soddisfatti." ([20])
Tornando alle nostre 78
testimonianze, è chiaro che le ragioni dei differenti sentimenti verso il
lavoro vanno proprio ricercate alla luce di quanto detto, pur non dimenticando
che molto spesso la soddisfazione nasce con il venir meno degli aspetti più
penosi del lavoro (o almeno dalla loro compensazione).
Nella figura 2 sono
rappresentati i risultati ottenuti incrociando tra di loro le variabili
qualifica e sentimento verso il lavoro.
FIGURA 2
Esiste una forte
correlazione tra le due variabili, nel senso che all'aumentare della qualifica
cresce anche la soddisfazione verso il lavoro.
Un ulteriore elemento che interviene significativamente (seppur in modo
meno appariscente) nel determinare lo stato d'animo è l'età. Osservando la
figura 3 si nota infatti che il sentimento di gioia diviene più forte
all'aumentare degli anni.
FIGURA 3
Questo fenomeno non è
semplicemente riconducibile alla considerazione che, probabilmente, i
lavoratori più anziani sono anche quelli maggiormente qualificati. A riprova di quanto detto basta
"pesare" l'incidenza dei lavoratori qualificati per fascia di età. Si
scopre così che gli individui con la più alta professionalità si trovano nella
fascia superiore (il 75% degli ultratrentacinquenni è qualificato), ma anche
che all'estremo opposto, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, si
situano i lavoratori della fascia 31-35 anni (ben il 44% di non qualificati).
I giovani, che nel grafico appena presentato occupano il gradino più
basso, vengono qui a trovarsi in seconda posizione, con oltre il 65% di qualificati.
Rispetto all'età, quindi,
l'andamento della soddisfazione è più problematico. Una lettura ulteriore della figura precedente può essere tentata
tenendo conto di quanto detto circa il livello e l'ampiezza dei bisogni.
Probabilmente i lavoratori più anziani (e più esperti) sono riusciti a
conquistarsi, all'interno del proprio lavoro, delle posizioni soddisfacenti o,
quanto meno, hanno limitato le proprie ambizioni così da ottenere una certa
stabilità nel morale. Va poi tenuto
conto che, con il passare degli anni, influisce sempre di più il bisogno di
avere un "impiego sicuro", che permetta di mantenere il tenore di
vita acquisito.
Per i lavoratori della
fascia più bassa di età (fino a 25 anni) può valere, fino ad un certo punto, il
discorso inverso. Il fatto che i
giovani siano molto qualificati, ma altrettanto insoddisfatti, potrebbe
autorizzarci a pensare che essi, che rappresentano la "seconda
generazione" entrata in fabbrica, risentono di più del mancato
soddisfacimento delle proprie aspettative.
Un relativamente alto livello di istruzione (rispetto ai genitori)
potrebbe poi aggravare tale senso di frustrazione. A sostegno di tale ipotesi può venir citata la ricerca condotta
da Floyd Mann sugli 8000 dipendenti di una azienda americana. In quella occasione egli utilizzò proprio il
livello di istruzione quale misuratore indiretto delle aspettative. I risultati furono tali da portarlo a
concludere che i più istruiti erano potenzialmente anche i più insoddisfatti. ([21])
Quanto detto, comunque,
non può che rimanere una mera ipotesi.
Essa infatti non trova riscontro empirico nelle nostre 78 testimonianze,
dato che De Man non ci fornisce alcuna informazione circa il grado di
scolarizzazione degli intervistati e delle loro famiglie.
7.
Stabilito che il
sentimento verso il lavoro dipende fortemente dalla qualifica ed in misura
minore dall'età, si tratta ora di vedere sulla base di quali requisiti i
componenti del campione formano il loro giudizio. Estrarre dalle 78 interviste le principali cause di gioia e di
pena non è stato agevole, in quanto si è trattato di raggruppare sotto voci
omologhe una moltitudine di atteggiamenti e di stati d'animo. La tabella 2 che segue affronta appunto
questo argomento per la parte più consistente del campione, quella maschile. Il
numero delle preferenze è maggiore dei rispondenti, in quanto molti
intervistati motivano il proprio sentimento verso il lavoro con più
argomentazioni.
Tabella
2: Principali motivi di soddisfazione nel lavoro. Maschi
Motivo Val. ass. Val %
Varietà nel lavoro 45 36,9
Lavoro interessante 22 18,0
Colleghi 15 12,3
Organizzazione lavoro 9
7,4
Igiene 8 6,6
Paga e orario 6 4,9
Capi 5 4,1
Macchine 5 4,1
Sindacato 3 2,5
Monotonia 3 2,5
Fatica 1 0,8
122 100,0
-----------------------------------------------
Più di un terzo delle
risposte mettono in relazione la soddisfazione con il grado di varietà che il
lavoro permette. Tale dato assume una rilevanza
ancora maggiore se si tiene conto che i 45 che hanno dato la preferenza a tale
"item" rappresentano quasi il 62% del campione maschile. Molto importante viene anche ritenuto il
poter svolgere una mansione che interessa ed i cui risultati diano luogo ad una
intrinseca soddisfazione del lavoratore.
Spesso chi ha risposto in questo modo esprime una sorta di
"orgoglio del mestiere". Al
terzo posto tra i motivi di soddisfazione vi è il rapporto che si instaura con
i colleghi di lavoro (che in alcuni casi, come vedremo nella tabella
successiva, può però divenire un motivo di scontento). Continuando la nostra analisi troviamo due
categorie inaspettate, le macchine e la monotonia, a significare
che non sempre un lavoro parcellare e monotono è fonte di pena, semprechè tale
monotonia non sia eccessiva ed alienante.
Al contrario, un lavoro ragionevolmente ripetitivo può essere ben
accetto.
Passiamo ora a vedere per
quali motivi il lavoro può divenire un'attività penosa.
--------------------------------------------------------
Tabella
3: Principali motivi di insoddisfazione nel lavoro. Maschi
Motivo Val. ass. Val %
Monotonia 16 27,6
Capi 10 17,2
Orario e paga 9 15,5
Igiene 7 12,0
Organizzazione del lavoro 5
8,6
Disinteresse nel lavoro 4
6,9
Colleghi 3 5,1
Macchine 2 3,4
Fatica 2 3,4
58 100,0
----------------------------------------------
Come era logico
attendersi, in questo caso troviamo al primo posto la monotonia, a confermare
(se ve ne fosse bisogno) una tendenza dell'industria moderna che, già all'epoca
della ricerca, era assai accentuata. Il
lavoro è accettabile o meno sulla base della sua ripetitività. La fatica
fisica, al contrario, passa all'ultimo posto; a questo riguardo De Man afferma:
"Cinquant'anni
fa una inchiesta come la nostra avrebbe, certamente, denunciato nella fatica
fisica il principale agente di pena nel lavoro. Oggi, senza essere eliminata del tutto, passa in sottordine
davanti ad altri parzialmente nuovi." ([22])
Continuando l'analisi
della tabella 3 troviamo che le principali lamentele riguardano il rapporto con
i capi, che vengono criticati per i loro atteggiamenti autoritari e, ancor di
più, per la loro incompetenza ([23]);
l'orario (troppo gravoso) e la paga, che è considerata insufficiente anche da
quei lavoratori che, nel complesso, si dicono soddisfatti della vita di
fabbrica. Altro problema molto sentito
è quello del miglioramento delle condizioni igieniche. E', a guardar bene, la tematica della
nocività, così come fu posta dal movimento operaio e sindacale italiano durante
le lotte dell'autunno caldo.
Abbiamo finora ragionato
sulla parte maschile del campione. Se invece passiamo ad analizzare le
interviste delle 5 lavoratrici, ci rendiamo conto che le differenze non sono
sostanziali nè significative. La
varietà e l'interesse verso il proprio lavoro occupano i primi posti nella
graduatoria degli attributi che rendono soddisfacente l'impiego (entrambi con
il 27%). In terza posizione troviamo
l'igiene, infine il rapporto con i colleghi (9%).
Alcune differenze vi sono
sul fronte opposto, quello delle cause che rendono penoso il lavoro. Scomparsa del tutto la monotonia, grande
importanza viene attribuita al rapporto con i capi ed allo scarso interesse che
suscita la propria attività (entrambi 40%).
Tale diverso atteggiamento delle donne può essere facilmente spiegato
ricordando che esse svolgono, per lo più, mansioni impiegatizie e, risentendo
meno della monotonia (la taylorizzazione degli uffici era, ai tempi della
ricerca, ancora agli inizi) sono portate ad attribuire una maggiore importanza
ad altri fattori.
8.
Sin qui abbiamo dato per
scontato che i 78 lavoratori intervistati da De Man costituiscono un campione
scarsamente rappresentativo. Trattandosi infatti, per più dell'80%, di
militanti sindacali e socialisti, si potrebbe pensare che essi formano un
gruppo estremamente più critico di quanto sia ragionevolmente possibile
accettare in una ricerca di sociologia del lavoro. In realtà, dalla sostanza dei dati presentati, ci pare di poter
escludere che il campione presenti le distorsioni temute. Semmai ci si può stupire del buon rapporto
che lega questi lavoratori, che costituiscono la "avanguardia" della
classe operaia, al proprio impiego.
Cercheremo ora di
dimostrare che alcuni orientamenti espressi da questi lavoratori negli anni
Venti sono direttamente raffrontabili con i risultati di altre ricerche, assai
più ampie e recenti. Allo scopo ci
baseremo su due inchieste condotte, a distanza di undici anni (nel 1971 e nel
1982), da una nutrita schiera di sociologi ed avente per oggetto la condizione
dei lavoratori nell'industria italiana. ([24]).
Nel 1971, affrontando il
tema della "soddisfazione generale per il proprio lavoro", i
ricercatori notarono che "l'81% si è dichiarato molto od abbastanza
soddisfatto del proprio lavoro e solo il 17% si è detto poco o per nulla
contento" ([25]). Un risultato praticamente identico a quello
da noi presentato nella figura 1:: 81% di soddisfatti e 19% di
insoddisfatti. Anche l'andamento della
variabile soddisfazione rilevata nella ricerca Isvet '71 è la stessa presente
nel campione di De Man. Maggiormente
soddisfatti sono i lavoratori con le qualifiche più elevate ed i più anziani. ([26])
Diversa sembra essere l'opinione dei "lavoratori
post-industriali" intervistati nel 1982.
Alla domanda diretta sul grado complessivo di soddisfazione verso il
proprio lavoro soltanto il 71,8 % si esprime in modo positivo. Ed in molti casi senza motivazioni
"razionali": infatti, affermano i ricercatori, "un lavoratore su
cinque vive in quella forma specifica di alienazione soggettiva che consiste
nel rimuovere psicologicamente gli aspetti negativi della propria condizione
strutturale". ([27])
Un'ulteriore, e più
significativa differenza tra i tre campioni, la si trova nei motivi che rendono
soddisfacente un impiego. Si veda, allo
scopo, la tabella che segue, nella quale vengono comparati i cinque motivi di
soddisfazione che ottennero, nelle tre ricerche, le massime frequenze.
Tabella 4: Motivi che rendono il lavoro soddisfacente
-----------------------------------------------------
De Man (1924) Isvet (1971) Isvet (1982)
-----------------------------------------------------
Assenza di Buona paga Sicurezza del
monotonia (66,9 %) posto di lavoro
(61,5 %)
(58,2 %)
Lavoro Sicurezza del Colleghi
interessante posto di lavoro (48,6 %)
(32,1 %) (45,7 %)
Colleghi Lavoro interessante Buona paga
(20,5 %) (43,4 %)
(45,3 %)
Organizzazione Colleghi Lavoro
del lavoro (27,2 %) interessante
(12,8 %) (33,1 %)
Igiene Iniziativa nel Miglioramento
(12,8 %) lavoro professionalità
(23,8 %) (25,1 %)
------------------------------------------------------
Mentre i lavoratori
indagati da De Man attribuiscono grande importanza al contenuto del lavoro,
alla necessità di svolgere una mansione interessante, priva di monotonia, (al lavoro
in sè, quindi), per i lavoratori dell'industria moderna il grado di
accettabilità dell'impiego è fortemente correlato al suo aspetto strumentale. Quello che si cerca è un lavoro ben pagato
e, soprattutto negli anni più recenti, stabile nel tempo. Se poi tale lavoro è anche
interessante e lascia spazio all'iniziativa, la sua desiderabilità aumenta. Ma
non sono questi i requisiti indispensabili.
Evidentemente, rispetto ai tempi di De Man, sono cambiati i valori
centrali e l'idea stessa del lavoro, come anche i bisogni al cui
soddisfacimento il lavoratore attribuisce la priorità. Anche l'importanza che i lavoratori indagati
nel 1982 danno al rapporto con i colleghi è un aspetto della precarietà in cui
essi vivono. Non trovando sicurezza nell'azienda, nell'organizzazione tecnica
del lavoro, il desiderio di sicurezza si sposta e si soddisfa nei rapporti
amicali. Tra l'altro, non va
dimenticato che coloro i quali attribuiscono importanza ad alcuni aspetti del
lavoro sono anche quelli che ne lamentano l'assenza. ([28])
9.
In conclusione, ci pare
di poter affermare che l'oltre mezzo secolo trascorso tra le ricerche non è
bastato, nonostante i vasti cambiamenti strutturali intervenuti, a modificare
radicalmente alcuni atteggiamenti delle classi lavoratrici. Il lavoro, infatti, non può essere solo
fonte di pena, anche se tutti i presupposti indicano il contrario.
L'ipotesi avanzata nel
1971 dai ricercatori Isvet per spiegare l'alta percentuale di lavoratori
soddisfatti ci pare pienamente plausibile ed estendibile retrospettivamente
anche ai risultati della ricerca di De Man.
Secondo loro "i lavoratori possono definirsi globalmente
soddisfatti anche di una condizione sociologicamente negativa, se tale
condizione non lascia loro alternative e se l'influenza alienante
dell'organizzazione capitalistica, nell'atto stesso in cui li sfrutta, riduce
anche la loro capacità di cogliere la dimensione di questo sfruttamento".
([29])
Henri De Man, pur non
fornendoci una spiegazione siffatta (e, oggettivamente, neanche avrebbe potuto
farlo) ha ugualmente un grande merito, che rende ancor oggi estremamente utile
la lettura della sua ricerca. Quello di
aver capito che le problematiche della soddisfazione occupano un posto centrale
nelle aspettative dei lavoratori e vanno indagate in quanto tali.
[1]) Tra le più famose ricerche vale ricordare: D. Katz
(ed altri), Productivity, Supervision and Morale in an Office Situation,
Ann Arbor, University of Michigan Press, 1950; F. C. Mann, A Study of Work
Satisfaction as a Function of the Discrepancy Between Inferred Aspiractions and
Achievement, University Microfilm, Michigan, 1953; N.C. Morse, Satisfaction
in the White-Collar Job, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1953.
[2]) H. De
Man, Il superamento del marxismo, Bari, Laterza, 1929. C'è da notare che questo libro fu
aspramente criticato dalla sinistra italiana ed in particolare da Antonio
Gramsci, che definì l'autore "un esemplare pedantesco della burocrazia
laburista belga". (A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino,
Einaudi, 1975, pag. 1590)
[3]) H. De
Man, La gioia nel lavoro, Bari, Laterza, 1931, pagg. 29-30.
[4]) Ivi,
pag.78
[5]) Ivi,
pag. 51
[6]) Ivi,
pag. 52
[7]) Ivi,
pag. 173
[8]) Ivi,
pag. 174
[9]) Ivi,
pag. 176
[10]) Ibidem
[11]) Ivi,
pag. 218
[12]) Ivi,
pag. 176 e segg. Vi è da notare, per
inciso, che Daniel Katz, uno studioso che in tempi più recenti ha affrontato
tale campo di indagine, effettua in pratica la stessa suddivisione. Per Katz lo stato d'animo del lavoratore può
dipendere da tre cause principali: il contenuto del lavoro (il lavoro in sè);
la vita nell'ambiente di lavoro; la vita fuori dell'ambiente di lavoro. (Cfr.
D. Katz, "Soddisfazioni ed insoddisfazioni del lavoro industriale",
in A. Carbonaro, A. Pagani (a cura di), Sociologia industriale e
dell'organizzazione, Milano, Feltrinelli, 1970).
[13]) H. De
Man, La gioia..., cit., pag. 399.
[14])
Ibidem. La 'premonizione' di De Man,
purtroppo, non sembra essersi avverata, nè nelle società capitalistiche nè,
tantomeno, in quelle dell'ex- socialismo reale. A sua parziale scusante va però detto che la fiducia (mal
riposta) nelle possibilità di riscatto del lavoro grazie al progresso
tecnologico è tipica non solo di De Man, ma anche di una vasta schiera di
pensatori ed intellettuali, dal '700 fino ai giorni nostri. (Si vedano, quali
esempi: M. Dobb, Problemi di storia del capitalismo, Roma, Editori
Riuniti, 1972, pag. 402 e segg.; S. Friedmann, Problemi umani del
macchinismo industriale, Torino, Einaudi, 1949; e ancora, in tempi più
recenti, R. Blauner, Alienazione e libertà, Milano, F. Angeli, 1971).
[15]) Ivi,
pag. 9
[16]) E' il
caso, ad esempio, del lavoro precedente all'attuale, che veniva dichiarato
soltanto da 24 soggetti su 78.
[17]) J.
Frisch-Gauthier, 'Morale e soddisfazione nel lavoro', in G. Friedmann, P.
Naville, Trattato di sociologia del lavoro, Milano, Comunità, 1963, Vol.
II, pag. 193 e segg.
[18]) Ivi,
pag. 196
[19])
Pensiamo qui principalmente ai già citati lavori di Nancy Morse e Floyd Mann
(Cfr nota 1).
[20]) J. Frisch-Gauthier, Op. cit., pag. 222
[21]) F. C. Mann, Op. cit.
[22]) H. De
Man, La gioia..., cit., pag. 288.
Più oltre, comunque, precisa : "Una volta era la durata della
giornata di lavoro troppo lunga che era
la maggior causa di fatica nel lavoro industriale; oggi è la noia."
(Ibidem, pag. 334)
[23])
Critica che sembra dirla lunga sul valore attribuito da questi lavoratori al
"saper fare".
[24]) I
risultati delle due ricerche, patrocinate dall'Isvet, sono stati pubblicati in:
D. De Masi, G. Fevola (a cura di), I lavoratori nell'industria italiana,
Milano, F. Angeli, 1974, e in D. De Masi (ed altri), Il lavoratore
post-industriale, Milano, F. Angeli, 1985.
Per i nostri confronti abbiamo utilizzato, in particolare,
le risposte ottenute alle domande 16 (prima ricerca) e 5 (seconda indagine)
che, in ambedue i questionari erano formulate nell'identica maniera:
"Tutto sommato è contento del suo attuale lavoro ?".
[25]) D. De
Masi, G. Fevola, cit., vol. 1,
tomo II, pag. 524.
[26]) F.
Buratto, G. De Santis (a cura di), I lavoratori nell'industria italiana.
Appendici, Milano, F. Angeli, 1974, pag. 167 (tavola 43) e pag. 169 (tavola
46).
[27]) D. De Masi, cit., pag. 53. Si tratta, per dirla con
Blauner, di quella forma di alienazione che nasce dall'autoestraneazione,
dal distacco, cioè, dalla propria attività. (R. Blauner, cit.)
[28]) Ivi,
pag. 166 e segg. Si veda, in
particolare, la tavola 4.1 a pag. 167.